Capistrello, 25 aprile festa della libertà, di ogni libertà!

Ogni anno a Capistrello, la ricorrenza del 25 aprile si celebra davanti al sacrario dei 33 martiri, nei pressi del piazzale della stazione ferroviaria. È il luogo dove si consumò l’efferato eccidio nazifascista ad opera di un plotone di soldati tedeschi agli ordini del tenente Heinz Nebgen, il boia di Capistrello. Era il 4 giugno del 1944, il giorno in cui le truppe americane entravano a Roma.

Quest’anno il Covid-19 dissuaderà molti di noi dagli assembramenti, ma ciò non ci impedirà, di esprimere gratitudine a chi ci ha regalato la libertà al costo della propria vita. Il mio modo di farlo è proporre il pezzo introduttivo di La strage, la notte e la follia, un testo terminato proprio in questi giorni di isolamento forzato.

Il testo è ispirato dalle letture degli scritti di Romolo Liberale, poeta, scrittore, giornalista, fervente antifascista marsicano, autore della famosa Ode ai 33 di Capistrello e Antonio Rosini, presidente onorario della sezione marsicana dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia nipote di Alfonso e Loreto Rosini, due dei 33 martiri, autore di vari saggi fra i quali Otto mesi di ferro e fuoco, Giustizia negata e Le vicende del fucino dal 1670 ai giorni nostri

Lascio alla vostra sensibilità, il mio tentativo di immaginare cosa abbiano potuto provare quei 33 uomini davanti ai feroci aguzzini tedeschi, prima di essere barbaramente assassinati. Non dimentichiamo che se è successo una volta può accadere ancora.


La strage, la notte e la follia
(Capistrello 4 giugno 1944)

Il cielo era grigio, come la fossa scavata dalle bombe.

Respirai la polvere bruciata dei bossoli sparpagliati sulla terra bagnata, erano ancora caldi.

Uno sparo di pistola, uno solo, uno per ciascuno. L’indice sul grilletto, un colpo sordo tra la pioggia battente e l’ira dei tuoni.

Avevo sentito distintamente due spari, poi tornarono di nuovo nel capanno e presero Giacomo. Lo trascinarono fuori di peso ma lui riuscì a divincolarsi dalla presa e scappò via verso qualche direzione.

L’urlo della mitragliatrice lo raggiunse e se lo portò via assieme ai giorni, i mesi, agli anni che gli restavano ancora da vivere.

Arrivò il turno di Angelo, caporalmaggiore dell’esercito, l’aguzzino gli fece un cenno, lui lo guardò dritto negli occhi come a rovistargli dentro l’anima. Non trovò altro che il vuoto. Si incamminò verso la fine con lo sguardo fiero. Sul bordo del cratere gridò con tutto il fiato che gli restava in gola.

Viva l’Italia! A morte i tedeschi! –

L’eco del colpo secco rimbalzò tra i fianchi delle montagne e si allontanò verso valle. Un rumore di passi sempre più nitido si approssimò vicino al capanno. Non era ancora finita.

I soldati tornarono nella baracca e presero Loreto. Suo fratello Alfonso, il maggiore dei due, si offrì al suo posto, ma i tedeschi li portarono fuori entrambi. Sui loro volti emaciati, il presagio del dramma che stava per compiersi. Gli sguardi si cercarono per fissare nella mente un ultimo ricordo. Tutto ormai era compiuto.

La misericordia abbracciò la rassegnazione e furono liberi dalle miserie del mondo, al di sopra della follia degli uomini. Alfonso lo sapeva, il suo gesto non sarebbe servito a nulla ma l’idea di sopravvivere al fratello anche solo un minuto in più lo aveva fatto inorridire. La morte, piuttosto che sopportare la vista di un fratello assassinato. Redenti dalla paura saltarono verso l’ignoto. Se ne andarono tenendosi per mano.

La processione verso la fossa scura continuò ancora. Fu la volta dell’ottavo, poi il nono e poi, ancora un altro. I corpi giacevano ammucchiati uno sull’altro.

All’improvviso le urla strazianti di un ragazzino si levarono dal capanno. Aveva tredici anni, si chiamava Giuseppe.

Gli strilli si conficcarono come chiodi nel cervello di uno dei soldati e per un attimo il bagliore di un’umanità perduta incrinò la ferocia assassina del boia, ma fu solo un attimo.

Lo strapparono da una selva di braccia che non volevano lasciarlo andar via. Suo zio Antonio, lo strinse a sé fino alla fine, lo strinse a sé fino alla morte.

I predatori avevano fretta, dovevano soffocare nel silenzio quegli insopportabili vagiti che penetravano negli oscuri abissi delle loro coscienze. Aveva solo tredici anni; troppi per non capire, troppo pochi per andarsene per sempre.

In un altro luogo, in un altro tempo, avrebbe respirato le albe e i tramonti, avrebbe inseguito il fluire circolare delle stagioni.

