La storia, sia degli uomini sia delle cose, può e deve essere ricostruita attraverso i documenti e le testimonianze del passato. E così anche la storia del Fucino, quel grande lago che occupava tutta la vasta pianura oggi così fertile e verdeggiante, deve e può essere scritta solo per mezzo dei resti materiali che gli uomini del passato ci hanno trasmesso; epigrafi, avanzi di città, tombe, ma anche libri e documenti vari. Se ne parliamo a questo punto del nostro lavoro, è perché il prosciugamento del Fucino avvenne proprio negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia e costituisce, senza alcun dubbio, l’esempio più appariscente dei mutamenti verificatisi in Abruzzo negli ultimi cento anni.
Numerosi storici, nel passato, hanno scritto la “storia” di questo lago, servendosi sia dei monumenti materiali, sia delle descrizioni o delle relazioni trasmesse da chi li aveva preceduti. Ma, accanto alla storia ufficiale, anche qui c’è un’altra storia, forse meno famosa della prima, e tuttavia non per questo meno interessante e affascinante. Ed è la storia degli uomini del Fucino, dei loro miti e delle loro “realtà”, delle loro esperienze quotidiane, dei loro drammi e sofferenze e speranze e delusioni, che talvolta si trasformavano in “favole”, quelle che gli uomini inventano ogni volta che vogliono dare un senso alla loro vita e ai loro sentimenti. Anche questa, dunque, è la storia del Fucino.
TORLONIA, IL GRANDE SECCATORE DELLA NATURA
Tutti oggi sanno come il lago del Fucino sia scomparso, prosciugato nel secolo scorso per iniziativa del principe Alessandro Torlonia, che riprese e portò a termine idee e progetti cui aveva dato inizio, diciotto secoli prima, l’imperatore romano Claudio. Alcuni hanno giudicato positivamente tale prosciugamento, altri ne hanno messo in rilievo gli aspetti negativi. Tra i primi si può ricordare Alessandro Dumas junior che si unì agli applausi dei contemporanei per la realizzazione di un’opera, che sembrava pazzesco solo pensare. Tra i critici (numerosi già allora, ma più numerosi in seguito) è da annoverare il tedesco Ferdinand Gregorovius, il quale così scrisse; “Torlonia, il grande seccatore della natura, è sordo all’appello delle ninfe; egli non teme neppure la vendetta dei pesci che potrebbero tormentare i suoi sogni. Egli non crede più alla mitologia d’Ovidio; ha denari e può sfidare gli dèi, che dichiareranno fallimento. Potesse egli almeno risollevare dal lago le città che vi sono sprofondate, Marruvium e Pinna! […]”.
Ad ogni modo, nonostante le divergenze di interpretazione, tutti hanno dovuto riconoscere che la scomparsa del lago ha determinato il capovolgimento totale delle condizioni di vita degli uomini che vi abitavano attorno. Lo stesso Gregorovius dovette riconoscere che “Torlonia coi denari ha fatto risorgere questa regione” e augurargli “un monumento che tramanderà ai posteri la gloria di questo grande prosciugatore”. La profezia del Gregorovius (che, cioè, Torlonia sarebbe stato il “re della Marsica” per almeno 99 anni) non si è avverata: nel 1950, in seguito alle lotte contadine e alla riforma agraria, il “re del Fucino” ha perso il suo trono. E già prima di quella data qualcuno aveva osato mettere in dubbio i vantaggi e la prosperità che si pensava dovessero derivare dal prosciugamento: “Le condizioni economiche – scriveva Luigi Colantoni – sono andate a male. La popolazione di Luco, ricchissima ai tempi del lago, ora è povera. I terreni che circondano la conca fucense hanno perduto il valore che aveano prima del prosciugamento; perché in essi gli alberi rimasti non producono più il frutto sperato; e mentre l’affitto di tutt’i terreni del regno, per la cresciuta imposta fondiaria e per altre cause, è aumentato, quello de’ terreni marsi è diminuito. Per la concorrenza delle terre prosciugate, si è preparata e tende a realizzarsi una grande catastrofe economica ed una fallenza de’ piccoli proprietarii, i quali già van scomparendo; vediamo già crescere un dì più dell’altro la classe de’ nullatenenti, e ripristinarsi, sotto nuova forma, il feudalesimo”.
