STORIA DI PATERNO…. Sant’Onofrio il compatrono di Paterno

Testi dal libro Il paese Paterno…monografia storica di un centro della Marsica
(Testi a cura del prof. Mario di Berardino )

Sappiamo dal Febonio che già nel 1600 esisteva l’eremo di S. Onofrio, che era conosciuto all’intorno ed era meta di pellegrìnaggio, oltre che di fedeli comuni, anche di uominì illustri e in odore di santità. Il Corsignani, altro storico marsicano nativo di Celano, nel suo libro intitolato « Reggia Marsicana », a proposito del Servo di Dio don Lelio Scricchi, canonico celanese, dice che costui era solito ritirarsi in alcuni romitaggi mesi, settimane e giorni interi; tra questi romitaggi egli preferiva la Spelonca di S. Onofrio di Paterno (1).
Il culto di S. Onofrio, quindi, già nel XVII secolo era molto diffuso in Paterno, segno che l’cremo già da tempo era stato costruito.

Oggi, poiché la fede religiosa va sempre più affievolendosi, S. Onofrio è diventato per i Paternesi un segno di contraddizìone tra i fautori di una tradizione che affonda le sue radici in epoche assai remote e quelli che la stessa tradizione non tengono nella dovuta considerazione. Ma, in effetti, chi era, attraverso quali vicissitudini è passato durante la sua vita terrena questo Santo, che i Paternesi da epoca assai lontana hanno sempre venerato?
Intorno all’anno 190 d.C., sedendo sul soglio di Pietro il pontefice Eleuterio e reggendo il vasto impero romano Lucio Commodo, regnava nella lontana Persia un re dì nome Teodoro, uomo saggio, amante del suo popolo e cristiano fervente. Sua moglie Pelagia, anche leì convertita alla religione dì Cristo, non era da meno del marito per saggezza, amabilità e grazia.

Era naturale che una sìmile coppia regale fosse amata e venerata da tutto il popolo con la più profonda devozione. Ma un dolore segreto affliggeva l’animo degli sposi: la loro unione non aveva dato alcun frutto da loro tanto atteso e ardentemente desiderato.Nel regno dì Persia, in quel periodo, viveva un uomo di nome Onofrio, discepolo del santo monaco Pietro, che riempiva dei suoi miracoli i luoghi nei quali passava. Tutti parlavano di lui e la gente accorreva ad ascoltarlo e a vederlo. E lui, Onofrio, ascoltava tutti e tutti esaudiva. La regina Pelagia si rivolse a quel santo monaco e lo pregò di rendere il suo seno fecondo, promettendogli che, qualora avesse avuto un figlio, lo avrebbe chiamato Onofrio.

Non passò molto tempo che il miracolo si realizzò. Nel suo seno fino ad allora sterile, ella avvertì un sussulto di vita. Ebbra di gioia, comunicò immediatamente la bella novella al re Teodoro, il quale ringraziò Dio di essersì ricordato dì lui e, per riconoscenza, moltiplicò le opere di bene verso i suoi sudditi. Ma l’invidia che s’annida dappertutto e, in particolar modo ‘ nelle corti dei re, trasformò quella incontenibile gioia in funesta sciagura. Un barone di corte, che più di tutti doveva essere rìconoscente al re per ì favori da lui ricevuti, invidioso della felicità che aveva invaso il cuore dei sovrani, incominciò ad insinuare subdolamente nell’animo del re il sospetto dell’infedeltà della regina. Questì, in un prìmo momento, respìnse risolutamente quell’insínuazíone maligna, conoscendo molto bene l’indole, i costumi, l’educazione della consorte; ma quale uomo in simile circostanza potrebbe riuscire a lìberarsì, una volta entrato, del tarlo del dubbio? Non voleva crederci assolutamente, ma quella maternità improvvisa…

Il tarlo continuava a rodere. Il re Teodoro era diventato scontroso, irascibile, solitario; la dolcezza aveva ceduto il posto all’asprezza, la felicità al dolore, l’amore all’odio. La regina non sapeva spiegarsi questo mutamento del marito e, d’altronde, non poteva neppure chiedergli spiegazíoni, perché il re viveva solo e appartato. Il suo unico rifugio era Dio, al quale spesso si rivolgeva, soffrendo in silenzio e pregando aì piedi della croce. Un giorno, però, non potendone più, si fece coraggio e affrontò il marito: « Dimmi, che cosa ti ho fatto per essere trattata ìn questo modo? Quale offesa hai ricevuto? » « Via da me, donna traditrice, adultera e scellerata » rispose il marito. A quelle parole la regina rimase immobile, impietrita. No, non era possibile! Era inaudito! Barcollante si ritirò nella sua camera e si ripeteva: « lo traditrice, io adultera? Deh, parla tu, o piccolo innocente, che ti nascondi nel mio seno! Fa’ sentire la tua voce e difendi tua madre dalla infame calunnia.