Si sarebbe avventurato per quei crinali lievi e avrebbe sentito gli odori della salvia e del ginepro. Avrebbe corso sotto la pioggia e avrebbe segnato sentieri tra la neve, e poi, si sarebbe sdraiato sull’erba fresca e verde, e avrebbe guardato il gregge al pascolo, e le nuvole spinte dal vento.

Ma nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto. Quel giorno, Giuseppe, era solo il prossimo, un altro ancora e poi ancora, e ancora, fino all’ultimo; poi presero me.

Due soldati mi trascinarono fino al bordo estremo della fossa, ancora pochi respiri e tutto sarebbe finito. Guardavo i corpi dei miei compagni, quelli che mi avevano preceduto. Sembravano cose, oggetti bagnati, bagattelle ammucchiate sotto un temporale estivo.

Avvertii il ferro gelido della pistola dietro alla nuca. Quanto dura l’istante che ti separa dalla morte? Quanto vale il tempo che ti resta per un ultimo respiro, prima della fine?

Che sapore ha l’aria che ti attraversa i polmoni, prima che smettano di palpitare per sempre? Quanto brucia il tuo sangue nelle vene, prima che il cuore esaurisca l’ultimo battito?

Sentii distintamente la detonazione del proiettile. Lo scoppio divorò il silenzio e un attimo divenne eternità. La mia mente percepì ogni più piccolo impercettibile movimento di quello strumento di morte.

La mia coscienza si era dilatata oltre la mia comprensione, oltre i limiti del mio corpo. Sentivo la terra e il cielo, la pioggia e il fuoco, la meraviglia del Creato era tutta dentro di me. Il dito esercitò una leggera pressione sul grilletto e l’attimo dopo, il cane della pistola rovesciò la sua furia omicida sull’innesco del bossolo.

Il proiettile schizzò via, attraversò la canna e mi aprì uno squarcio alla base del cranio. Un calore intenso come lava incandescente inondò i miei sensi.

Emisi una specie di grido soffocato, come se la vita che mi stava abbandonando non volesse portarsi via l’antico dolore della mia gente, quel dolore che ci tramandavamo di generazione in generazione, abituati com’eravamo a soffrire.

Avevamo sofferto la fame quando il poco che c’era non bastava per tutti, e avevamo sofferto per la fatica, spezzandoci la schiena sui campi, sotto gli sguardi minacciosi delle guardie del principe, il padrone della terra. La sofferenza faceva parte della nostra esistenza, come la fatica e la fame, diventava ereditaria.

Dopo il nulla venivamo noi, i cafoni.

Il dolore di esistere che avevo ricevuto da mio padre era lo stesso che avrei lasciato a chi avrebbe trovato il mio corpo in fondo a quella fossa.

La pioggia fredda mi bagnò i capelli. Si mescolò al sangue caldo e all’odore acre della polvere da sparo. Le lacrime e il sudore, e brandelli di pensieri, danzarono attorno al mondo che si spegneva davanti a me. Poi fu il buio.

Crollai sui corpi dei miei compagni, immobile, muto, abbandonato come una cosa inutile. Non ero ancora morto ma sentivo il freddo della fine e un’infinita stanchezza. Non avrei mai creduto ci sarebbe voluto così tanto prima di morire, ma ormai, era solo questione di attimi.

Non serbavo odio, pensai a mia madre, ai miei fratelli, a Elena; ci saremmo dovuti sposare a ottobre. Guardai il cielo grigio sopra di me. Le nuvole sembravano barche sul mare dirette verso casa, poi l’anima scivolò via.

Il crepitio degli spari era terminato. Il sinistro echeggiare dei colpi era evaporato tra i pendii dei poggi. Un silenzio cupo si era impadronito della radura circostante. La stazione ferroviaria era rimasta deserta. Davanti alla rimessa il gruppetto di soldati restò immobile, come in attesa.

Dopo il temporale le ore scivolarono via indolenti verso il tramonto. Sembravano immerse nel caldo umido di un pomeriggio sospeso, quasi immobile. Il monotono ronzio degli insetti riverberò ovunque, tra i vicoli muti e i prati carezzati dal vento, negli orti riarsi e più giù, lungo il fiume, fino a quando l’ultimo raggio di sole sgattaiolò lesto a ovest, dietro il crinale della montagna.

Verso sera lo sferragliare sordo di un carretto trainato da un mulo, fece eco presso i bordi della fossa. L’animale, innervosito, scarrocciò di lato per cambiare direzione di marcia. Il nocchiero accovacciato sull’asse trasalì. Tirò a sé le redini e si alzò in piedi imprecando Dio, ma Dio, quel giorno, non c’era.

E mentre masticava i santi del calendario lo sguardo gli cadde nella fossa.

Sant’Antonio mio, Maria Vergine Santissima! –

Il sangue raggelò nelle vene, il cuore entrò in tumulto e la fronte si imperlò di sudore. In un attimo la sbornia fu smaltita. Si fece ripetutamente il segno della croce e inveì contro il mulo come fosse un cristiano. Schioccò selvaggiamente le briglie sulla schiena del povero animale, che imbizzarrito, strusciò gli zoccoli sulla terra bruna cercando una via di fuga.