MITI DEL FUCINO
Vera o non vera quest’analisi, certo è che il Fucino ha sempre sollevato curiosità, polemiche, divergenze di opinioni, persino sulle cause della sua origine. C’è stato chi ha avanzato ipotesi audacissime, come quella di un Abruzzo antico tutto ricoperto dalle acque del mare, e ciò sarebbe avvenuto “nel ritirarsi le acque dell’universale Diluvio, quando per questo ultimo cataclismo rimasero ad occupare la superficie medesima del bacino nella stessa estensione e profondità”. Più avvincente, anche se meno verosimile della prima, è però la versione popolare della nascita del Fucino, riferita da Antonio De Nino e Giovanni Pansa: “Nell’ampia conca marsicana esisteva anticamente una città chiamata Marsiglia. Era tanto grande che faceaa fòcora centomila. Quando Gesù Cristo girava il mondo, capitò una volta a Marsiglia per cercarvi l’elemosina. Ma tutti gliela negavano dicendo: Perché non vai a lavorare? Sfinito dalla fame e dalla stanchezza disse Gesù: Questo popolo mi ha negato un tozzo di pane, ma non mi negherà un ricovero. Calavano le ombre della notte, mentre Gesù andava picchiando inutilmente alle porte per chiedere ricetto […]” E la leggenda prosegue rapida verso la consueta catastrofe finale: solo una povera vecchietta dà ospitalità al pellegrino, il quale, la mattina successiva, invita la donna a seguirlo fino ad Arciprete (l’antichissima Archippe) senza mai voltarsi indietro. “Ma come giunsero a quella località Gesù disparve. Allora ella si voltò indietro e, spinto lo sguardo, non vide più Marsiglia. Al posto della città era sorto il lago Fucino”.
Questo “mito” cristiano, probabilmente, non è che la rielabora-zione successiva, a livello popolare, di un altro mito più antico, appartenente alla cultura classica e che, proprio nei confronti del Fucino, ha attirato l’attenzione non solo dei narratori e dei poeti, ma anche degli studiosi di storia e degli esperti di antropologia culturale. Senza voler pretendere di tracciare qui un panorama delle interpretazioni o delle “letture” di tale mito, ricordiamo quanto scriveva in proposito Giovanni Pansa, sotto l’influsso di studiosi di un certo calibro quali Van Gennep, Frazer e Tylor: “Secondo una credenza abruzzese, sorretta dalla tradizione delle grandi catastrofi telluriche succedute all’apparizione dell’antico lago Fucino, l’esistenza di questo risale ad una leggenda diluviana derivata, come sembra, dalla versione greca dei tre principali cataclismi che avevano distrutto il mondo: il diluvio di Ogyge, quello di Deucalione e quello di Dardano. La convergenza fra loro di siffatte leggende della Grecia e quella abruzzese intorno alla formazione del lago Fucino, dipende soprattutto dalla identità delle vicende geologiche le quali contribuirono alla formazione d’un ciclo tematico di fondo comune […]”. E ancora il Pansa, nell’accennare a una caratteristica precipua delle acque del Fucino, che era quella o delle crescite improvvise e abbondanti, o delle decrescenze altrettanto rapide e disastrose, ricorda un’altra tradizione, già raccolta nel Seicento dal Febonio, “secondo la quale in epoche lontanissime sorgeva nell’attuale pianura dov’era il lago Fucino, una grande città denominata Marsia”, sommersa improvvisamente quando si ruppero le dighe “che riparavano la pianura dalle scaturigini circostanti”.
