Il castello di Lecce Nei Marsi

  Ultimi  anni quaranta del secolo scorso; periodo della   mietitura  al Campo, località a superficie piana ai piedi di Lecce Vecchio. Dal campicello di una decina di are,  tramandato di generazione in generazione,  dove i miei genitori mi hanno portato  forse  per mostrarmene l’ubicazione,  ( il  dettaglio,  di nessuna rilevanza in sé, vuole rimandare  alla  vita di montagna nella Marsica di quegli anni ),   guardo stupito il vecchio borgo di cui giù, in paese,  i più anziani favoleggiano di suono di campane che, a tempo di prima,  si sentiva fino a Celano, di  vappi ( guappi) che   si  partivano spavaldi  per dare una   lezione a  ‘quelli del castello’, di feroci  briganti che terrorizzavano le massarie sequestravano persone commettevano ogni atrocità. 

 A trent’ anni dal terremoto del 13 gennaio 1915, nonostante i crolli,  la cinta delle mura è ancora imponente; le torri rettangolari, innalzate su una preesistente cerchia  ciclopica, sporgenti dalla cortina, ne accentuano la potenza; le due chiese,  di cui si fa cenno nella  Bolla di Clemente III,  (  Andrea Di Pietro, Origini e storia di Pescina  e dintorni, Adelmo Polla  Editore, p.93. )  in rovina ma ben identificabili; la maggiore, chiesa parrocchiale,  sul colle di sud ovest, da osservatori poco attenti scambiata per un castello, quando  il ‘Liber Mortuorum’,   ossa umane  e crani che incominciano ad affiorare  fra i ruderi,  suscitando un generale  stupore  che  richiama l’attenzione  dell’Autorità Giudiziaria,  parlano di sepolture  in chiesa ( “ Anno Domini  1784, die vero trigesima mensis Januarii, Joannes Grilli, aetatis suae annorum quadraginta unius  obiit […] et corpus eius  humatum fuit in hac ecclesia parrochiali,  adibitis de more funeralibus,  sedente D. Francisco Vincentio Layezza, Marsorum Episcopo.  D. Lauretus Chiola archipresbiterus  scripsit” [1] );   la seconda, in linea con la prima, a nord  ovest, sul colle più basso; la torre mastio, vedetta sul punto più alto ( 1278 s.l.m.), a scrutare la Conca del Fucino; spettacolo che suscita rimpianto per questo castello, vera e propria cittadella,  dove  nell’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, in  ruderi riadattati a capanna, vanno a trovare rifugio, per qualche tempo,  alcune famiglie di Vallemora,  in ansia per la presenza in paese di una guarnigione della Wehrmacht.[2] 

 Non vede che poveri resti, ai giorni nostri,  chi per un’escursione alla Cicerana e alla Selva di  Mĕrrĕcéntĕ,  patrimonio dell’umanità,   percorra   la strada che mena alla Terrarošša, così chiamata, dai nativi,  la località    la  Guardia,  dove  veniva estratta    la   bauxite ( trasportata  a valle da una mastodontica teleferica con stazione a Vallemora, là dove ora c’è il capolinea degli autobus,  quindi con carretti alla stazione di Pescina e poi, in treno, allo stabilimento di Bussi,  per ricavarne l’alluminio), e  si chieda il perché della disattenzione per  questo borgo che avrebbe potuto costituire testimonianza  e  attrattiva,   essendo stato l’unico paese  della Marsica che, abbandonato  nel corso dell’Ottocento in seguito al prosciugamento del lago, aveva conservato la sua struttura medioevale di castello,  borgo  difeso da una cerchia  di mura,  come l’antica Roma; questa oppidum ( Livio ) sul Palatino nel secolo VIII a.C.,  il nostro borgo oppido nel V-IV secolo, come testimonia la su ricordata cerchia  “  di I-II maniera poligonale messa in opera a secco”. [3] 

La buona sorte mi ha concesso  di varcare, a distanza di anni, la siepe naturale di  biancospino, carpini, aceri,  maggiociondoli, cornioli che recinge  il poderetto;   di calcare forse le  stesse mie orme  e, di rivolgere ancora  lo sguardo  verso quelle   torri.

