L’AQUILA –Una splendida giornata di sole, un cielo terso color cobalto e un venticello vezzoso hanno salutato a Paganica la riapertura del Monastero di Santa Chiara, dopo i complessi lavori di restauro dai danni del terremoto del 6 aprile 2009. Le Sorelle Clarisse, guidate dalla badessa Madre Rosa Maria Tufano, che solitamente trasmettono quella serenità francescana che fa meditare sul valore dello spirito rispetto alla caducità delle cose terrene, sabato scorso 9 marzo avevano nel sorriso un quid in più, di gioia davvero intensa, propria di un ritorno a casa, benché il monastero sia assai vicino alla provvisoria struttura di legno che le ha ospitate negli anni del dopo terremoto. Nella piccola Chiesa di San Bartolomeo, ove sono custodite le spoglie incorrotte della Beata Antonia di Firenze, già piena come un uovo mezz’ora prima della celebrazione eucaristica fissata per le quattro del pomeriggio, le Sorelle rispondevano con un cenno festoso a chi, oltre l’inferriata posta tra il presbiterio e la parte riservata ai fedeli, inviava loro un sorriso o un gesto di saluto.
Anche l’esterno della chiesetta, dov’erano sistemate altre panche a sedere, c’era un pieno di gente in attesa, con quell’animazione tipica dei grandi eventi. La grande Chiesa di Santa Maria del Carmine, consacrata nel 1912 e adiacente al monastero, ha bisogno ancora di alcuni mesi per il completamento dei lavori di consolidamento e restauro. Dunque ancora la chiesetta di San Bartolomeo ospita questa importante celebrazione. Splendidamente restaurata dal Ministero dei Beni Culturali, con lavori condotti dalla Soprintendenza e diretti da Bianca Maria Colasacco, la chiesa, una monoaula con tetto ligneo a vista e lacerti di due preziosi affreschi – un’Annunciazione e una Crocifissione – risalenti al XIII secolo, è stata arricchita sulle pareti laterali dalle opere del maestro iconografo Paolo Orlando, che vi ha realizzato due cicli di affreschi, uno mariano e l’altro sulla vita di Gesù. Probabile che questo tempio fosse la parrocchiale di una delle numerose Ville che dopo l’anno Mille concorsero all’incastellamento di Paganica, ampliando l’antico nucleo del pagus sorto negli anni della Roma repubblicana, intorno al 430 a.C., proprio al confine tra i popoli Vestini e Sabini.
Alle ore 16 in punto il lungo corteo dei celebranti fa ingresso nella chiesa, aperto da una ventina di sacerdoti, secolari e francescani, seguito da tre vescovi – il Nunzio apostolico mons. Orlando Antonini, il vescovo di Termoli-Larino mons. Gianfranco De Luca e il vescovo di Rieti mons. Domenico Pompili – e chiuso dall’arcivescovo metropolita dell’Aquila, Cardinale Giuseppe Petrocchi. Tra i presbiteri il parroco di Paganica, don Dionisio Rodriguez, e due ospiti – don Alessandro Blandino, modicano e parroco a Pachino, e don Sergio Boccadifuoco, parroco a Frigintini di Modica – della diocesi di Noto, fortemente legata a Paganica, in amicizia e spiritualità, dopo il sisma del 2009. Tanto che la Parrocchia di Paganica ha contratto un gemellaggio religioso con la Parrocchia di San Pietro, a Modica, laddove era parroco don Corrado Lorefice, ora arcivescovo di Palermo.
Grande raccoglimento durante la celebrazione eucaristica e forte emozione durante l’omelia dell’arcivescovo Cardinale Petrocchi, che nel recupero del monastero vede il segno della speranza e della rinascita. E dopo aver commentato il Vangelo della prima domenica di quaresima, che racconta le tentazioni del demonio su Gesù in digiuno nel deserto, il porporato ha richiamato il valore della contemplazione e della preghiera delle Clarisse. “Il monastero, laboriosa dimora – ha detto il Cardinale Petrocchi –, ha le finestre aperte sul mondo e spesso, pur recluse, le monache Clarisse attraverso la preghiera arrivano dove noi non riusciamo ad arrivare”. Con una illuminante metafora l’arcivescovo ha detto che un monastero ha un influsso benefico anche sulla società civile: infatti, come i pannelli solari convertono l’energia del sole in energia elettrica, così in un monastero la contemplazione converte la vita divina ricevuta e assimilata in energie di comunione da immettere nelle relazioni sociali, a vantaggio di tutti. Sicché l’opera delle sorelle Clarisse è energia spirituale che s’irradia in questo territorio, nella diocesi, nel mondo intero, ha detto infine l’arcivescovo concludendo la sua omelia.
