Nel 1991 ho avuto modo di chiacchierare con un abitante di Opi. Al tempo quest’uomo aveva 75 anni. Mi narrò la sua storia, un racconto degli anni vissuti a Opi costruendo trappole, avvistando animali selvatici, preparando le cartucce che si avrebbe usato per sparare. E poi la vendita della carne, la descrizione dei posti inaccessibili dove gli animali dovevano passare, l’attesa del loro passaggio e tanti altri dettagli.
A distanza di più di trent’anni, voglio ricordare ciò che l’ultimo bracconiere di Opi mi raccontò. Non volle dirmi il suo nome, ma accettò di rivelarmi la sua vita mentre eravamo seduti davanti al camino della sua casa. Gli chiesi “perché lo fai?” e lui mi disse, semplicemente, “perché io sono questo“.
Sapere perché l’ultimo bracconiere faceva quel che faceva era come cercare di capire perché un uomo sta su questa terra.
“Del Parco so tutto. Conosco i luoghi dove gli animali partoriscono, so quando diventano adulti, quando si accoppiano e soprattutto quanti sono“. Mi raccontava con sincerità e una buona dose di orgoglio. Un orgoglio che, forse, solo lui era in grado di percepire in maniera autentica. D’altro canto, non avrebbe potuto essere altrimenti.