Non è più  il castrum Litii che  vidi da ragazzo, quel che ho davanti agli occhi. Ti prende un certo scoramento.
Animo!
  “Quando le pietre rimangono mute, le parole continuano a parlare la lingua del passato”, scrisse  Jacob Grimm.  E suona  rassicurante.  
I nomi   che leggiamo  nel  catasto del 1704, in quello del 1736, dalle pagine scompigliate e mutilo perché sarà capitato in mani leste,   e  soprattutto in quello del 1753 parlano del  passato di questo borgo millenario. [4]   
 Tre porte si aprivano nella cerchia di mura:  porta  Caiola  o Pila detta anche  di  Collemino,  porta di Metta  o della Corte  e porta del Campanile
  Sentiamo il catasto.
 Su porta Caiola o Pila o  di Collemino.
 “ Domenicantonio di Biaso Valletta abita in casa propria nel luogo detto Porta Caiola […].    
 Antonio di Leone  abita in casa propria sita nel luogo detto la Pila  seù (cioè) Porta Caiola giusta ( vicino) li beni di Angelo Leone e di Matteo Cherubini.
   Antonio Milani,  Mastro Fà legname (sic),  abita in casa propria nel luogo detto la  Pila […]  e  possiede altra casa nel luogo detto vicino la Porta di Collemino […] per uso di bottega .
Angelo di Giovanni Metta possiede un piccolo orticello per uso di casa  nel luogo detto Collemino di puggello uno  giusta li beni di Antonio Milani, le Mura e la Via”. [5] 
Su porta della Corte o di Metta
“Pasquale Coccia  abita in casa propria nel luogo detto sopra la Porta delle Corte […]  e possiede una stalla, nel medesimo locale per comodo dei suoi animali giusta li beni di  Micchele Iannitti (il quale) abita in casa propria sita vicino la Porta di Metta
Su porta del Campanile.
“Angelantonio Genovese bracciale possiede una stalla con pagliaro nel luogo detto fuori la porta sotto il Campanile, per uso dei suoi Animali, giusta li beni di Gaetano del Papa, e la Strada”.  
  Non ci soffermeremo  su questa porta   se non per accennare al fatto che la scelta, strategica,   di lasciare  il  varco  a pochi metri dalla torre campanaria,  ubbidiva   a un preciso disegno:  permettere alla popolazione, scesi pochi tornanti sulla sinistra,   di portarsi celermente  a valle, all’abbondante acqua del  rio che dalla sorgente di Saùco, là dove ora c’è un casotto da cui parte la conduttura che porta l’acqua al  paese odierno, scorreva nel canale. Fontana, lavatoio, abbeveratoi  non potevano mancare [6]

 Andiamo  allora  ad occuparci  delle altre due porte. 

“ E’ noto che i toponimi  tendono a permanere molto a lungo nel tempo”, ci ricordano Luca e Francesco Cavalli Sforza nella loro opera. (Chi siamo, Codice editore, p.239.) Valgano a dimostrazione i nomi di:   CaiolaPila, Corte, Collemino che, stante l’antichità del nostro oppido – castello,  non possono che rifarsi ad un remoto passato e  gli  esempi che riporto qui sotto:  accadico daqqu, piccolo, fanciullo e Dachĕ soprannome di persona  di bassa statura; accadico darāsu, repellere, respingere indietro, leccese darassĕ allontanare, respingere (“ darassĕ, Signore!” è l’implorazione  rivolta al cielo   in presenza di una calamità come: una  tempesta con saette,  una grandinata che rovini tutto il raccolto,    una sciagura, una pestilenza );  accadico barāqi, del lampo, del fiammeggiare, accadico burruqat , detto,  in un testo accadico, di una signora che ha gli occhi lampeggianti  ( ‘ blitzende Augen hat’,von Soden, 106 a.; da  Semerano, G.,  Le origini della cultura europea, p.305” ), Barracchittĕ, soprannome di un carissimo, effervescente,  indimenticabile  amico  che ci ha lasciati,  occhi vivaci,  portano a sostenere che  anche nei nomi delle porte del nostro borgo rivive     la lingua di Sargon, l’accadico, arrivato con le conquiste del grande re   fino alle sponde  del Mediterraneo, e da qui propagatosi per tutto il bacino.  Con la civiltà  viaggiano le parole che  nel fondo linguistico del vicino Oriente sono simboli  tradotti in realtà, coincidono con l’essere sono il fatto stesso.  Salva  l’astrazione, caratteristica  del pensiero  occidentale, farei  un esempio con la voce spagnola   ola,   

