Storia, cultura e tradizioni (Testi a cura del dott. Enrico Balla)
La storia e la cultura di questo prodotto ha origini antichissime. A Pereto sulla cultura del vino ha prevalso la cultura della sbornia e di quant’altro ad essa collegato (cenette, assaggi, morre e passatelle); per cui si ritiene utile, dopo aver trattato nelle precedenti occasioni altri aspetti storico-culturali, richiamare l’attenzione del lettore peretano su questo ancora attuale argomento che, per certi versi, è anch’esso collegato all’atletica ed alle competizioni. I Romani, infatti, erano adusi far bere ai loro legionari ed ai loro atleti, prima della battaglia e delle gare, un miscuglio di vino, miele e resina. La produzione del “nettare degli dei” si fa comunemente risalire agli inizi del neolitico (circa 6.000 anni prima di Cristo). Nell’antichità il vino era destinato ai sacerdoti, ai re, agli alti funzionari ed era avvolto da un alone di mistero: la fermentazione del mosto, così come l’ebbrezza e l’euforia provocate dalla bevanda, venivano spiegate con l’intervento divino. Il colore rosso sangue conferiva al vino un valore simbolico e veniva utilizzato durante i sacrifici. I Greci vivevano il consumo del vino come atto collettivo. Il simposio (syn + pìnein = bere insieme) era un elemento fondamentale della società greca e del mondo antico in generale. Il vino, per i Greci, era esso stesso divinità, non solo dono degli dei; infatti era identificato con Dioniso, il dio dell’euforia che libera dal controllo, e, nella cultura romana, con Bacco, il simbolo dell’irrazionalità, del godimento pieno della vita. Chi brindava insieme creava una comunità, un thìasos, dalla quale i malvagi ed i nemici erano esclusi e in cui l’elemento sacrale e divino era fondamentale. Celeberrimo è il brindisi di Orazio del Carpe Diem dell’Ode a Leuconoe che invita a levare i calici, ad afferrare il fugace presente e a diffidare del dubbio futuro. Furono, tuttavia, i Romani (l’Italia si chiamava Enotria: terra del vino) a portare la vite e il vino ovunque: le legioni dell’impero che giravano l’Europa continentale erano obbligate a coltivare insalata (“romana”) e vite. Anche a Carsèoli i coloni mantennero le usanze romane, come ci testimonia Ovidio, che l’attraversava spesso per andare da Roma alla sua Sulmona. Fu con i Romani che iniziarono gli studi per elaborare la tecnica della viticoltura, mirati a conoscere le soluzioni volte a rendere compatibile la pianta con le diverse tipologie del terreno e del clima. Nello stesso periodo i Galli intuirono le proprietà della vite e del suo “succo” e inventarono la botte di legno, strumento che rivoluzionò il cosmo enologico e pose le basi per una evoluzione della varietà e qualità dei vitigni rendendoli più resistenti al freddo. Alla caduta dell’impero romano d’occidente (476 d.C.) seguirono secoli in cui si trascurò la viticoltura. Solo i monaci cristiani continuarono gli “studi enologici”, in quanto la religione cristiana prevedeva durante i propri riti l’uso del vino, e coltivavano vigneti accanto alla loro chiesa. Testimonianze di queste coltivazioni nel carseolano si ritrovano negli atti di vendita dei vari territori, dove si citano “terris, vineis, possessiones…”. Intorno al IX° secolo, con Carlo Magno, si assistette alla ripresa della cultura enologica. Il consumo del vino piano piano crebbe fino a raggiungere un vero boom durante il periodo medioevale nel quale vi furono due approcci a questa bevanda del tutto opposti: la classe povera, che lavorava per il padrone feudatario e beveva il vino come sfogo di tanti soprusi e ingiustizie; la classe abbiente, che trasformava il consumo di vino in un vizio. Nei secoli successivi si perfezionarono le tecniche di vinificazione e produzione, compreso l’innesto sulla vite americana per sconfiggere la peronospora, ma le operazioni legate al vino rimasero pressoché identiche: la vendemmia avveniva generalmente tra la fine di settembre e i primi d’ottobre; l’uva raccolta veniva pigiata nel tino a piedi nudi e poi lasciata fermentare nelle cantine dai 15 ai 20 giorni; mosto e vinacce erano, quindi, spremuti con il torchio per poi essere depositati nelle botti in attesa di successivi travasi e in vista degli abbondanti beveraggi. Nel corso dell’anno, i lavori agricoli principale erano i seguenti: a gennaio: preparazione degli attrezzi da utilizzare nella stagione successiva: botti, bigonci, cesti costruiti con il legno tagliato in precedenza; a febbraio: potatura della vite; ricambio nei filari dei pali di sostegno; zappatura finalizzata alla preparazione del terreno alla semina; a marzo: legatura dei tralci di vite; travaso e imbottigliamento del vino (nel periodo di luna vecchia); a maggio: erogazione di zolfo e verderame alla vite (questo proseguiva fino al mese di luglio); taglio di pali per i lavori invernali e per il sostegno delle viti; a settembre: vendemmia; pigiatura dei grappoli d’uva e travaso dei mosti nei tini; a novembre: a S. Martino: assaggio del vino; a dicembre: travaso dei vini nel periodo di luna vecchia durante le giornate più miti. Nella