Il disonore sarebbe anche tuo, perché, restando macchiato l’onor mio, anche tu sarai colpito dal marchio della illegittimità ».Quando il bambino venne alla luce, il re non solo non lo volle assolutamente vedere, ma neppure sopportava che gliene parlassero. Anzi, ordinò che nella sala grande del suo palazzo venisse acceso un grande fuoco, poi corse nella camera della regina, le strappò a viva forza dalle mani l’innocente bambino e corse a buttarlo tra le fiamme crepitanti. Ma, oh miracolo! Le fiamme, lungi dal bruciare l’ignaro pargoletto, si aprirono e lo accolsero come in una culla. A quella vista il re Teodoro cadde in ginocchio, prese tra le sue braccia il bambino, coprendolo di baci, e rivolto alla madre, le chiese perdono, riconoscendo la sua innocenza.
La fama del miracolo corse in un baleno per il regno di Persia e tutti ríngraziarono Dio per il grande intervento prodigioso. Il giorno del battesimo fu festa grande per tutti.

Il fanciullo, secondo il voto fatto dalla madre, fu chiamato Onofrio. La gioia dei due sovrani era immensa; ma, trascorsi tre mesi, il seno della regina divenne arido: il latte per il piccolo Onofrio non era sufficiente. La regina era triste, perché non voleva che il suo bambino venisse allattato da un’altra donna, per paura che insieme al latte succhiasse anche il germe del paganesimo.
D’accordo con il re Teodoro, decise di far allattare il piccolo da una cerva del loro parco, da poco partorita. L’animale docile si prestò e ogni giorno, all’ora stabilita, entrava nel palazzo e offriva il suo bianco latte al piccolo Onofrio per il tempo necessario.

All’età di tre anni, Onofrio fu portato nel monastero di Ereti nella Tebaide, in Egitto, onde fosse allevato in quei principi cristiani, ai quali i genitori tenevano tanto. I religiosi del monastero accolsero con grande piacere il pargolo del re Teodoro, che subito si rivelò docile e, crescendo in età, cresceva anche in sapienza e in virtù. Qualche giorno dopo l’arrivo di Onofrio, fu vista aggirarsi nei dintorni del convento una cerva, la quale non ebbe pace fino a quando non riuscì a vedere il principino ed a lambirgli le mani. I monaci si meravigliarono grandemente; ma, quando seppero quale parte importante aveva avuto nell’allattamento di Onofrio, l’accolsero nel monastero, considerandola sacra e intoccabile. Passarono diversi anni e ormai Onofrio era diventato un giovane dai sacri e saldi principi cristiani. Viveva nella pace del convento, allorché un giorno arrivarono dei cavalieri mandati dal re Teodoro. Essi riferirono che un principe arabo stava invadendo il regno di Persia, mettendo a ferro e a fuoco i luoghi che incontrava nel suo passaggio, diretto alla capitale per impadronirsi di tutto l’impero persiano.

Il re e l’esercito, impotenti a resistere a tanta furia scatenata, stavano sul punto di fuggire e abbandonare tutto nelle mani dell’invasore. Ma, alla fine, si era presa la risoluzione di affrontare il nemico; i maggiorenti e gli alti ufficiali del regno avevano consigliato al vecchio re di richiamare il principe Onofrio, onde affidargli il comando di tutto l’esercito. Pertanto, l’ordine del padre era quello di tornare immediatamente in patria. A quelle notizie Onofrio sentì un brivido percorrergli le ossa, pensando al pericolo che correvano i genitori e al dispiacere di dover abbandonare quell’oasi di pace e di tranquillità. Ma gli ordini di suo padre andavano eseguiti e Onofrio, detto addio ai suoi maestri, partì. Non dimenticò di andare a salutare la cerva che gli era tanto affezionata. Essa accolse con salti di gioia le sue carezze; ma, nei giorni che seguirono, non vedendolo più, rimase sempre malinconica e toccava appena il cibo necessario per sostentarsi.