Alla fine della celebrazione, animata egregiamente dal Coro diocesano giovanile “San Massimo” diretto da Davide Castellano, il Cardinale Petrocchi ha ricordato le vittime del terremoto e, parlando della ricostruzione, ha fatto appello a sollecite procedure per consentire ai cittadini il rientro nelle loro case e la ripresa completa delle attività nella città capoluogo e nei centri del cratere sismico. Ma soprattutto, riprendendo un tema che gli è caro, ha parlato dei sismi dell’anima e della ricostruzione morale della comunità aquilana, colpita dalle conseguenze morali del terremoto che, pur non appariscenti, sono più gravi e durature dei danni materiali. Verso questi drammi intimi e sociali deve andare l’attenzione e la cura delle istituzioni, non meno che verso la ricostruzione di case, chiese, scuole, uffici e impianti produttivi.
La badessa, Madre Rosa Maria, ringraziando le innumerevoli persone che hanno dato il loro aiuto, ha ricordato Madre Maria Gemma Antonucci. Quantunque deceduta sotto le macerie del terremoto nella notte del 6 aprile 2009, lei è stata la vera pietra angolare che ha sorretto il monastero negli anni difficili del post sisma. Ha poi rivolto un pensiero a Suor Geltrude, morta qualche mese fa alla veneranda età di oltre cento anni, anch’ella con Madre Gemma ora partecipi in Cielo della gioia di questo evento. Quindi il corteo processionale, preceduto dalle Clarisse e seguito dai celebranti tutti, dalla chiesetta si è diretto verso l’ingresso del restaurato Monastero per la benedizione inaugurale, che l’arcivescovo dell’Aquila ha impartito. In questi primi locali, di vestibolo e parlatorio, si è potuto ammirare un saggio del restauro realizzato all’intera struttura, che ha curato a meraviglia il recupero dei dettagli costruttivi d’epoca. All’inaugurazione è seguito il concerto “Il Privilegio di Chiara”, oratorio sacro per voci femminili e quartetto d’archi dell’Ensemble Fideles et Amati, con testo e musica di Marcello Bronzetti.
Ma ora torniamo ai giorni, mesi e anni difficili del dopo terremoto. In quella terribile notte del 6 aprile 2009 il sisma devastò il Monastero delle Clarisse e il centro storico di Paganica, popolosa frazione a 9 chilometri dalla città capoluogo d’Abruzzo. Alle 3 e 32 crollò il tetto del monastero, proprio sopra le celle delle Sorelle claustrali. Madre Gemma Antonucci, la badessa, perì sotto le macerie. Ferite gravemente due suore, le altre miracolosamente illese. Continuavano le scosse quel giorno e nei giorni seguenti, con uno sciame inquietante. Le Sorelle, con l’aiuto dei soccorritori e dei Vigili del Fuoco prontamente accorsi, messa in salvo l’urna con il corpo incorrotto della Beata Antonia da Firenze, che era custodita nella Chiesa del Carmine, raccolte le poche cose recuperabili, partirono per Pollenza, in provincia di Macerata, per essere temporaneamente ospitate nel locale monastero delle Clarisse. Lì la Beata Antonia fu per 7 anni custodita in sicurezza. Intanto, a qualche giorno dal sisma, lo slancio di solidarietà promosso da Tele Pace avviò la generosa raccolta di fondi che permise, entro la chiusa murata del convento, la costruzione d’un piccolo monastero in legno dove le Clarisse, sotto la tenace guida della badessa Madre Rosa Maria Tufaro succeduta a Madre Gemma, fin dal dicembre 2009 vollero fortemente rientrare. Qui hanno dimorato fino ad ora, in spazi assai ristretti.