Si tratta, dunque, di un’evidente anticipazione di quella leggenda cristiana sulla quale ci siamo soffermati, presentata però dal Febonio in veste di spiegazione scientifica, o quasi. Il Fucino, pertanto, era un lago che soffriva spesso di variazioni d’umore: bello e benefico in alcuni momenti, diventava orribile e rovinoso in altri. E le popolazioni ripuarie vivevano in continua tensione, soggette com’erano ai capricci delle acque, di fronte alle quali spesso non erano sufficienti le difese approntate dall’uomo. Fu, certamente, questa la ragione che, fin dai primordi, aveva suggerito alle genti del posto l’identificazione del Fucino con una qualche divinità. E fu al “Genio del Fucino” (o dio selvaggio) che gli antichi Marsi dedicarono templi, altari votivi ed epigrafi. All’interpretazione mitica del lago Fucino si aggiunse ben presto anche quella del fiume le cui acque si immettevano nel lago: quelle del fiume Pitonio, oggi detto Giovenco. E queste due “divinità” (il dio Pitonio e il dio Fucino) erano, come tutte le altre divinità, buone e cattive: cattive, per la loro violenza e la loro forza distruttiva; buone, perché le loro acque apportavano salute e benessere.
I CAPRICCI DEL LAGO
Acque virtuose e salutari: questa era, dunque, una delle loro prerogative. E la loro bellezza era stata cantata persino da Virgilio nell’Eneide, tanto che molti romani, più tardi, si costruirono splendide ville lungo le sponde del lago. Ma qualche volta quel bellissimo lago diventava malvagio; e, con il gonfiarsi delle sue acque, ville e paesi e campagne venivano completamente allagati e distrutti. “L’amenità del sito – scrisse nel secolo scorso Giovanni Rocco, che si era recato nel Fucino per stipulare, a nome del governo, il contratto definitivo della concessione alla Compagnia impegnata nel prosciugamento – non toglieva che le inondazioni ed il rovinoso impeto delle acque del lago avessero di continuo afflitte e disertate le contrade e le ubertose campagne de’ Marsi […]”.
Fu proprio tale pericolosità del lago a spingere, fin dai tempi più antichi, gli uomini a un’impresa gigantesca, quella del prosciugamento appunto, che fu tentata dall’imperatore Claudio e compiuta da Alessandro Torlonia. Le difficoltà furono enormi: non solo di natura tecnica (o, meglio, ingegneristico-idraulica), ma anche di carattere logistico, morale, economico e… culturale. La Marsica, ad esempio, mancava completamente di strade, il che comportava un quasi totale isolamento di tutta la regione e gravi ostacoli ai lavori e al trasporto del materiale occorrente all’impresa. Tuttavia, superati gli impedimenti più gravi, la gigantesca impresa poté finalmente essere compiuta.
I PESCATORI DIVENTANO CONTADINI
Da quel momento, cambiato l’aspetto fisico della regione, si trasformano rapidamente anche i costumi e i comportamenti della gente, la cui vita per secoli era stata modellata e condizionata dal lago. Attorno ad esso, infatti, ruotava tutta l’economia del passato (agricoltura e pesca): i pescatori, perché dal lago ricavavano i mezzi per il proprio sostentamento; i contadini, perché dai capricci del lago dipendeva la minore o maggiore possibilità di utilizzazione agricola delle zone ripuarie. Un momento felice, per gli abitanti della zona, fu certamente l’inizio del XVIII secolo, quando, ritiratesi le acque, molte terre poterono essere bonificate e, quindi, destinate alle coltivazioni. Interessante, al riguardo, è un verbale di risoluzione, stilato dalla “università” di Avezzano il 1° agosto 1734, con il quale si stabiliva di assegnare a tutti i capi-famiglia (in numero di 177) una quota (una “lesca”) delle terre emerse.
