Celano. È stata licenziata “per giusta causa” il 27 febbraio. Il 25 aprile, dopo nemmeno due mesi, è morta. Un tumore al seno non le ha lasciato scampo. Ma a farla soffrire non è stato solo il dolore legato alla malattia ma anche quello causato dal fatto di non essere riuscita a vincere la battaglia per mantenere il suo posto di lavoro.
A raccontare la storia di Antonella Cerasoli, 41enne di Celano, ex dipendente di una nota catena di discount, è una delle sue sorelle, Marina. “Per questa storia Antonella è stata molto male. Era una donna precisa, non sbagliava mai”, dice Cerasoli, “prima di aggravarsi è stata diverse volte all’Inps, voleva contattare un sindacato, ha parlato con il patronato ma poi le forze non le hanno retto. Aveva pensato lei alla stampa, voleva che contattassimo i giornalisti per raccontare la sua storia, si sentiva vittima di un’ingiustizia”.
La storia di Antonella però è uscita solo ora, dopo la sua morte. Perché poi Cerasoli, madre di un bimbo di quattro anni, ha perso le forze e ha scelto di allontanarsi da casa.
“È difficile parlare di tutto questo”, va avanti la sorella Marina, “ma Antonella era diventata un simbolo di forza, è stata un esempio di vita per tutti noi e in questo modo potrà diventarlo anche per chi ogni giorno combatte una sua battaglia. Mia sorella ha scelto di vivere i suoi ultimi giorni lontano dalla sua casa, non voleva che il suo bambino la ricordasse malata e senza vita in quella che era la casa in cui avrebbe vissuto tutta la vita. Una donna piena di amore, con tanta dignità, che siamo certi che quando sarà grande anche suo figlio le riconoscerà. Una dignità che qualcuno, ingiusto, ha provato a toglierle, togliendole un posto di lavoro, senza motivo”.
“In questa storia andremo avanti”, continua, “il marito di mia sorella, al quale lei era legato da un profondo amore ma anche da una grande stima, ha tutte le carte che dimostrano che quello che diciamo è vero. Mia sorella ha continuato ad andare a lavoro fino a quando ce l’ha fatta. Non ha approfittato di nulla e si è sacrificata, perché voleva lavorare ed era orgogliosa di quello che faceva. I suoi colleghi potranno testimoniare di quanta dedizione usava sul posto di lavoro. Non la vedevi mai ferma, era corretta e ineccepibile. Andava a lavorare e poi si sottoponeva a tutte le cure che la debilitavano ma che però non sono riuscite a salvarla”.
“La cosa che più la faceva stare male erano quelle continue chiamate ai suoi datori di lavoro”, dice Marina Cerasoli, “da un letto di ospedale continuava a telefonare per avere spiegazioni. Lei quel comparto non lo aveva superato. Non aveva superato i giorni di assenza. Lo sapeva e voleva solo capire perché le stavano facendo questo. Ci hanno provato. Ed è andata bene, perché Antonella è morta. Mia sorella sapeva che stava per morire. Aveva avuto premuta di lasciare tutto in ordine, pulito, stirato, come solo lei sapeva fare. Ha dovuto combattere contro un male che ce l’ha portata via e che l’ha sconfitta ma per questo le abbiamo provate tutte, ha sopportato tutte le cure possibili immaginabili ma l’abbiamo persa. Ma non potrò mai rassegnarmi al fatto che ha dovuto combattere anche contro un’ingiustizia, mentre era in quelle condizioni, che le ha tolto anche la soddisfazione, dopo tanti anni di lavoro, di sapere che comunque, se ne andava con la consapevolezza di aver lavorato, e bene, da quanto era giovanissima. Pensava che le venisse riconosciuto. Una vita di sacrifici ripagata così, senza nemmeno una risposta a una telefonata, senza nessuna spiegazione. La forza per andare avanti anche in questa battaglia, sono sicura, cela darà lei”.
Abbiamo provato a contattare qualche responsabile della catena di discount in cui Antonella Cerasoli lavorava ma non ci è stato possibile parlare con nessuno al di fuori dell’operatore del centralino. Ci è stata fornita la mail dell’ufficio stampa a cui avremo premura di inviare l’intervista per chiedere spiegazioni sul licenziamento della giovane madre celanese.