La gioia di riabbracciare il figlio, dopo tanti anni, fu immensa, ma di breve durata. Onofrio radunò il consiglio dei maggiorenti, si fece esporre lo stato delle cose e, in compagnia di fidi cavalieri e di un accorto stratega, si recò nel campo di battaglia. Di fronte al nemico, diede le opportune disposizioni, raccomandandosi al Dio degli eserciti, quindi si slanciò contro i nemici, li sbaragliò, li vinse e molti ne fece prigionieri, riportando una strepítosa quanto rapida vittoria. Lo stesso principe arabo, che aveva osato sfidare Onofrio a duello, ricevette un tale fendente che venne ferito mortalmente. Onofrio lo fece prigioniero e subito ordinò che gli venisse recisa la testa. L’esultanza del popolo persiano a quella inaspettata vittoria fu tale che da ogni parte del regno si levarono grida di gioia e di ringraziamento a Dio, che per mezzo del giovane guerriero aveva liberato la Persia dal nemico. Anche Onofrio provò tanta gioia per la vittoria riportata, ma ben presto arrivò anche il dolore. La regina Pelagia, dopo aver riabbracciato il figlio vincitore, morì, seguita presto dal re Teodoro, stroncato da grave malattia.

Onofrio si trovò solo a governare quel regno ereditato da suo padre e confermatogli dai baroni della corte. Ispirandosi ai principi di giustizia, di religione e di pace, procurava solo il bene ai sudditi che lo ricambiavano con devozione e sottomissione. Ma l’invidia e l’ingratitudine col passare del tempo gli resero la vita molto difficile. Un buon numero di alti dignitari incominciò a tramare contro di lui, offrendo l’impero di Persia ad un altro principe infedele, il quale incominciò ad invadere il territorio e a conquistarlo gradatamente.
Onofrio provò un tale ribrezzo per le trame dei suoi dignitari che meditò di abbandonare tutto e di fuggire lontano dalla patria. Perciò, dato il miglior assetto possibile alla pubblica e privata amministrazione, distribuì ai poveri tutti i suoi beni e salutati gli amici, abbandonò il trono e si recò nascostamente, per non farsi riconoscere, alla famosa città di Ermopoli in Egitto, sita sulla sponda del Nilo.

Dopo alcuni giorni di permanenza in quella città, si recò nel monastero di Ambage, dove vivevano circa cento monaci, dediti ad una vita santa e ritirata. Qui Onofrio stette alcuni giorni e meditava di tornare al monastero di Ereti, dove aveva vissuto anni indimenticabili, trascorsi nel fervore religioso e nel sapere, ma l’abate del monastero, colpito dalla condotta di Onofrio e scoperto chi era, lo pregò ardentemente di restare. Onofrio accettò, quantunque il suo pensiero fosse sempre ad Ereti, e vestì l’abito del monaco, passando così dalla corte reale alla povertà evangelica, dal fragore delle armi alla dolce e mesta salmodia della preghiera. Allorché l’abate del monastero morì, all’unanimità Onofrio venne eletto a succedergli quale religioso più avanzato nella pratica della santità. Ma ben presto il suo fervore e il suo zelo non furono accettati da tutti, perché molti incominciarono a mormorare contro di lui per l’eccessivo rigore che l’abate Onofrio aveva instaurato nella vita quotidiana del monastero.

Quei religiosi scontenti, essendo stati redarguiti dolcemente, meditarono di sopprimerlo, mettendo il veleno nel vino che Onofrio doveva bere durante la messa. Ma, per grazia di Dio, il veleno non gli fece effetto. Onofrio, lungi dal rimproverare quei confratelli, li perdonò, esortandoli sempre più alla retta pratica religiosa, ma, vedendo che quelli persistevano nella loro avversione, prese la risoluzione di abbandonare il cenobio e di ritirarsi nella solitudine come tanti altri anacoreti che abitavano le spelonche del deserto. Rifletté a lungo su questa sua idea, e una notte, mentre tutti gli altri monaci riposavano e un silenzio profondo regnava nel monastero, l’abate Onofrio, provvistosi di poco pane, uscì dal monastero e s’incamminò verso il deserto.

