Lo storico Julian Paz y Espeso, nella sezione manoscritti della Biblioteca Nazionale di Spagna (Archivio Simancas) ha sostenuto che nella prima metà del Seicento, prevalse nel viceregno napoletano il giudizio del marchese di Vélez secondo il quale, essendo i banditi molto forti e ben addestrati, in grado di competere con le truppe regolari e di opposizione, bisognava venire a patti con qualsiasi mezzo.
Per Don Pedro de Aragon, invece, il banditismo era un male endemico sempre presente alla frontiera abruzzese e pertanto difficile da estirpare. Altri ancora, consideravano il banditismo come una piaga perenne. Alcuni sostennero che, dietro i banditi c’erano i francesi i quali, con i loro ambasciatori presenti a Roma, favorivano scorribande nel duplice scopo di tener inquieto il regno di Napoli, impegnando l’esercito spagnolo all’interno piuttosto che in altri luoghi (1).
Ovviamente non mancarono le protezioni della grande feudalità, come il marchese del Vasto, di Lanciano, i Barberini, i Colonna e i conti di Celano. Proprio per questo la distruzione del banditismo non era facile, anche perché i masnadieri erano in grado di autofinanziarsi attraverso il contrabbando assai fiorente tra l’Abruzzo e lo Stato della Chiesa.
Tuttavia, un miglioramento nella lotta al banditismo si ebbe con l’avvento del marchese del Carpio: la sua proposta di impiegare l’esercito spagnolo per snidarli definitivamente dalle montagne abruzzesi, all’inizio non incontrò il favore della Corona, poiché questo comportamento poteva indulgere a legittimare la forza dei banditi. Resta inteso che, l’uso dell’esercito nella repressione del banditismo alla fine prevalse nella seconda metà del Seicento, perché ormai da qualche tempo il fenomeno rappresentava un elemento pericoloso di disgregazione sociale e politica, sfuggito di mano ai viceré e poi persino alla grande feudalità.
Bisogna tener conto che ogni feudatario aveva al suo servizio uno o più capibanda cui demandava il controllo delle proprietà, assicurandosi il regolare svolgimento dei lavori nei campi e il pagamento dei tributi feudali; in cambio, veniva garantita protezione dalle possibili azioni repressive vicereali e, in caso di necessità, armi, cibo e ricovero.
Spesso tra i soldati erano arruolati ex banditi indultati, che negli scontri diretti battevano in ritirata o favorivano la fuga dei complici locali. Nondimeno, la fermezza e le condanne dei feudatari apertamente coinvolti in violenze e attività illecite non comportò la rottura dei rapporti con la classe nobiliare nel suo insieme; al contrario, i viceré cercarono sempre di mantenere un equilibrio con le famiglie più potenti del regno.
Naturalmente, come abbiamo già rilevato, anche le milizie rappresentavano un vero e proprio flagello per la popolazione, poiché per il proprio sostentamento e per la dissolutezza dei soldati, compivano furti e ogni genere di violenze. Molti celebri capibanda vivevano in torri e «caseforti» (come sono descritte spesso nelle Consulte), che erano strategicamente disposte sulle alture, permettendo il controllo dei campi e delle vie di fuga. In ogni caso, con la «Prammatica de exulibus», emanata il 12 giugno 1684, il marchese del Carpio dette una svolta decisiva alle operazioni militari, emanando cospicue taglie e possibilità d’indulto, al fine di incitare al tradimento e alla consegna dei compagni; oltretutto, ordinò che entro un mese dovevano abbattersi tutte le torri e le fortificazioni esistenti in campagna (2).
I più famigerati banditi marsicani furono: Giulio Cesare De Santis, detto Scarpaleggia e il capitano della «Grascia» Giovanni Antonio Simboli. Il primo aveva sotto il suo comando, un centinaio di uomini tra fuorusciti napoletani ed ex vassalli del marchese del Vasto con quartier generale presso Luco dei Marsi. Il secondo, invece, fece costruire un fortilizio «distante da Pescina un miglio e mezzo, servendosi anche di pietre prese da una chiesa antica in abbandono di S.Anzio e facendovi lavorare molti paesani senza pagarli. Il luogo poi servì per commettere ogni malefatte. Il Governatore di Pescina sapeva tutto ma mai prese provvedimenti perché evidentemente era un suo aderente» (3).
Prima di esporre la drammatica situazione vissuta nella Marsica, riportiamo l’autorevole testimonianza dell’erudito Anton Ludovico Antinori che scrisse tra l’altro: «Anno 1668. Campeggiano molte squadre di banditi, e si diceva, che negli Abruzzi ve ne fossero mille. Occuparono costoro diverse Terre. Vi si fortificavano, e spedirono ordine a tutti i luoghi di quei contorni, perché pagassero loro, e non al Regio Tesoriere, i Fiscali. Vi si mandarono alcune compagnie di Spagnuoli, le quali imbattute con Giuseppe di Cola Raniero, tutto che decrepito, pure uno dei Capi dei Banditi, n’ebbero gli Spagnuoli la peggio, come poco pratici del paese». In questo scenario, nessuno poteva spostarsi da un luogo all’altro e nemmeno si poteva dormire sicuri nelle proprie abitazioni, certi di incappare nelle vendette di Santuccio della Montagna e Titta Colaranieri: «sotto il rollo dei quali, correvano a migliaia le genti di cattiva intenzione, per sfogar li loro capricci, compenso alle calamità e sciagure […]» (4).
