Clero, ceti sociali e regime fiscale nella Marsica vicereale (1633-1638)

Il convento di S.Maria Valleverde di Celano prima del terremoto
Il convento di S.Maria Valleverde di Celano prima del terremoto

Lo storico Giuseppe Coniglio sintetizza correttamente il carattere esclusivo del governo spagnolo nel regno di Napoli e nelle province periferiche come la Marsica: «Le autorità spagnole s’interessavano del Paese solo per valutarne la capacità contributiva e tutte le notizie raccolte avevano lo scopo di calcolare le entrate riscuotibili. Le uniche manifestazioni dello Stato erano a carattere fiscale» (1).

In effetti, la monarchia spagnola, dal 1530 adottò una politica di centralizzazione del potere, lasciando il controllo amministrativo e giudiziario dell’intero territorio e delle popolazioni provinciali al baronaggio (vedi i Colonna e i conti di Celano). I capitali furono diretti dal commercio verso l’acquisto di quote del debito pubblico, attraverso sistemi di appalto per la riscossione delle tasse «arrendamenti», molto più remunerativi che qualunque impresa commerciale. La monarchia vendette ai creditori e agli affittuari delle tasse l’amministrazione e il controllo del pagamento delle rendite. D’altronde, la pratica statale della cessione dei crediti derivanti dalla futura riscossione delle «gabelle» ai privati era già in uso, ma prima del 1649 fu sempre lo Stato a controllare la correttezza delle procedure e delle riscossioni attraverso un delegato di nomina governativa (2).

Questa guerra aperta tra nobiltà, Stato e clero secolare, combattuta sul terreno dell’amministrazione finanziaria, contribuì notevolmente nel territorio marsicano a creare disuguaglianze, prevaricazioni tra ceti sociali e a causare condizioni di vita miserabili. 

Tanto è vero che i poveri monaci del convento di S.Maria Valleverde (situato fuori la cinta muraria di Celano), nel novembre del 1633, ormai disperati e ridotti alla fame, furono costretti a ricorrere all’abate Peretti, affinché spedisse una pressante supplica alla contessa, scrivendo: «Illustrissimo Monsignore. Li poveri frati zoccolanti di S.Maria a’ Valle Verde di Celano per sovvenzione di lor diritto havevano dalli illustri Signori passati, sedici tomole di mosto ogn’anno, et per l’alienazione dello Stato, alli poveretti è mancata detta limosina annua per il che malissimamente ponno mantenersi, donde suprema S.V.Illustrissima voglia per amor di Dio sovvenirgli Lei di questa elemosina, che mai smetteranno di fare orazioni per l’esaltazione della persona sua e di tutta la Casa». La risposta alla petizione, dato gli eventi, giunse solo nel tardo novembre del 1639 con una missiva scritta dalla contessa di Celano, che raccomandava i frati al suo amministratore in loco: «Si continui l’elemosina solita a Frate Domenico da Nereto, Guardiano elemosiniere. Non è stata mia intenzione che s’interrompesse l’elemosina solita a’ darsi dalla mia Corte a’ codesto Convento; onde con l’ordine che viene qui aggiunto V.P. potrà procurarne non solo la continuazione, ma la soddisfazione ancora per qualsiasi altro impegno, nella quale è mancata». Effettivamente, il monastero fondato dalla duchessa d’Amalfi il 27 agosto 1504 (la pergamena si trova ancora nel convento di S.Maria Valleverde) doveva ricevere ogni anno dalla corte di Celano ben cinquanta ducati (3).

Due anni dopo, anche il vescovo dei Marsi (allora risiedeva a Pescina) descrisse la situazione socio-economica della Marsica con toni drammatici. Infatti, con lettera diretta ai suoi superiori e al viceré di Napoli, Monsignor Lorenzo Massimi, così esponeva: «I redditi delle chiese sono molto scarsi, poiché tutti i Beneficiati sono quasi costretti a mendicare, e rimangono pochi abitanti, date le continue calamità. Le chiese che il presente Vescovo ha visitato, sono molto povere e mancano di tutto il necessario, e quel che è peggiore, gli abitanti non possono prestare alcun aiuto, data la loro estrema miseria» (4).

In tale congiuntura, l’adattamento alla normale vita sociale nella zona divenne sempre più difficile, indirizzando molti braccianti, contadini e pescatori verso devianze delinquenziali e banditesche. Tanto è vero che, proprio lo stesso presule marsicano ne subì le conseguenze quando nel 1638, dopo aver riscosso una cospicua colletta dalle chiese di Tagliacozzo (decime, benefici e cappellanie) pensò di indirizzare l’intero ricavato, più altri generi di prima necessità, a Roma per rendere omaggio al Papa-Re. Si trattava di: «Quattro sue bestie con alcune robbe, et abiti episcopali con il Rocchetto, e di sovrappiù vi erano trentuno presutti [prosciutti] sedi decine di lino, et ottocento pere». Come al solito, la carovana venne assalita dai banditi appena cominciò a salire i monti che dividevano lo Stato pontificio dal regno di Napoli «nel mezzo della sua Diocesi, molto lontano dallo Stato Ecclesiastico». Il vescovo molto indignato per l’accaduto e, dopo aver riferito dell’avvenuta rapina alla «Sacra Congregazione», scomunicò tutti i malviventi che avevano partecipato al vile attentato (5).

NOTE

  1. G.Coniglio, Aspetti della società meridionale nel secolo XVI, Fiorentino, Napoli 1978, pp.12-13; Cfr., M.G.Maiorini, Il viceregno di Napoli. Introduzione alla raccolta di documenti curata da Giuseppe Coniglio, Collana «Quaderni della Facoltà di Scienze Politiche», Officine Grafiche F.Giannini & Figli,, Napoli 1992, p.182.
  2. L.De Rosa, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale (1649-1806), in «Studi Storici», 1, 1, 1959, L’Arte Tipografica, Napoli, 1958. Cfr., L.C.Manfredonia, Gli arrendamenti. Fonti documentarie conservate presso l’Archivio di Stato di Napoli, I, con pref. di L.De Rosa, L’Arte Tipografica, 1986.
  3. Biblioteca S.Maria Valleverde di Celano, si tratta di due fogli senza classificazione d’archivio. Cfr., C.Tollis, Storia di Celano, Pescara 1967, p.140.
  4. Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo B, b.57, fasc.158.
  5. Ivi, b.57, fascc. 157-159. Il segretario del Dicastero dal 1622 al 1649, fu monsignor Francesco Ingoli che indirizzava tutte le missive ricevute dai vescovi a nunzi superiori generali. Si trattava di un Dicastero molto informato della Curia Romana. Alla Congregazione spettava il compito di dirigere il Dicastero e godeva di diretta ed esclusiva competenza nei suoi territori inviando rapporti e risoluzioni ai presuli.

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