Prima di partire, volle benedire per l’ultima volta la sua cerva che si era rípresentata nel convento di Ambage e che era restata con lui, spettatrice delle sue preghiere e penitenze. La cerva, come se capisse l’ultìmo addio, cadde senza più rialzarsi. Era morta! Ciò che fece Onofrio nel deserto, ce lo racconta un monaco di nome Pafnuzio (copto = Pa-Fnuti = Dio mio), senza del quale noi non avremmo saputo mai nulla di questo anacoreta che rinunciò al regno di Persia per darsi ad una vita di solitudine e penitenza. Dopo Pafnuzio o Panunzio o Panuzio, altri si sono interessati di S. Onofrio, seguendo le notizie fornite dal primo biografo o allontanandosene, come Simone Metafraste (2).
L’abate Pafnuzio, trovandosi in un monastero della Tebaide in Egitto, volle abbandonare la vita monastica per andare a vivere tutto solo in un cremo, ad imitazione di tanti altri monaci che, per fare penitenza, trascorrevano la loro vita nella più completa solitudine.

Un mattino, dopo aver salutato i suoi confratelli, partì avviandosi verso lo sconfinato deserto. Dopo giorni di cammino, arrivò ad una spelonca, nell’interno della quale vide un vegliardo che pregava inginocchiato. Gli si avvicinò e, siccome quello non rispondeva alle sue parole, lo toccò: all’istante quel corpo cadde a terra, polverizzandosi quasi completamente. Seppellì quei resti umani e continuò il suo cammino. Dopo aver incontrato un altro eremita di nome Timoteo, il quale da vent’anni viveva in quella solitudine, s’imbatté in un uomo dall’aspetto terribile, coperto dal capo ai piedi da una lunga e candidissima chioma, il petto nascosto da una foltissima barba e i fianchi circondati da una grossa cintura di erbe. Pafnuzio, temendo di essere divorato da quell’uomo molto simile ad una belva, salì sopra un’alta rupe e quale non fu la sua meraviglia allorché si senti chiamare per nome da colui che si dichiarava un figlio di Dio, rimasto nel deserto per espiare le sue colpe.

Rassicurato, Pafnuzio scese dalla rupe, gli si avvicinò e seppe che quel vegliardo si chiamava Onofrio e che erano settanta anni che viveva solo in mezzo al deserto, senza aver visto mai persona viva. Così Onofrio incominciò a raccontare: « Dio ti ha condotto in questo luogo, perché ormai sento che la mia giornata terrena è finita e tu darai sepoltura al mio povero corpo macerato da tanti anni di sofferenza. Tu farai sapere a tutti lo stato nel quale mi hai trovato e le mie vicissitudini terrene. Sappi, dunque, che nella primavera dei miei anni, abbandonate tutte le ricchezze e rinunciato al trono di Persia, ereditato da mio padre, abbandonai il mondo e abbracciai la croce di Cristo, rinchiudendomi in un monastero della Tebaide, chiamato Ambage, vicino la città di Ermopoli.

Ma sentivo che la vita del monastero non appagava tutta quella sete di sofferenza che avevo e perciò meditai di abbandonare i confratelli e di andare a vivere solo, tremendamente solo, in mezzo al deserto. Pensavo che così, rotti tutti i rapporti con il mondo e con gli uomini, potevo riporre in Dio tutta la mia fiducia e la mia speranza. Presa la risoluzione, una notte, con poco pane, mi incamminai per questo deserto spaventoso, superando balze scoscese e dirupi profondi. Fu un eremita di nome Ermes, incontrato strada facendo, che mi insegnò il modo di abitare le caverne e mi accompagnò dopo giorni e giorni di cammino nel deserto di Oasis, dove trovammo una spelonca, all’ingresso della quale c’era una palma e un grosso rigagnolo d’acqua. Qui mi disse il vecchio di fermarmi e di trascorrervi la vita.

