Più demagogica e meglio identificata sul piano politico, fu l’adunata dei direttori dei giornali del regime che si svolse a Roma il 10 ottobre 1928.
Per l’occasione, Palazzo Chigi (Salone della Vittoria), era gremito di tutte le più alte cariche del fascismo alla presenza di ben settanta direttori dei maggiori quotidiani. Gli onori di casa furono fatti dall’onorevole Augusto Turati, dal sottosegretario agli interni Bianchi e dal capo dell’ufficio stampa del governo, onorevole Ferretti. Sul tavolo delle proposte condotte da Mussolini, si discusse di come il giornalismo poteva servire al meglio la causa della rivoluzione fascista. Dopo un’introduzione appropriata, l’invito del duce fu rivolto alla disciplina morale e alla missione della stampa, affermando con orgoglio: «La stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana. Il giornalismo italiano è libero perché serve soltanto una causa e un regime». Precisazioni sull’opera legislativa e amministrativa realizzata negli anni del regime (nonché della grandezza della stirpe italiana), scatenarono i soliti entusiasmi tra gli onorevoli presenti. Cessati gli applausi, rivolti poi anche al segretario del partito, prese la parola il deputato marsicano Ermanno Amicucci, nella sua importantissima veste di segretario del sindacato nazionale fascista dei giornalisti, esprimendo gratitudine viva e profonda ai direttori delle testate giornalistiche nazionali e a tutti giornalisti italiani per l’imponente partecipazione. Sin dall’inizio, ringraziò il duce per l’invito e per aver dato così la giusta attenzione alla stampa italiana.
Dalle interrogazioni accennate e le altre che si potrebbero muovere, per avere un giudizio sereno, bisogna collocare la posizione di Amicucci nelle circostanze tipiche della sua epoca e della sua esperienza personale. Importante, dunque, riportare per intero il suo intervento: «È la prima volta, ha detto l’on. Amicucci, che un Capo di Governo convoca presso di sé a rapporto i direttori dei giornali. Ciò significa che, nonostante tutte le incomprensioni e le diffamazioni straniere, l’Italia Fascista è il solo paese che attribuisce tangibilmente alla stampa una grande funzione nazionale. Il Fascismo ha compiuto, anche nel campo giornalistico, una rivoluzione. Il giornalismo italiano non è più il famoso o famigerato quarto potere, perché ha ripudiato nettamente la concezione liberale e socialdemocratica di un potere irresponsabile che s’ergeva al di sopra e contro lo Stato in nome del mito della libertà di stampa, che altro non era se non la sovrapposizione di una pretesa libertà e autorità individuale alla sola legittima libertà e autorità dello Stato. Il giornalismo aderisce spontaneamente al Regime, che compendia la somma dei valori spirituali e materiale del paese; ed assegna a sé stesso un compito di educazione e di illustrazione dei grandi problemi nazionali e internazionali. Il giornalismo italiano è fiero che il regime abbia potuto attingere largamente dalle sue file uomini sicuri e capaci per i posti di comando. Esso e supremamente orgoglioso che il Duce sia stato e voglia essere ancora un giornalista, che al Governo e nelle gerarchie di Partito, negli uffici più delicati e più vicini al Duce, nelle rappresentanze italiane all’estero, molti giornalisti siano oggi in prima linea. Non è senza significato che undici membri del Supremo Organo del Regime, il Gran Consiglio Fascista, onorino della loro iscrizione il Sindacato dei Giornalisti. Il regime inoltre ha fatto per il giornalismo italiano quanto nessun altro paese al mondo ha mai fatto. L’Albo professionale, il contratto di lavoro, l’Istituto di previdenza, la scuola professionale, costituiscono un insieme di provvidenze, che innalzano grandemente la dignità e il prestigio del giornalismo italiano e formano oggetto dell’ammirazione e dell’invidia dei giornalisti di tutti gli altri paesi. Certamente il giornalismo italiano non è, e non pretende di essere perfetto; ed esso è sinceramente grato al Duce di aver segnalato errori e difetti. Il nostro proposito fermo, ha concluso l’on. Amicucci, è di perfezionarci incessantemente per renderci sempre più degni dell’alta missione che il Regime ci ha affidato. Con questo proposito noi rinnoviamo oggi al Duce il nostro giuramento di fedeltà, la nostra promessa di servire sempre la causa della Nazione e della Rivoluzione». Finita la lunga sequela di interventi della rappresentanza politica, la direzione del partito offrì un ricevimento a «Palazzo del Littorio» in onore dei direttori dei quotidiani, accolti dal segretario del partito Turati, coadiuvato dal segretario amministrativo Marinelli, dai vice-segretari Arpinati, Melchiori, Ricci e Starace e da tutti gli altri membri del direttorio nazionale. Al ricevimento intervennero anche Arnaldo Mussolini (fratello del duce) e il capo dell’ufficio stampa onorevole Lando Ferretti (1).
In particolare, il pensiero politico del giornalista marsicano Ermanno Amicucci, offre motivi più seri di discussione e può essere ricondotto ad un modello interpretativo già dal 1922, quando fu tra i fondatori della sezione romana del sindacato dei giornalisti fascisti, insieme all’onorevole Giuseppe Bottai, Roberto Forges e Davanzati. Sul piano concreto, dopo aver militato nella stampa locale, divenne direttore della «Gazzetta del Popolo» di Torino, poi del «Corriere della Sera». A partire da questi indiscussi meriti, l’onorevole Amicucci, originario di Tagliacozzo, fu presto definito: «un uomo intrigante, sempre a caccia di un appoggio personale del Duce».
Tuttavia, dopo il crollo del regime, fuggì a Como insieme al convoglio dei gerarchi in fuga. Di conseguenza fu arrestato e processato. Il 30 maggio 1945, la Corte d’Assise di Milano lo condannò a morte, mediante fucilazione alla schiena. La pena però fu poi annullata, ricorrendo alla sezione speciale della Corte di Cassazione (18 giugno 1945). Una successiva rivisitazione del processo celebrato nella Corte d’Assise Straordinaria di Brescia, ridusse la pena a trenta anni di carcere. In seguito all’amnistia Togliatti emanata il 22 giugno 1946, fu decisa la sua scarcerazione dopo solo due anni di detenzione. Appena liberato fuggì in Argentina. Poi, tornato in Italia, riprese la sua attività come inviato de «Il Tempo» e «Tempo Illustrato», affiancandosi politicamente al Movimento Sociale Italiano. Morì a Roma nella sua abitazione il 20 settembre 1955. Di questa sua storia complessa, che noi abbiamo tentato di ricostruire, occorre ricordare il discorso sul plebiscito rivolto alla popolazione dell’intera Marsica, pronunziato dal balcone del municipio di Avezzano il 22 marzo 1929. Lo scrittore Mauro Forno lo definisce: «zelantissimo chiosatore del verbo mussoliniano» (2).
NOTE
- Il Messaggero, Anno 50° – N.242 – Giovedì, 11 Ottobre 1928, Come il giornalismo deve servire la causa della rivoluzione fascista.
- M.Forno, Fascismo e informazione. Ermanno Amicucci e la rivoluzione giornalistica incompiuta (1922-1945), Edizioni dell’Orso, 2003. Cfr. M.Riazzoli, Giornalisti fascisti, Amicucci–Ojetti–Orano, Editrice Youcanprint, 2019.