  Durante una partita  di  calcio,  in certi momenti della gara,  si assiste ad un agitarsi degli spettatori che si levano in alto e si risiedono imitando il movimento di un’onda;  fanno, insisto,  fanno  la ola;    e non  aggiungo altro  sulla voce se non che, facile  previsione,  fra i sostenitori della squadra vittoriosa  in tanti  andranno  a festeggiare il successo  con abbondanti  libagioni  e braciole ( chi non ha assaporato mai  carne di proprio gusto e, visto che siamo in Abruzzo, arrosticini fumanti…    in alto alla  brace ?! quando non braciole, fatte a braciola,  infilate  a lunghi spiedi di rami lisci di faggio,  in aree attrezzate di montagna?).   Bene.  La parola ola  coincide con  ( il fatto di  levarsi in )  alto, dunque;  e  in   accadico   elû   è alto, andare su, ascendere, andare in alto in un luogo, elevato, appunto.

Siamo  pervenuti così  in alto; a porta  Cai-ola che  l’archeologo,   muovendosi,  letteralmente,  nello spirito dell’ammonimento   “…il piccone dello scavatore è cieco e il materiale messo in luce inutile quando non soccorrono le cognizioni storiche , filologiche, etimologiche dello studioso”  dello storico dell’antichità B.R.Motzo,  ha cercato e  scoperto  a nord est del colle più basso,  accanto alla chiesa di Sant’Elia,  a strapiombo sul Fossato, esattamente come  indicato dalla     prima componente del  termine cai-,  voce semitica corrispondente  ad ebraico gajvalle, terra bassa in riva al fiume, al mare ”; antico francese cay, gallico cai, francese quai  lungofiume, greco γαίη.   Caiola dunque in alto al Fossato. Si perveniva a porta Caiola per via della Cecola che  risaliva ( risale) dal vallone, “autostrada”   che    collegava il borgo con il resto del mondo.  Via della  Cecola passa fra diverse aie dove si triturava  il grano   sul crinale,  accadico  eku limite, confine;   ce– < sa pronome dimostrativo,  quella. Cecola quella ( la via ) in alto, al confine ( sulla cresta), che conduceva dritta alla porta per eccellenza;   alla   Pila, accadico abullu porta, porta di città, il quartiere stesso,  che da essa prendeva il nome.   Al 14 Gennaro (sic) del  1754  al quartiere la  Pila o, con il nome del colle, a Collemino,  c’erano  81 famiglie per   456 abitanti (quanti, in realtà, se dagli inizi di ottobre a fine aprile   c’era da badare alle più di quattromila pecore e alle più di tremila capre che   si portavano  in Puglia, custodite anche da  ragazzi di 7-8  anni?  Che  Nan  cĕ lĕ pĕrtìvĕ  lĕ pèquĕra  ‘n Pujja –  sĕ nan tĕnìvĕ   la cujja!  ammonivano i vecchi pastori, a significare quanto dura fosse la transumanza). 

 A Collemino è  evidente la cinta di mura a difesa dell’oppido;  Collemino,  da accadico kallum cima,  testa e da  voce mediterranea, semitica,  ebr.   mānă, sbarrare, chiudere;  latino moenia mura, baluardi, fortificazioni.
La Rua [7] di Sant’ Elia  degrada dolcemente  verso lo scoscendimento del colle opposto  e qui, alla convergenza, c’è  la porta di Metta; termine derivato, per scomparsa dell’accento e raddoppiamento della dentale, da (di)  metà, per  la posizione occupata, fra i due colli.   
  Corte è l’altro nome di questa porta,   per un  preciso motivo.
E’ la porta ai piedi del colle della chiesa parrocchiale, della torre mastio della “Casa dell’Università” (il comune),  della piazza principale; è  la porta per la quale si entrava in città;  accadico qarittu, aramaico  qarta , ebraico queret, arabo qariat. ( città, villaggio.), grod polacco, gorod  russo, grâd serbo croato, ugaritico qrt e, per finire, leccese  qrti-jjĕ,   dai ‘catastieri’ italianizzato in   corte.
Chiudo  col dire che fino al terremoto della Marsica, Castelluccio, l’attuale quartiere di Lecce, costituiva il casale capoluogo:  qui il municipio, la  chiesa parrocchiale, la scuola elementare;  costituiva il centro  degli altri otto casali che formavano il paese; era, nome che si conserva ancora,  lĕ Quĕrtijjĕ, cioè la città, distrutto dal terremoto, ma tornato all’antico grazie all’affezione e alla lungimiranza di avveduti imprenditori che l’hanno reso un posto  incantevole, di  piacevole soggiorno.   Lĕ Quertijje  di Lecce Vecchio, al 14 Gennaro 1754, contava 84 fuochi ( famiglie)   425 abitanti.
 