Dopo essere rimasto con me un mese intero, ritornò alla sua spelonca ed io rimasi solo, nutrendomi di poche erbe e di qualche dattero. Nessun tormento mi è mancato in questa dimora: fatiche, tribolazioni, mortificazioni, dolori e ogni specie di angosce. Ho combattuto contro la fame, d’estate contro la sete, contro il freddo, le tentazioni della carne. Sono riuscito, però, sempre vincitore, confidando nella grazia di Dio, il quale, dopo trent’anni di indicibili angosce, ha donato pace e tranquillità all’animo mio. Ora sento di essere giunto alla fine dei miei giorni. Tu, fratello Pafnuzio, raccogli e componi in pace le mie spoglie mortali. Oggi stesso io morirò; tu, dopo aver seppellito il mio corpo nella spelonca, farai ritorno in Egitto; parlerai della mia vita ai tuoi confratelli, affinché la divulghino fra tutti i credenti. Tu non sei stato destinato da Dio a restare nel deserto, bensì a portare sollievo, come hai fatto a me, a tanti anacoreti che vivono nel deserto ».

Dopo aver finito di parlare, Onofrio benedisse Pafnuzio e, con le mani giunte, il volto acceso di amor divino, sbarrando gli occhi prima sopra Pafnuzio e poi verso il cielo, esalò l’ultimo respiro. Pafnuzio, dopo aver seppellito il corpo di S. Onofrio, riprese la strada del ritorno; ma, fatti pochi passi e scatenatosi un violenta temporale, avverti la terra tremare sotto i suoi piedi. Spaventato, si volse indietro e vide la spelonca di S. Onofrio crollare sopra quel corpo che aveva appena seppellito. Addolorato, si allontanò da quel luogo e, dopo aver visitato tanti altri anacoreti, abitatori di spelonche, tornò nel suo monastero di Ermopoli, dove raccontò a tutti le avventure, i disagi, la gloriosa morte di S. Onofrio. Qual età avesse S. Onofrio al momento della sua morte non è possibile sapere con certezza; si ritiene che non vivesse meno di ottanta o novant’anni. La sua festa, comunque, è segnata al 12 di giugno, perché in tal giorno si opina sia avvenuta la morte.

Tra le varie date indicate per la morte di S. Onofrio, la più probabile sembra l’anno 280, essendo il soglio di Pietro occupata dal pontefice S. Caio e l’impero romano in preda a quel periodo di anarchia che intercorre dalla morte di Aureliano all’elezione di Diocleziano. Allorché quest’ultimo sferrò l’ennesima persecuzione contro i cristiani, i religiosi della Tebaide, per evitare la morte certa, abbandonarono i loro chiostri e si sparsero nelle caverne del deserto. Memori della santità eroica di S. Onofrio, decisero di ritrovare la spelonca, sotto le cui macerie giacevano i resti di colui che era stato il più illustre abítatore del deserto. Le ricerche furono fruttuose e, allorché ebbe termine la persecuzione, quei santi resti furono trasportati al monastero di Ambage. Per molto tempo furono conservati in Egitto, poi vennero trasportati a Roma, da dove molte reliquie furono distribuite a diverse città e a diversi paesi.

La Sicilia è la terra che conserva la maggior parte dei resti di, S. Onofrio.
Nella chiesa di Lotera, dedicata a S. Paolino da Nola, secondo il Bollando (3), dentro un’urna d’argento si conservano* varie ossa del Santo. Palermo, dopo S. Rosalia, ha per protettore S. Onofrio, in onore del quale ogni anno, il 12 di giugno, si celebra una grande festa con processione solenne.
Presso il castello di Gagliano in Sicilia, i frati minori di San Francesco hanno una chiesa e un convento dedicati a S. Onofrio. Nella Valenza e in Castiglia, vì sono diversi conventi dedicati a S. Onofrio. A Fabriano, nelle Marche, vi era un convento di monache col titolo di S. Onofrio.A Benevento, al tempo dell’antico regno di Napoli, vi era un tempìo eretto in onore di S. Onofrio, nelle vicinanze del quale sì svolgeva una fiera di otto giorni. Nella città di Napoli, nella chiesa di S. Maria delle Grazie, vi è una cappella dedicata allo stesso Santo, dove si conserva parte dell’osso del suo braccio destro.

Nella piazza del tribunale, vi era un tempio dedicato allo stesso Santo, ove viveva in passato un collegio di musicisti, detto di S. Onofrio, trasformato poi in una caserma. Nell’anno 1606, furono gettate sempre in Napoli, le fondamenta di una chìesa in onore di S. Onofrio, eremita d’Egitto. Oggì, nel centro di Napoli, lungo Corso Umberto, esiste una cappella dedicata a S. Onofrio anacoreta, attigua ad una casa di riposo per anzìani. Un eremo di S. Onofrio esiste anche nella valle sulmontina, incastonato alle falde del monte Morrone. Famosissimo, infine, il convento di S. Onofrio in Roma, da cui è diramata, come vedremo in seguito, la devozione del Santo in Abruzzo.