seconda metà del XX° secolo, quando si diffuse la vinificazione di uve provenienti da zone diverse o l’imbottigliamento di vini sfusi acquistati già fermentati, giunsero sulle tavole vini di una qualità molto variegata e a volte scadente. Ricordo un insegnamento di mio padre, Antonino Balla, in quelle poche occasioni in cui comprava (quando era finito o era andato a male quello delle sue vigne!) il vino sfuso nelle botteghe o da venditori ambulanti: “per riconoscere se il vino rosso è annacquato – diceva – devi tagliare un velo sottile di polpa di una pera e metterla in un bicchiere pieno di vino. Dopo qualche tempo, se l’ostia della pera torna a galla, nel vino c’è acqua; se, invece, resta nel fondo, il vino è puro. Più la pera tarda a venire a galla, meno acqua c’è nel vino. Con il 50% di acqua, la pera viene a galla dopo circa tre minuti.” Ricordo anche l’acidula asprezza del vino che l’indimenticabile Stucchittu offriva generosamente a noi ragazzi durante le cenette fatte a casa sua: un vino proveniente da una zona quasi sempre all’ombra, “le funticelle”, dove l’uva non giungeva mai a completa maturazione. La tendenza degli ultimi anni, però, vede un consumatore desideroso di ricercare emozioni particolari di fronte ad un bicchiere di vino; nascono nuove curiosità ed interessi che spingono il Peretano alla ricerca e comprensione di quel che c’è dietro definizioni come brut, tannico, gusto rotondo, sentore di sottobosco, sapore piatto, persistenza, e così, per esempio, Enrico di Sorecone frequenta il corso da “assaggiatore di vini”, Fernando di Mozzone importa mosti veneti, Livio Cacione vinifica uve acquistate nella campagna romana, Betto di Cococcia imbottiglia il vino di Palestrina, Alfonso Prassede impianta una fornitissima cantina, gioia e delizia per sé ed per i suoi amici; mentre altri, ancora in difficoltà nel miscelare il metabisolfito e rimasti affezionati alle loro vecchie, malcurate e maleodoranti botti, continuano a rovinare il vino sfuso approvvigionato qua e là o proveniente dagli ormai pochissimi fazzoletti di terra ancora coltivati a vite. In tutti questi secoli il vino è entrato a far parte dei simboli della storia, della cultura e della tradizione contadina del nostro territorio. Oggi, come in passato, il periodo della vendemmia, la ricerca di mosti e vini, la vinificazione, l’assaggio di S. Martino, i travasi, lo stesso imbottigliamento, le abbondanti libagioni, gli assaggi nelle case degli amici, vissuti nello spirito così egregiamente descritto da Verdi ne “La Traviata”, con i famosi versi “Libiam ne’ lieti calici/che la bellezza infiora/ e la fuggevol ora s’inebri a voluttà”, hanno mantenuto il loro valore rituale e sono gesti che hanno una loro magica e solenne sacralità e forza aggregativa. L’interesse che nei secoli il vino ha attirato su di sé è dovuto agli effetti benefici sulla salute; infatti,, se bevuto con moderazione, potenzia la memoria, rallenta l’invecchiamento, è antibatterico e antiossidante, diminuisce l’insorgenza di forme tumorali ed è stato utilizzato ab antiquo anche nelle ricette mediche. Le più usate erano quelle di Ippocrate, Galeno, Celso e Paracelso, Asclepiade di Bitinia, Pietro Spano, Francesco Mattioli. Il vino migliore per la preparazione di infusi e ricette è quello bianco ad elevata gradazione alcolica (14° – 16°) che consente una maggiore difesa del preparato contro possibili fermentazioni e che è più idoneo ad assorbire i principi attivi contenuti nelle droghe vegetali, erbe, fiori, radici, frutti, posti in infusione nel periodo di fermentazione del vino. Tra i tanti rimedi, cito quelli più semplici e comprensibili: per la cura degli occhi:collirio di mele bianche e vino bianco; per la cataratta: collirio fatto con artemisia e radici di finocchio, messe per cinque giorni a macerare con vino bianco e poi lungamente bollite; contro la caduta dei capelli, la tubercolosi ed i tumori: vino rosmarinato; contro l’isterismo: il vino con la cicoria; per avere effetti lassativi: il vino raspativo, fatto con l’uva acerba e con i raspi dell’uva matura; per recuperare la memoria perduta: il vino preparato con l’immersione di un sacchetto di pepe nel vino bollente; per la vista diminuita degli anziani: il vino eufragiato (con eufrasia) e fenicolato (con acido fenico) al finocchio; per le febbri: il vino vecchio con miele; per i calcoli: “gratta un grosso ravanello sbucciato in un litro di buon vino, mescola spesso e lascialo in infusione per tre giorni; poi fallo schiarire e fallo bere all’ammalato per qualche giorno prima di cena ed al mattino”; contro i morsi di vipera: “cuoci dei fiori di rosmarino in buon vino bianco, dandone da bere all’ammalato”; contro le forti sbornie: dare all’ubriaco fiori di dragantea mescolate nel vino bianco annacquato; contro il torcicollo: bere buon vino con semenza di ruta tritata. Questi sono alcuni degli antichi “rimedi per conservare la sanità e prolungare la vita”. Forse essi non sono peggiori di quelli consigliati da qualche cerusico moderno che, stando alle diagnosi che fa, si rivela più becchino che medico.