Territorio, ordine pubblico, giustizia nella Marsica borbonica (1772-1789)

Carrito e il valico di Forca Caruso
Carrito e il valico di Forca Caruso

L’ingovernabilità e il sovversivismo ormai da tempo si erano diffuse in quasi tutte le province periferiche del regno di Napoli, non escludendo, come andiamo narrando, l’Abruzzo e la Marsica. Addirittura, nel 1778 furono affissi nel nostro territorio due significativi manifesti. Il primo vietava di lanciare pietre durante le numerose contese zonali tra popolazioni limitrofe, essendo divenuta pessima costumanza portare in tasca sassi per difendersi o offendere un avversario. La pena inflitta dalla «Gran Corte della Vicaria» condannava tutti i trasgressori a sei o dodici anni di prigione, divisi in altrettanti anni di servizio militare obbligatorio, commutabili a sei anni di presidio presso la fortezza di Gaeta. Nel secondo proclama, il re Ferdinando IV, talvolta accordò ai rei un condono generale specialmente per tutti coloro che gemevano nelle terribili carceri borboniche del reame e ai fuggiaschi colpevoli di delitti o misfatti. Quindi, il sovrano cercò di usare clemenza per colpe anche in contumacia e altrettanta indulgenza verso banditi, fuor giudicati, condannati, sia per cause civili sia criminali (1).

Nonostante ciò, le cronache del tempo riportano parecchi episodi cruenti di banditismo locale registrati ai confini della Marsica avvenuti in luoghi isolati prospicienti passi montani o boscaglie impervie. Una delle vicende più gravi registrate riguardano gli abitanti del piccolo borgo di Carrito, che furono costretti ad abbandonare i loro averi «per l’incomoda vita, che menavano e per gli continui assalti de’ malviventi, che s’erano annidati nella vicina boscaglia di Forca Caruso», rifugiandosi presso la più sicura Ortona dei Marsi. Rimasero nel vecchio villaggio solo sei famiglie, dedite alla coltivazione dei campi. Tuttavia, i sacerdoti del borgo accogliente pretesero che le rendite appartenenti alla vecchia chiesa «Madonna della SS.ma della Pietà e di S.Nicola», fossero incluse nel loro Capitolo. Di fatto, però, il beneficio delle cappellanie apparteneva a un arciprete napoletano «senza che ivi faccia residenza ne porti altro peso, se non di mandare ne’ giorni festivi colà un sacerdote a celebrare» per paura di essere ammazzato dai banditi. Il clero ortonese, nella richiesta inoltrata al vescovo dei Marsi si impegnava, comunque, per «il comodo di dette sei famiglie, il peso di somministrar loro i Sacramenti con sommo disagio della distanza dal luogo» (2).

In questo quadro non certo edificante caratterizzato da incertezze per il viver quotidiano, da stridenti contrasti sociali, da vagabondaggio di povera gente e da continui passaggi delle squadre di Campagna dipendenti dall’Udienza aquilana, la delinquenza doveva inevitabilmente aumentare. Nonostante ciò fu stabilito, inoltre, che si dovesse irrogare la pena di morte «incontinente senz’altro processo ne’ luoghi medesimi, dove avranno commessi detti assalti e arrobbi»; si trattava di una esecuzione immediata della pena con il rito «ad modum belli»(3). Malgrado l’inasprimento delle punizioni, in un vasto e selvaggio territorio privo di vere strade e vie di comunicazione, la mattina del 6 settembre 1778, Gian Nicola D’Andrea e Nicola Ruscitti (ambedue di Antrosano), furono assaliti dai banditi sul «famigerato» valico di Forca Caruso, in località «Femmina Morta». I due malcapitati stavano recandosi con le loro rispettive cavalcature nella città di Pescara per «caricare il Regio Sale occorrente all’Università di Civita d’Antino». La banda era guidata dal chierico Gassiano Pozzi di Magliano dei Marsi che, dopo aver spogliato i due di ogni avere, li fece bastonare a sangue dai suoi uomini. Il giorno dopo, pieni di «lividure, e contusioni», i «cavallari» denunciarono l’accaduto al governatore Francesco Ferrante di Magliano dei Marsi, avendo riconosciuto alcuni elementi del posto. La delazione giunse presto nelle mani del vescovo Francesco Vincenzo Lajezza che venne a conoscere di altre violenze perpetrate dal Pozzi nel paese e dintorni: infatti, da tempo osava minacciare spavaldamente chiunque lo avesse ostacolato, girando armato fino ai denti. Alcuni benestanti del luogo già avevano subito furti di bestiame, intimazioni e ricatti dal chierico che comandava una nutrita comitiva di «altre persone scapestrate». Il presule era consapevole dei misfatti del Pozzi anzi, più volte lo scomunicò, invitandolo a deporre l’abito talare. Con una chiara missiva indirizzata al governatore scrisse in seguito: «non avendo il Pozzi adempito al Servizio della Chiesa, non ha declaratoria a tenore del Concordato, e quindi non può godere de’ Privilegi del Foro». Evidentemente, il magistrato stava aspettando l’occasione per arrestarlo e, proprio in questa favorevole circostanza, spiccò mandato di cattura per tutti i componenti della banda, catturati dai «miliziotti del Tribunale di Campagna». Alcuni mesi dopo, Venanzio Pozzi (zio del chierico), inoltrò supplica di scarcerazione sotto la sua responsabilità con la promessa di far «mettere in codesto Seminario il suo nipote Gassiano» (4).

Occorre specificare che le milizie provinciali in questo periodo erano composte da «Fucilieri di Montagna e miliziotti dell’Udienza aquilana» che dipendevano dai Tribunali di Campagna, con i loro commissari e relativi drappelli armati o leggeri, spesso provenienti dalle famiglie feudali del posto con funzioni di polizia. Certamente, tradurre in pratica operativa la richiesta di strumenti più affidabili di controllo della criminalità e dell’ordine pubblico non fu sempre facile nella seconda metà del Settecento a causa dei privilegi ancora in uso e delle confuse forme organizzative assunte dai nascenti corpi armati provinciali (5).

NOTE

  1. Archivio di Stato di L’aquila, Fondo del Preside, Affari Generali, 1ª Serie, cat. 27, b.21. La Gran Corte della Vicaria esercitava la giurisdizione nel regno di Napoli come magistratura di appello di tutte le corti del regno per le cause criminali e civili. Tra l’altro, emanava bandi a tutela dell’ordine pubblico e del diritto sulla proprietà.
  2. Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo C, b.44, fasc.994, Ortona 1772-1777; Cfr. A.S.Aq., Notai del distretto di Avezzano, b.128, Paolo Ferrante, Pescina 1767-1786.
  3. Prammatica De furtis, in Giustiniani, Nuova Collezione, Tomo VI, tit.CXVII, p.88.
  4. Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo C, b.48, fasc.1038, Magliano 1778.
  5. Corpi armati e ordine pubblico in Italia (XVI-XIX sec.) a c.di L.Antonielli e C.Donati, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2003, pp.5-8. Si vedano in particolare le pagine scritte da: E.Papagna, Ordine pubblico e repressione nel Mezzogiorno d’Italia (secoli XVI-XIX), pp.49-72. Cfr. Raffaele Feola, Aspetti della giurisdizione delegata nel regno di Napoli: il tribunale di Campagna, Archivio storico per le province napoletane, A.91 (1973) pp.23-71.

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