Nella piazza del tribunale, vi era un tempio dedicato allo stesso Santo, ove viveva in passato un collegio di musicisti, detto di S. Onofrio, trasformato poi in una caserma. Nell’anno 1606, furono gettate sempre in Napoli, le fondamenta di una chìesa in onore di S. Onofrio, eremita d’Egitto. Oggì, nel centro di Napoli, lungo Corso Umberto, esiste una cappella dedicata a S. Onofrio anacoreta, attigua ad una casa di riposo per anzìani. Un eremo di S. Onofrio esiste anche nella valle sulmontina, incastonato alle falde del monte Morrone. Famosissimo, infine, il convento di S. Onofrio in Roma, da cui è diramata, come vedremo in seguito, la devozione del Santo in Abruzzo.

Per quanto detto, è spiegabile anche il largo fascino esercitato da S. Onofrio nell’arte iconografica: il Mosaico in Monreale secolo XII), le icone russe del XV secolo, gli affreschi in S. Pellegrino di Bominaco, in S. Caterina a Galatina, al Sacro Speco di Subiaco, le vetrate della Basiiica Superiore di Assisì e della Cattedrale di Friburgo, i dipinti di Vittor Crivelli, della Scuola del Beato Angelico, di Luca Signorelli, di Andrea del Sarto, di Battistello Caracciolo, del Ribera, i cìcli pittorici del Camposanto di Pisa e del chiostro dì S. Onofrio sul Gianicolo, della Pala Capitolare di Barcellona, per far soltanto qualche citazione (4). Inoltre esiste un inno, che si canta in onore del Santo, composto e musicato dal salesiano Domenico Presciutti, con l’aiuto del fratello Onofrio, orionita (5).

Tra i vari luoghi nei quali è venerato S. Onofrio, dobbiamo annoverare anche Paterno. Qual è l’origine del culto locale di S. Onofrio? Il Blasetti, trovandosi in qualità di maestro elementare nel 1887, dice testualmente: « Un vecchio di questi contorni afferma di aver saputo per tradizione che in un’epoca molto lontana, un individuo di Paterno per nome Onofrio, reduce in età avanzata dalla Sicilia, dove si era trattenuto per molti anni, dopo espletato, come volontario, il servizio militare, avesse riportato con sé un’immagine con un piccolo reliquiere contenente un piccolo ossicino, appartenuto a S. Onofrio, che ottenne a grazia da un sacerdote palermitano.

Appena tornato in patria erigesse, a sue spese, una cappellina che dedicò al Santo, con annessa cameretta sul colle sovrastante ai pochi casolari di Paterno, che esso stesso abitò e custodì in qualità di eremita.
Col progredire dei tempi la cappellina venne ingrandita; fu fornita di una piccola campana e vi furono fabbricate due altre camerette ad uso eremitaggio, che ora è rimasto disabitato, e vi è stata fondata una congregazione maschile detta di S. Onofrio. La fama dei miracoli operati da Dio ad intercessione del Santo, ha richiamato e richiama continuamente la visita di numerosissimi pellegrini per implorare grazie e protezioni da S. Onofrio anacoreta » (6).

Non abbiamo documenti che ci possano confermare la testimonianza tramandataci dal Blasetti. Il terremoto del 1915 ha distrutto l’archivío parrocchiale, che forse conteneva memorie precise. Comunque, è lecito pensare, attraverso qualche elemento architettonico del santuario (porta d’ingresso, finestrelle luce, pila a muro per l’acqua santa) che le origini del romítorio risalgono, forse con meno fantasia e più realtà, ai tempi medesimi nei quali il Beato Nicola da Forca Palena divulgava in Abruzzo la devozione di S. Onofrio e la erezione di eremitaggi in suo onore. L’Abruzzo ne ha diversi di tali ritiri e, del resto, il territorio tutto se ne prestava alla diffusione, anche quello vicino al mare, come testimonia l’eremitaggio di S. Onofrio a Vasto. E poi, vi era già in Abruzzo un’antichissima tradizione eremitica. Il Beato Nicola da Forca Palena, Pato nel 1350 circa e morto nel 1449, verso il 1440 fondava a Roma il nato di S. Onofrio, sul pendio del monte Gianicolo, verso il Vaticano. In questo convento il poeta Torquato Tasso si ritirò per lenire la sua sottile malattia, che non permetteva di trovare pace alla sua anima irrequieta.
Niente di più facile che nelle sue visite alla terra natia, il Beato Nicola avesse egli stesso occasione di istituire il Romitorio di S. Onofrio, sostando a Paterno.
Paterno era, difatti, sosta obbligatoria per chi dovesse proseguire, prima di avventurarsi a raggiungere L’Aquila attraverso Forca Cerro, o Sulmona attraverso Forca Caruso, o l’Alto Sangro, e Palena quindi, attraverso il Passo del Diavolo.

