“Avezzano ha cessato di esistere”, il drammatico racconto di Guglielmo Marconi dopo aver visto Avezzano devastata dal terremoto del 1915

"Avezzano ha cessato di esistere"

Avezzano – Sulla prima pagina del giornale storico statunitense “The Rocky Mountain News (Daily)“, pubblicato a Denver, in Colorado, nel Volume 56, Numero 16, del 16 Gennaio 1915 è accolta la cronaca, scritta direttamente da Guglielmo Marconi che, come le cronache ci hanno spiegato, era giunto ad Avezzano poco dopo la violenta scossa del 13 Gennaio 1915 per installare una stazione radiotelegrafica.

Le cronache trasmesse dall’illustre inventore italiano assumono grande risalto sul giornale. “Migliaia di grida sotto le macerie” e “I sopravvissuti continuano ad agonizzare“, queste le parole scelte per il titolo dell’articolo. “Marconi afferma che i soccorritori non sono in grado di raggiungere le vittime e che l’Olocausto ha ridotto in polvere Avezzano“.

Dopo aver visto quanto accaduto ad Avezzano, Guglielmo Marconi era tornato a Roma insieme al re Vittorio Emanuele III. Questo il racconto che l’inventore fece (tradotto in italiano): “Avezzano ha cessato di esistere. A Messina alcuni edifici, soprattutto quelli sul lungomare, danno l’impressione che siano ancora intatti, le loro facciate sono sopravvissute allo shock mentre sono crollati solo gli interni. Non così ad Avezzano. Nessun muro rimane intatto. Sembrava che la città fosse stata ridotta in polvere da una macchina gigantesca.

Il re Vittorio Emanuele mi raccontò che fin da bambino aveva visitato i luoghi di tutti i terremoti avvenuti in Italia, ma questo superò tutti gli altri, compresa Messina. Il re disse che i sopravvissuti di Avezzano erano solo tra il 2 e il 3% della popolazione, mentre a Messina un terzo delle persone riuscì a fuggire. Gli avezzanesi hanno abbandonato gli sforzi per estrarre i corpi dei morti dalle macerie e dedicano tutta la loro attenzione agli sforzi per salvare i vivi prigionieri tra le macerie.

La catastrofe fu di proporzioni così vaste che nessuna organizzazione umanitaria avrebbe potuto fare nulla per dare un sollievo immediato. Il popolo era disperato per la propria impotenza a prestare soccorso a coloro che invocavano aiuto dal luogo della loro sepoltura. Durante il primo giorno del disastro i soccorritori furono così pochi che non poterono nemmeno tentare di scavare nei luoghi da cui provenivano grida di pericolo, e piantarono dei pali qua e là in quei punti, sperando di tornare più tardi con forze adeguate per liberare le vittime.

Quando arrivarono i soccorritori, tuttavia, la maggior parte delle voci si spense e i pali erano semplicemente indicatori dei punti sotto i quali giacevano i morti. Ho sentito provenire da sotto le rovine della scuola femminile di Avezzano le voci di due alunne che imploravano aiuto. Le ragazze hanno detto di essere illese. Erano protette da un pianoforte, sotto il quale erano cadute e che si era incastrato tra le macerie e fungeva da schermo dalle pareti cadenti della scuola.

Dapprima soffocate dalla polvere e poi intirizzite dal freddo, erano rimaste per due giorni senza nutrimento, e nonostante gli strenui sforzi fatti per liberarle, le ragazze erano ancora prigioniere quando lasciai Avezzano per Roma. Prima della mia partenza ho cercato di organizzare piccoli gruppi di uomini per tentare di spegnere gli incendi che erano scoppiati in diversi punti tra le macerie e che senza dubbio hanno bruciate vive alcune delle vittime immobilizzate.

La difficoltà di domare le fiamme era quasi insormontabile, perché in paese mancava quasi del tutto l’acqua. Migliaia di vittime sono ancora sepolte vive tra le macerie delle loro case, mentre i soccorritori di ogni ceto sociale lottano disperatamente per tirarle fuori“.​

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