Un importante documento rinvenuto dallo studioso Giorgio Morelli nella biblioteca dell’Istituto Storico Spagnolo (Roma), ci informa dettagliatamente della posizione strategica della roccaforte del capobanda originario di Serra Capriola (Puglia): «La casa di Scarpaleggia posta dentro la Terra di Luco in Provincia d’Apruzzo Ultra, è capace di ricevere duecento persone, la quale ha attaccato in se un giardino murato d’intorno di grandezza di cento canne, nelle quali vi sono guardiole nelle cornici per guardare dentro, et anco per poter difendersi e dentro di essa vi sono nascondigli e stanzoni da tener armi e munizioni, e detta casa confina con il lago di Fucino, il quale è di circuito quaranta miglia che puole imbarcare gente per dove vuole senza esser veduto e ciò deriva che detta Terra di Luco è vicina a un solo miglio ad alcune montagne arborate ed aspre, per dove vi è dubbio possa venir gente segretamente, siccome fece il suddetto Scarpaleggia nel caduto mese di Settembre, il quale tenne in suddetta sua casa gente per portarla in Napoli a favore dell’Imperatore senza esser veduti, per haver detta casa la comunicazione con dette montagne e per haver l’imbarco con un lago così spazioso per il quale si può sbarcare anche in altre montagne senza poter esser mai veduta sino a S.Germano poco distante da Napoli» (5).
Giovanni Antonio Simboli, invece, abusando della propria carica di «Capitano della Grascia in ambo gli Abruzzi» (un termine che anticamente indicava vettovaglie e rifornimenti), commetteva delitti, estorsioni, violenze e stupri. Aveva al suo servizio squadre di bravacci e si faceva forte dell’amicizia e protezione dei maggiori fuorusciti abruzzesi. Molti soggiacevano alle sue richieste per paura di essere ammazzati, tanto è vero che la sua devastante azione durò fino al 1718. Tuttavia, qualcuno, celandosi nell’anonimato, inviò un esposto al viceré di Napoli, dal titolo: «Intorno ai delitti commessi dal 1678 al 1688 dal Capitano Gio: Antonio Simboli nella Città di Pescina ed altre Terre contigue». Dalla denuncia si evince come Simboli fosse uno spietato tiranno di tutta la Marsica, eleggendo persino medici e avvocati, comportandosi come fosse un vero principe. Fece sborsare all’università di Collelongo ben quattrocento ducati sotto minaccia armata; umiliò perfino il vice conte di Celano, Lelio Tomassetti, appropriandosi indebitamente di alcune sue terre. Nel gennaio del 1680 ordinò di uccidere a bastonate Francesco Antonio Ippoliti, affittuario del principe Savelli di Celano, solo perché aveva rimproverato Bradamante Del Gallo, suo stretto parente. Nel 1683, continuando la sua azione deleteria, il famigerato bandito commise almeno dodici stupri, ferendo mortalmente tutti quelli che si opponevano ai suoi voleri. Con l’aiuto di questi e altri rilievi cronachistici, si può citare un altro grave episodio di rapina avvenuto nell’8 ottobre del 1667 quando, una squadriglia composta di sgherri della banda Simboli, dopo aver malmenato un guardiano dei frati, rubò una mandria di vacche ai monaci terziari di Scurcola Marsicana, terrorizzando il priore del monastero, anche lui minacciato di morte. Seppur immediatamente scomunicato, il Simboli fece condurre le bestie fino a Pescina. La mandria, scortata dai suoi accoliti, costeggiò indisturbata le rive del lago di Fucino, giungendo nella giornata alla roccaforte del bandito (6).
NOTE
- J. Paz, Campaña del Marqué del Carpio Virrey de Napoles contra los banditos del Abruzzo en 1684, in «Revista de Archivos y Bibliotecas y Museos», Madrid, VIII-IX (1903), pp.247-259 e 395-406.
- M.E. Ghelli, Il Viceré marchese del Carpio (1683-1687), in «Archivio Storico per le Province Napoletane», XIX (1933), n. LVIII, pp.280-318; XX (1934), n. LIX, pp. 257-282.
- G.Morelli, Attraverso l’Abruzzo. Figure del brigantaggio marsicano del secolo XVII, in «Rassegna Mensile di Cultura e di Vita Regionale», Pescara 1975, pp.190-195.
- F.D’Amore, Il manoscritto inedito della nobile famiglia Aloisi di Avezzano. Strutture familiari e rapporti sociali in una comunità marsicana fra Trecento e Settecento, Edizioni Kirke, Cerchio, febbraio 2011, pp.80-81.
- G.Morelli, Ibidem. Il capobanda, spalleggiato dalla soldataglia austriaca, mise in serio pericolo anche la vita del vescovo dei Marsi Corradini (Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo B, b.57, fascc. 168-173 (Corradini, Marsicana Vis.Sac.Limina).
- Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo C, b.11, fasc.281, cc.254, Scurcola, 1667.