Nelle case, le madri e le mogli aspettarono invano il ritorno degli uomini. Maria, la madre di Franco, corrosa dall’attesa, recitava il rosario con le altre donne. All’improvviso disse a una delle figlie di aprire la porta perché le pareva di aver sentito suo figlio chiamarla.

La ragazza rispose di non aver sentito nulla ma la madre insistette, Franco l’aveva chiamata, era proprio la sua voce, mescolata al rumore della pioggia. La figlia andò ad aprire l’uscio ma lì fuori non c’era nessuno. Tutti tacquero, un silenzio insostenibile riempì la stanza fino a che Amalia, la sorella di Maria, disse di aver sentito anche lei quel richiamo.

In quell’attimo, proprio nello stesso istante in cui la madre sentì la voce del figlio invocare il suo nome, Franco venne ammazzato dai soldati tedeschi.

L’oscurità tornò al suo posto. Nel buio, il lamento mesto di un cane randagio squarciò il silenzio innaturale di quella notte fatale. Leggere folate di vento formarono mulinelli di polvere che come antiche prefiche dolenti erano li a vegliare i morti.

Un cappello nero a tesa larga, spinto da una ventata, risalì dalla fossa per finire sul piazzale. Infine rotolò verso la ferrovia. Una folata lo sollevò di nuovo facendolo planare sulle traversine del binario. Sembrò inseguire le traiettorie del vento come per allontanarsi da tutto quell’orrore.

La notte indugiò a lungo sulla fossa, fino a quando, nel chiarore spettrale offerto dalla luna, alcune sagome cominciarono a prendere vita animate da una forza soprannaturale. Erano loro, i morti ammazzati che si risvegliavano.

Sembrava avessero appena terminato di riposare dopo una dura giornata di lavoro sui campi. I corpi no, quelli continuarono a giacere in fondo alla fossa. Le ombre cominciarono ad uscire dalla buca. Si sistemarono lungo il bordo come a volersi contare. Il primo a parlare fu Alfonso.

Mi sentite? Avete capito vero?

Erano tutti disposti lungo il perimetro della buca. Chi stava in piedi, chi accovacciato, chi ancora non capiva dove si trovasse. Qualcun altro cacciò un urlo quando riconobbe se stesso nel corpo rigido di una persona priva di vita, gettata nel fango con un buco nella testa.

E adesso che facciamo? – chiese qualcuno.

Non lo so. – rispose Alfonso

Torniamo a casa! Fece Luigi, aveva diciotto anni.

Casa? – gli rispose Alfonso

Qual è la nostra casa? – Fece uno.

Un fosso pieno di fango? – Chiese un altro.

Siamo tutti morti! – Urlò un altro ancora

Come sarebbe a dire siamo tutti morti! – chiese con espressione attonita (NOME)

Guarda laggiù. – gli rispose l’amico indicando con il braccio proteso i corpi nella fossa.

Ci hanno ammazzati tutti. – Aggiunse con un filo di voce.

Ma, Maria mi aspettava alle otto stasera!

Temo ti aspetterà per sempre. Ci aspetteranno tutti per sempre.

Quando nelle case avrebbero saputo della strage le grida di dolore si sarebbero levate fino al cielo. Le mogli si sarebbero strappate i capelli e le madri sarebbero rimaste attonite a fissare i corpi offesi dei loro figli. Poi, piegate dalla realtà, avrebbero scansato un pò del loro dolore e avrebbero pregato.

Uno iniziò a piangere, pensò a Giovanna. Non l’avrebbe più potuta abbracciare, non le avrebbe più potuto dire nemmeno quanto le volesse bene. La vita gli era sfuggita via senza preavviso e lui era rimasto intrappolato in quel tempo immobile senza passato né futuro.

Resteremo qui e aspetteremo! – disse Angelo

Cosa? chi dobbiamo aspettare? – chiese Loreto

Aspetteremo di essere chiamati – rispose Alfonso

Per chi si trova davanti all’eternità, l’attesa è un dettaglio insignificante, una circostanza senza senso. Che strani gli uomini, vanno sempre di fretta, come se il tempo non gli bastasse mai, poi però, quando gliene resta troppo, provano ad ingannarlo.

Si illudono di poterne disporre a proprio piacimento senza capire che il tempo non passa mai perché lui è lì da sempre. La verità è che sono gli uomini a essere passati dal tempo, loro passano, il tempo resta.

Rimasero a lungo in silenzio a guardarsi gli uni con gli altri, ancora frastornati, come a volersi convincere di quella nuova condizione di esistenza. Erano diventati parti infinite del tempo, lievi bagliori di eternità.

Alle prime luci dell’alba le ombre si dissolsero. In fondo alla fossa restarono solo i poveri corpi senza più anima. Passarono cinque giorni prima che le urla salissero al cielo. 

 ….. (segue)

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