Il romitorio dedicato a S. Onofrio, situato all’innesto della strada vicinale di S. Onofrio, che a sua volta, poco più in là, si innesta sulla strada vìcinale di Perazza, è costituito:
1) da un piccolo santuario di pianta rettangolare, di m. 5,90 per m. 14,75 esterni: comprendente anche una piccola sacrestia, sul retro dell’altare, alla quale si accede da due aperture rettangolari di m. 1 per m. 1,90. Tale sacrestia misura internamente m. 2,35 per m. 4,55;
2) da un locale romitorio, formato da una stanza a pianterreno di m. 4,10 per m. 4,55 interni, con accesso diretto alla chiesa di fianco all’altare, ed alla sacrestia; e da una stanza al piano superiore, delle stesse dimensioni di quelle a pianterreno, che serviva da dimora personale del romito (fuoco e letto), avente un caminetto all’angolo nord-ovest. A tale dimora si accedeva con scala a pioli, attraverso una botola dalla stanza a pianterreno, ed esternamente da una porticina ad ovest, con accesso in terrapieno dalla via delle Cese.

Questa stanza superiore, però, mal ridotta e spesso invasa dagli estranei, che poi scendevano nel santuario, veniva eliminata, intorno al 1955, per decisione della confraternita, al Santo stesso intitolata, anche per togliere il pretesto a richieste di romiti, non più adatti ai tempi e al luogo.
A poca distanza, più in basso, una cannella, innestata ad un serbatoio, proteggente una sorgente, offre un’acqua, che la devozione dei pellegrini usava ed usa in venerazione di S. Onofrio. invocato specialmente a protezione dei bambini, nel ricordo della prodigiosa salvezza avuta dal Santo, proprio da bambino. Nella stanza a pianterreno si appendevano, ed ancora si usa fare, vestitini di piccoli a testimonianza della fiducia nel Santo.
Il luogo, una volta non molto distante, dal vecchio paese, distrutto dal terremoto del 1915, aveva l’aspetto selvaggio proprio degli eremitaggì e vi si arrivava sia da ovest per la vicinale di S. Onofrio, sia da est per la vicinale Perazza, sia salendo da Fonte Cannuccia.

La statua del Santo, in legno cirmolo, lavoro di un artista della Val Gardena, che ogni anno il 12 giugno i Paternesì portano in processione per le vie del paese e che attualmente si trova nella chiesa parrocchiale, è stata modellata secondo il primitivo ritratto eseguito da Fra Giovanni da Napoli. Anche la pala, dipinta dal prof. Francesco Bianchi, che sta ora, lavoro di molto pregio, nel santuario, presenta il Santo nella stessa attitudine. La visione, che il devoto ha modo di osservare, è quella di un vecchio venerando, col ginocchio destro piegato sopra una pietra e la gamba sinistra dritta, poggiata sul piede; ha le mani giunte al petto; i fianchi sono avvolti da una cintura di erbe e di foglie, mentre una cerva, posta al lato destro, gli rivolge lo sguardo.
In questo modo apparve S. Onofrio in Spagna, in epoca passata, a Valenza, ove viveva un ricco e nobile signore di nome Francesco Menaguerra, che aveva per moglie la signora Sicilia Eare.