NOTE
[1]  Napoleone, con l’editto di Saint  Cloud del 12 giugno 1804,  proibì la sepoltura nelle  chiese. A Lecce la prima sepoltura  in “ Camposancto”  fu quella del 29 maggio 1839 di “ Maria Felix filia  Sabatini Tirzoni”.   ( dal Liber Mortuorum ).
 [2] L’episodio mi è stato riferito da  Guglielmo Monaco di Vallemora, all’epoca dei fatti giovane carbonaio nella ditta  paterna.  Da  parte mia posso  testimoniare   di aver sentito parlare in casa,  fra miei parenti,  di “prigionieri” che si nascondevano in montagna ai quali bisognava portare dei viveri e di che  coprirsi per ripararsi dal freddo ( ‘oh gran  bontà de’ cavalieri antiqui!… ); posso testimoniare   di essermi recato, calata la sera prima che scattasse il coprifuoco, con la sorella di lĕ Dachĕ,  mia zia Isabella, che qui voglio, sì,  ricordare per il suo gran cuore,  e con   un paio di altre donne ( questo è il ricordo),  a la Vĕcènnĕ, all’estremità sud est di Tarotĕ, ed essere entrati in una buia stanzetta   dove si teneva nascosto Salvatore, soldato italiano siciliano. Fra le bollette della luce e le ricevute delle tasse, che venivano conservate  con molta  cura insieme ad ogni foglio di carta  che recasse una scritta ( non c’era allora molta scolarità in paese, soprattutto fra le donne, e per questo veniva conservata a lungo  ogni “carta”)   ho visto  un attestato di riconoscenza,  a firma del  Generale   Alexander, con  su  il nome di mia madre.   Distrussi, nei primi anni sessanta  con le mie mani, per un  repulisti generale,  tutti i fascetti di bollette e ricevute delle tasse  fra cui  quell’attestato.
[3]  Antonio Manna, Un esempio di incastellamento nella Marsica Meridionale, tesi di laurea.
[4] Si deve all’impegno  del Prof. Mauro Terra l’aver riportato all’Archivio comunale  copia del Catasto del 1753 conservato nell’Archivio storico di Napoli, grazie al quale è stata possibile la stesura di questo articolo. 
[5]  Puggello:  italianizzazione del leccese p’jllĕ, il cavo di una  mano riempito di semente.  Era  la più piccola misura di superficie   corrispondente a quella coperta da un pugno di grano, 3 mq.ca.
  La misura base di superficie a Lecce  (è) era  la coppa, recipiente a forma tronco-conica della capacità  di 12 kg. di  grano con i quali si ricopre una superficie di 448 mq.;  per  1kg  occorrono 12  puggelli;  retaggio del sistema babilonese di conteggio sessagesimale,   per indigitazione. Mq. 448:  kg.12  = mq.37,(33): 12 = 3,(11) mq. 
[6] “Antonio di Giov. Borza Pecoraro: possiede nel luogo detto Saùco un territorio di puggelli 14 giusta li beni di Berardino Borza, di s. Francesco, di Pier Matteo Abrami, del Capitolo, ed il Rio”. 
[7]  Lampante in ‘Rua’ il  termine francese ‘ rue’  (via),  introdotto al tempo della dominazione angioina  nell’Italia Meridionale ( dal 1265 al 1441 ),  dopo la battaglia di Tagliacozzo. Non può essere stato introdotto sotto il regno di Giuseppe Bonaparte o di Murat, perché lo troviamo nel    catasto del 1753 e  la  Rivoluzione francese è di là da venire.







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