Avezzano. L’Avezzano Rugby spegne quest’anno 40 candeline e per festeggiare, lo scorso 4 febbraio, la club house marsicana ha accolto calorosamente il giornalista e commentatore sportivo, Marco Pastonesi, nonché autore del libro “L’Uragano nero, Jonah Lomu, vita, morte e mete di un All Black”.
Classe 1954, ex ciclista ed ex giocatore di rugby di serie A, Pastonesi è una firma della «Gazzetta dello Sport», per la quale ha seguito dodici Giri d’Italia, nove Tour de France e un’Olimpiade, ma anche due Giri del Ruanda e uno del Burkina Faso. Intervistato da Federico Falcone e accompagnato dalle letture di Alberto Santucci, il giornalista ha ripercorso le tappe salienti della carriera e della vita del giocatore, simbolo dello sport della palla ovale.
“Lomu era un Dio, era di un altro pianeta. Questo è un libro omaggio al campione ma è anche un’opera sul rugby. Abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti di chi ci ha costretto a giocare – racconta Pastonesi – io ce l’ho nei confronti di mio fratello”.
“Avere la possibilità di lavorare con Marco è un privilegio che, per chi come me ama questo sport, non è una cosa che capita tutti giorni” dichiara Federico Falcone.
“A nome di tutta la società voglio ringraziare Federico Falcone e Marco Pastonesi. Il primo per aver creduto in questo progetto, il secondo per averlo sposato e per averci regalato un pomeriggio indimenticabile. ” dichiara Alessandro Seritti, presidente della società sportiva marsicana.
Per l’occasione, al termine dell’evento, abbiamo rivolto qualche domanda al noto giornalista. Buona Lettura
In cosa è cambiato lo sport del rugby nel corso degli anni?
Nell’alto livello il rugby è passato dal dilettantismo al professionismo, nel gioco si è velocizzato, potenziato, muscolato ma nei valori è rimasto lo stesso. Quei valor di solidarietà e di comunità sono rimasti gli stessi, quelli di rispetto delle regole, degli avversari, quei valori di lealtà sono rimasti gli stessi e questo è un piccolo miracolo. La cosa bella è guardare quello che succede prima e dopo le partite, fra i giocatori e nel pubblico. Una sorta di amicizia e appartenenza al mondo ovale che ha le sue regole e i suoi valori.
Come si arriva alla Laurea in Giurisprudenza e poi al mondo del giornalismo?
Ho scelto Giurisprudenza perché allora il giornalismo era una professione senza un accesso sicuro. Si poteva diventare giornalista ma soprattutto potevi non diventarlo. Allora avevo bisogno di avere le spalle coperte e questa facoltà apriva concretamente delle strade. Presa la laurea, ho ringraziato i miei genitori per la sponsorizzazione e ho tentato il giornalismo. Con molta gavetta e fortuna, ho avuto la mia possibilità. Oggi l’approccio al giornalismo è completamente cambiato ma la professione si è snaturizzata, è un copia e incolla nella maggior parte dei casi e non esistono più le condizioni economiche per chi scrive per poter fare il mestiere di giornalista sia nell’indipendenza sia per andare in giro per il mondo, che può essere anche solo andare in giro nel quartiere (ride ndr). Il giornalismo per me è un’attività stradale come il ciclismo, ma vi è una grande difficoltà ad essere indipendente. Sei legato da slegato. Io appartengo ad una delle ultime generazioni che ha avuto la fortuna e il privilegio di lavorare per un grande giornale. Da freelance mi accorgo che si è sottopagati da pagati.
Quale è la partita di rugby che ricorda con più emozione?
La partita che mi ha suscitato più emozione è stata quella giocata all’interno del carcere minorile “Beccaria” di Milano, dove 5 All Blacks, nel 2005 hanno partecipato ad un allenamentopartita con i ragazzi del carcere. È stato un momento carico di emozioni, e sono stato molto fortunato ad essere lì. Gli spettatori erano gli altri carcerati che guardavano dalle loro finestre e che, sebbene non avessero accettato le regole del gioco, era evidente il fatto che fossero stati sedotti dall’umanità della palla ovale.
Tra il rugby e il ciclismo, c’è uno sport che preferisce?
Il rugby mi ha educato, e il ciclismo mi ha divertito. Il rugby è una scienza umana, secondo me, il ciclismo è una geografia umana.
Secondo lei, c’è un erede di Jonah Lomu?
Ce ne sono tanti e proprio per questo non ce ne sono.