Al suo servizio aveva molti pastori; ad uno di questi apparve un giorno S. Onofrio, sotto le vesti di un vecchio eremita, con lunghi e folti capelli che gli scendevano sulle spalle e la barba che gli copriva il petto; i fianchi aveva coperti da una cintura di erbe e di foglie. S, Onofrio riferì al suo signore di edificare una chiesa in quel luogo in onore di Dio, sotto il nome di S. Onofrio anacoreta. Il pastore riferì e il signore Menaguerra, incoraggiato da sua moglie, pose subito mano alla fabbrica della chiesa. Quando questa fu finita, si volle ornarla dell’effigie del Santo, e allora fu dato l’ìncarico al celebre pittore Fra Gìovanni da Napoli, dell’ordine dei predicatori, che aveva fama di grande pittore. Questi accettò l’incarico e, prìma di iniziare il lavoro, si fece descrivere la figura del Santo da quel pastore che aveva avuto la fortuna dì vedere S. Onofrio.

Da epoca antica i Paternesi lo venerano e molti pellegrini, specialmente nel giorno dedicato alla sua festa, raggiungono il suo eremitaggio per implorare grazie materiali e spirituali. Sebbene S. Onofrio aiuti in particolare i bambini e coloro che sono affetti da febbre e da podagra, estende tuttavia il suo aiuto ai sofferenti di qualunque male fisico e, a quanti lo pregano con sincerità e fede, ridona anche la rassegnazione e la tranquillità dello spirito. Negli ultimi anni, anche per le nuove esigenze del traffico e per i mutati sistemi di pellegrinare non più a piedi, ma in macchìna, è stato possibile aprire, seguendo in buona parte il tracciato della vecchia strada, una adatta carrozzabile asfaltata, ed isolare il romitorio dai pendii circostanti, creando attorno un largo piazzale di sosta, oltre il quale la strada, rimasta campestre, girando ad ovest, sotto le Cese dei Frati, porta alla Rocca.

Piazzale e nuova strada non hanno deturpato il pristino ambiente. La cappellina in onore del Santo è sempre tenuta in ordine, grazie alla vigilanza della confraternita di S. Onofrio. Il comodo piazzale accoglie le numerose persone che non soltanto il 12 di giugno, giorno nel quale si è soliti festeggiare da tempo antichissimo il Santo, ma anche negli altri giorni dell’anno salgono all’eremo attratte dall’esistenza della cappellina e dall’amenità del luogo.
E lì si dimenticano volentieri l’odio e l’invìdia degli uomìni e le loro piccole lotte; e quando, all’ora del tramonto, le ombre incominciano a riempire le valli e le cime dei monti avvampano in fiamme mistiche, il cuore è preso da nostalgia infinita, per tutto ciò che è vero, bello, grande e dona impeto e slancìo all’animo umano.

E quando, di tanto in tanto, la campanella di S. Onofrìo fa risuonare i suoi caratteristici tocchi argentini che si rispondono, s’incontrano, espandendosi giù per la vallata, fino a raggiungere le case del paese, non c’è paternese che, avvertendoli, non senta dentro di sé riemergere gli anni della propria infanzia, tanto quel suono è entrato a far parte inconsapevolmente della propria esistenza e gli appartiene come la casa, la famìglia, i beni.
E il cuore, tramite il Santo, sale a Dio.


NOTE
I. P. A. Corsignani: op. cit., I. IV, pag. 319.
2. Le notizie riguardanti S. Onofrio sono state tratte da: C. Baronio: « Martirologio Romano », 12 giugno, pag. 327; F. Blasetti: Vita di S. Onofrio anacoreta, Tip. Aternina, L’Aquila, 1897.
3. Bollando: riportato dal Blasetti, op. cít., pag. 36.
4. Bibliotheca Sanctorum Roma, 1967, voce Onofrio.
5. La corona dei martiri ambita desiasti tu, Onofrio, qui in terra! Col cilicio, cingendo la vita, al peccato giurasti la guerra. Rit. Da Paterno la prece ed il canto eleviamo a te, Onofrio Santo! Sopra il Fucino, deh! santamente la tua mano ergasi benedicente! Nel deserto solingo Eremita, salmodiando e col far penitenza, del demonio, che insidia la vita annientasti su te la potenza!
Rit. Da Paterno… Le lusinghe del mondo, gli onori, le ricchezze ch’ogni altro accarezza ripudiasti; e ai facili amori preferisti la santa purezza!
Rit. Da Paterno… A chi vive fra immensi perigli, di salvarsi la forza pur dona. Sono padri, son spose, son figli, che la prece fidente ridona!
Rit. Da Paterno…
6. F. Blasetti: op. cit., pag. 38, nota 10.

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