Un paese, soggetto più di altri alle variazioni d’umore del lago Fucino, era Ortucchio, che spesso, con l’innalzarsi delle acque, si trasformava in isola, perdendo i propri terreni, con grave danno per l’economia locale e con il conseguente disagio per i suoi abitanti. Furono gli ortucchiesi a rivolgere un’accorata petizione al re Giuseppe Bonaparte, il 13 luglio 1807, denunciando “l’esterminio che sta facendo delle abitazioni il lago Fucino, dopo avergli assorbito 20 mila coppe di territorio, rendendo mendici tutti gli abitanti […], ridotto il paese un’isola, senza strada da poter uscire ad un miglio dentro il Fucino”. E già nel secolo precedente gli abitanti di quel centro avevano chiesto all’autorità ecclesiastica il permesso di rintracciare il corpo del loro santo protettore, Sant’Orante, ed esporlo alla venerazione dei devoti, dal momento che solo l’intercessione di quell’umile santo avrebbe potuto limitare “i gravi danni provocati dalla escrescenza delle acque del Fucino”.
Quindi, furono proprio i pescatori a perorare, con le loro suppliche, provvedimenti governativi tendenti a ridurre al minimo i danni provocati dal lago. Ma, quando nel 1865 si era già avanti nei lavori, furono molti di loro a ribellarsi: si giunse persino a manifestazioni popolari di protesta, che sfociarono ben presto in episodi di violenza contro la Compagnia incaricata dell’impresa. Sembrò per un momento che l’obiettivo del principe Torlonia non potesse più raggiungersi: la Compagnia dovette interrompere l’attività, i luchesi (che erano, per la maggior parte, pescatori) cominciarono a cantar vittoria. Ma l’azione anti-prosciugamento di Luco provocò le immediate reazioni di tutte le altre popolazioni del Fucino: i Consigli Comunali, riuniti d’urgenza, espressero con decisione la loro rabbia e la loro riprovazione contro i lucesi, riaffermando la solidarietà a Torlonia e pregandolo di non dare ascolto alle voci di pochi violenti.
Le “delibere” dell’epoca costituiscono una documentazione di estremo interesse del clima e della mentalità delle popolazioni, così come delle esigenze di carattere economico e sociale che erano alla base delle loro scelte “politiche”. Intervennero, dunque, i Consigli Comunali di Gioia dei Marsi (8 maggio), Lecce dei Marsi (11 maggio), Trasacco (12 maggio), Aielli (22 maggio), Avezzano (25 maggio), Ortucchio (3 giugno), Pescina (4 giugno), S.Pelino e di nuovo Trasacco (giugno 1865). Furono raccolte centinaia di firme di solidarietà a favore del principe, e Avezzano deliberò all’unanimità la seguente proposta; “Che sia conferito a S.E. il Principe Romano Don Alessandro Torlonia il titolo di Cittadino di Avezzano, rilasciandosi a cura del Sindaco l’analogo diploma [e] che la Piazza Aia sia chiamata Piazza Torlonia […]”.
Fu vero entusiasmo collettivo, oppure i documenti ci presentano soltanto una faccia della medaglia? Non sappiamo. Quel che è certo, invece, è che di lì a qualche decennio la situazione reale sarà profondamente diversa dalle aspettative iniziali: la denuncia di Silone in Fontamara farà diventare di interesse mondiale la miseria e l’avvilimento dei “cafoni” del Fucino. E, accanto alle motivazioni di carattere sociale, torna a riaffiorare quell’antica nostalgia del lago, tale da far sognare, se non i contadini, certamente quei pittori e poeti del nostro tempo, i quali, “quando d’inverno si spengono i canti dei pastori che ridiscendono in silenzio le valli dei Marsi”, credono ancor oggi di rivedere “il vecchio lago scomparso […]: un miracolo bellissimo e suggestivo della natura, che rende più ricca di fascino questa nostra terra dove la leggenda diventa realtà e la realtà leggenda”. La storia attuale del Fucino, però, è ormai un’altra: è quella dell’industrializzazione e della riforma agraria, di Telespazio e delle autostrade. Ma questa, forse, è la storia di tutto il mondo, e non soltanto del lago della dea Angizia e del dio Pitone.