Le confessioni di un ottuagenario abruzzese

“Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” del lancianese Remo Rapino vince la 58esima edizione del Premio Campiello. E’ il secondo abruzzese nelle ultime quattro edizioni a vincere il più prestigioso premio letterario italiano dopo Donatella Di Pietrantonio. Prima c’erano stati Mario Pomilio nel 1965 e Ignazio Silone nel 1968.

Tutto può succedere. Può accadere che nelle ultime quattro edizioni (2017-2020) due scrittori abruzzesi (Donatella Di Pietrantonio e Remo Rapino) abbiano vinto il Campiello, il più prestigioso premio letterario in Italia.

Sabato 5 settembre, in piazza San Marco a Venezia, la 58esima edizione del Premio istituito nel 1962 dagli Industriali del Veneto è stata vinta da Remo Rapino con “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, libro edito dalla casa editrice minimum fax. Mentre nel 2017 ha vinto Donatella Di Pietrantonio con “L’arminuta”, edito da Einaudi.

Che succede nel panorama letterario abruzzese? Stiamo assistendo in questi primi decenni del nuovo Millennio ad un risveglio e un rigoglìo dopo il tramonto di fine Novecento con la scomparsa di Ignazio Silone (secondo abruzzese a vincere il Super Campiello nel 1968), Mario Pomilio (primo abruzzese vincitore del Campiello nel 1965 con “La compromissione”), Laudomia Bonanni, Ugo Maria Palanza, Cesare De Titta, Giovanni Titta Rosa, Modesto Della Porta, Fedele Romani, Cesare De Lollis. Per non parlare poi di Benedetto Croce. E l’elenco sarebbe lungo.

Remo Rapino professore di Filosofia nei Licei, nato nel piccolo borgo di Casalanguida in provincia di Chieti nel 1951, recupera il dialetto come lingua universale perché il “cocciamatte” (testa pazza) Liborio soltanto così può raccontare la sua vita nel “secolo breve”. Sono le confessioni di un ottuagenario abruzzese, non quelle di Carlo Altoviti nel romanzo “Le confessioni di un ottuagenario” di Ippolito Nievo, del sempliciotto Bonfiglio Liborio. Che nasce in un paese dell’Abruzzo montano (mai nominato dall’autore) nel 1926 ed esce di scena nel 2010, attraversando quasi tutto il XX secolo.

Il dialetto diventa lingua, quella lingua che lui conosce sin da bambino e che lo accompagnerà per tutta la vita.

«Bonfiglio Liborio è una figura simbolica che tende con la sua follia a rovesciare le nostre certezze, tra Don Chisciotte e Forrest Gump – ha spiegato Remo Rapino -. Ho ascoltato i suoi passi, la sua voce, con un linguaggio che è un flusso parlato, fatto di ombre di luci, in una lingua un po’ bastarda. I romanzi si fanno con le voci, bisogna dialogare» ha concluso Rapino.

Un secolo circa vissuto e raccontato da uno inseguito dalla nascita da “segni neri” che tutto osserva, tutto ascolta, tutto incamera, tutto sottopone alla sua visione del mondo, tutto racconta. Un novello Stefan Zweig del “mondo di ieri”, con la nascita avvenuta senza l’assistenza della levatrice sopraggiunta in ritardo in casa Bonfiglio perché «pioveva che Dio Padre la mandava a cascanne d’acqua forte e sulla terra se ne calava a piombo un fracasso di temporale che tutte le bestie, i cani e i gatti, s’erano squagliati dalla faccia della terra e gli uccelli s’erano ficcati nei nidi e nessuno parlava più manco per una preghiera di salvezza d’anima»; senza la presenza del padre mai conosciuto ma sempre inseguito nei sogni e nella vita, “che se n’andò alla Merica, all’Argentina o allo Brasile”; l’infanzia segnata dall’amore materno sconfinato, la scuola elementare superata con ottimi voti, la figura centrale del Maestro Romeo Cianfarra, l’abbandono della scuola per lavorare con mastr’Antonio “che la gente per soprannome gli dicevano Funicello perché faceva le funi”  e due date storiche che segnano i primi anni di vita di Liborio: 9 maggio 1936 con Benito Mussolini che dal balcone di Palazzo Venezia a Roma dichiara che “L’Italia ha finalmente il suo Impero” e 10 giugno 1940 con la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. E la morte dolorosa della madre avvenuta proprio nel giorno della dichiarazione di guerra, non ancora quattordicenne.

C’è tutta intera la vita di un “povero cristiano” che attraversa da solo (il padre mai conosciuto, la madre morta, il nonno morto e la gente poco disponibile al dialogo) tutte le tappe che propone: entrata in guerra dell’Italia nel 1940, l’armistizio, la resistenza, i bombardamenti aerei, l’amore per Giordani Teresa, la fine della guerra. E con essa la chiamata alle armi e il servizio militare a Tauriano di Spilimbergo.

Le pagine che seguono raggiungono punte di lirismo verghiano attraverso il racconto di Liborio che incalzano il lettore. Il lavoro in fabbrica, il sindacato, il manicomio dove incontra un altro personaggio importante sulla sua strada, Mattolini Alvise, con il quale rivisita la sua vita in manicomio. L’uscita dal tunnel del manicomio e la solitudine della vecchiaia.

La storia del Novecento raccontata non dallo storico Paolo Mieli, ma da Remo Rapino attraverso la vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, che sulla tomba “di marmo liscio e chiaro, con le lettere di oro, finto però, che va a finire che se sono di oro vero uno di notte se lo può arrubbare, dopo non si legge niente, che tutto quel lavoro va sprecato, non si sa mai chi ci sta sotto quella terra e manco un cane mi si ricorda” vuole ci sia scritto

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