Trascrivo dall’Enciclopedia Universale Fabbri. […] “Il capo, cospicuo, rispetto a quello di altri equini, presenta sempre le caratteristiche orecchie lunghe. Il volume del cranio, considerevole, è in rapporto a un grado di intelligenza notevole nell’ambito degli equini e certamente superiore a quello del suo più nobile e meno disprezzato parente, il cavallo. […] L’asino è impiegato prevalentemente per il trasporto di merci e di persone (per tale funzione in molti paesi che si affacciano sulla costa abruzzese è chiamato la vettura, n.d.r.) e può resistere meravigliosamente alla fatica, cibandosi di erbe povere di sostanze nutritive; esige invece acque pure per l’abbeverata”.
Nell’Italia del secondo dopoguerra, paese in prevalenza agricolo, l’asino è ancora molto diffuso tanto che, quando non è più adatto a far da vettura (può vivere anche venticinque anni), è considerato carne da macello; la si ritroverà “in quarche mortadella de Bologna”, ammicca Trilussa nell’epigramma, di scolastica memoria, “Er porco e er somaro”.
Abbiamo letto dell’intelligenza dell’asino. Il lettore può farsene un’idea deducendo da quanto vado a riportare. Sempre nel periodo su ricordato, le radure e gli avvallamenti di montagna vengono seminati prevalentemente a solina, varietà di grano adatta ai terreni in alta quota. La mietitura è fatta a mano con la ben nota falce, dal taglio affilato a colpi di martello su di un piolo a testa larga che fa da incudine, e rifinito con la cote (della mietitrebbia, che almeno sarebbe adatta alle terre della piana, non si conosce neppure il nome…).
Man mano che la mietitura procede cresce il numero dei covoni, i manoppri, che arrivati a costituire la soma, più o meno una dozzina, vengono caricati, le spighe in giù, sulla vettura per essere portati all’aia che può essere distante anche due o tre ore di cammino; due tre ore: tempo prezioso sottratto alla mietitura, se dovesse essere l’adulto a occuparsi dell’incombenza. Il compito di portare i somaro all’aia è affidato allora al più grandicello fra i ragazzi della famiglia; di fronte all’aria di sorpresa e alla perplessità dell’adolescente che magari obietta: – Ma se non conosco la via!-, gli si risponde per rassicurarlo e dargli coraggio: – Non preoccuparti! All’aia ti ci porta l’asino; lui sa la via e all’aia trovi sempre qualcuno che te lo scarica -.
In cuor suo non del tutto tranquillizzato, l’ometto vede quindi applicare al muso della bestia e legare al capestro un graticcio di spago a maglia larga di forma circolare; serve ad impedire che l’animale, che evidentemente percepisce se porta un carico commestibile, strappi con la bocca, ora a destra ora a sinistra, manciate di spighe.
Si parte. L’animale, tenuto per la cavezza dall’adulto, è condotto fin sul sentiero che porta al paese; il capestro gli viene attorcigliato al collo; dato il via con un aaah! e un paio di bastonate sulla groppa. Avanti l’asino, dietro il ragazzo.
Il somaro non si discosterà mai dal tracciato; porterà felicemente il carico all’aia, sarà scaricato della soma dalla prima persona che lo avrà visto arrivare tenuto per il capestro dal ragazzo (c’è solidarietà nel mondo contadino soprattutto al tempo della mietitura e della vendemmia) e liberato da lĕ búcchĕsĕ; questo, a Lecce, il nome del graticcio che copre (copriva…) la bocca delle bestie da soma; come da narrazione.
E qui, per il lettore abituale di questa testata, che avrà notato qualche altro scritto dalla stessa firma, trapela il vero scopo dell’articolo: risalire all’origine del termine búcchĕsĕ; origine che si chiarisce con accadico pû bocca, e accadico kaşû coprire. È antica l’invenzione della mascherina, lĕ búcchĕsĕ: antico…come casa.