Il 16 luglio 2016, finalmente, il ritorno da Pollenza della Beata Antonia, la cui urna venne sistemata nella Chiesa di San Bartolomeo, in attesa della riapertura della Chiesa del Carmine. L’evento del rientro della Beata Antonia fu di significativa portata storica, sia perché ricomponeva un pezzo di memoria civile e spirituale dell’Aquila dopo il sisma del 2009, sia per la devozione portata dagli Aquilani verso la Beata che, insieme a S. Bernardino da Siena, a S. Giovanni da Capestrano, al Beato Vincenzo dell’Aquila e al Beato Timoteo da Monticchio, forma quella schiera di Santi francescani che hanno tenuto viva nella città e nel territorio aquilano la spiritualità di Francesco e Chiara d’Assisi.. La Beata Antonia ritornò dunque nella sua terra e nella sua casa, il Monastero di S. Chiara a Paganica, dove le Clarisse dal 1997 vivono, quando si trasferirono dall’antico Monastero dell’Eucarestia, nel cuore storico dell’Aquila, per cercare un luogo più silenzioso e adatto alla vita contemplativa, trovato appunto a Paganica nell’ex Convento dei Frati Minori, che da anni era dismesso.
Nell’antico Monastero dell’Eucarestia, a L’Aquila, le Clarisse avevano abitato per secoli, fin da quando nel 1447 Giovanni da Capestrano l’aveva affidato ad Antonia e alle sue religiose claustrali. Un prezioso complesso, quello dell’Eucarestia. Un vero e proprio scrigno d’arte, sebbene il sisma del 2009 l’abbia fortemente danneggiato. Il corpo architettonico si distende lungo via Sassa. L’interno è a pianta rettangolare, con massicce volte a crociera poggianti su capitelli pensili del Rinascimento. Lo spazio ripartito in due ambienti distinti: l’uno era riservato alle monache e l’altro, anteriore, ai fedeli. Il muro divisorio con una grata permetteva alle sorelle di seguire dall’interno le funzioni religiose. Il Coro, interamente affrescato da Paolo Cardone nel 1586, ha 99 stalli ed è opera di ebanisti milanesi di inizio Cinquecento. La Chiesa conserva mirabili opere dei principali artisti del Rinascimento abruzzese: Andrea Delitio, Francesco da Montereale, e appunto Paolo Cardone. Di particolare pregio gli affreschi di Andrea Delitio: l’Adorazione del Bambino colpisce il visitatore per le notevoli dimensioni e l’estrema delicatezza nella resa dei volti. L’intento del pittore e di Antonia, probabile committente dell’opera, era quello di mettere in evidenza l’umiltà della Sacra Famiglia, nello spirito della prima regola di S. Chiara. Altrettanto pregevole è l’affresco raffigurante la Madonna con Bambino e Sant’Ansano, come pure preziosi sono i tre affreschi di Francesco da Montereale, risalenti al 1490, che raffigurano la Crocifissione, la Via Crucis e la Teoria di Santi Francescani.
La Beata Antonia (Firenze, 1400 – L’Aquila, 1472) è una figura preminente nella spiritualità aquilana e nel contesto del movimento riformista del francescanesimo che va sotto il nome di Osservanza minoritica. Il movimento fu fortemente presente dal 1415 in poi a L’Aquila e in Abruzzo, al centro d’un fenomeno di dimensioni europee con importanti ricadute sulle comunità abruzzesi, sia sotto gli aspetti religiosi che sociali e culturali. Del notevole rilievo dell’Osservanza danno testimonianza la biografia stessa della Beata Antonia ed il contesto storico e spirituale nel Quattrocento. Ne tracciamo qui una sintesi, anche per comprendere l’attaccamento che gli Aquilani nutrono verso il francescanesimo e le sue figure più rappresentative.
Antonia nacque a Firenze intorno al 1400. Andata sposa giovanissima ad un suo coetaneo, prematuramente morto a qualche anno dal matrimonio, ebbe un figlio che curò da sola e da sola attese alla sua prima educazione. Non intese passare a seconde nozze, nonostante le raccomandazioni dei familiari, per l’inatteso arrivo della chiamata alla vocazione. In quegli anni Bernardino da Siena stava diffondendo l’Osservanza, che avrebbe dato un nuovo impulso all’ordine francescano con il richiamo all’austerità della Regola ed alla povertà. Bernardino, predicando nelle chiese e sulle piazze di tutta Italia, aveva suscitato un’autentica primavera di vita cristiana. Predicò anche nella Chiesa di S. Croce, a Firenze, dall’8 marzo al 3 maggio 1425. Antonia lo ascoltò e maturò nel cuore la decisione di consacrarsi a Dio. Quattro anni dopo entrò nel Terz’ordine francescano regolare femminile, fondato dalla Beata Angelina dei Conti di Marsciano. L’accolse il Monastero fiorentino di S. Onofrio, nel quale rimase per poco tempo, perché dalla fondatrice fu chiamata prima a Foligno, ad Assisi e poi a Todi. Infine, richiesta a L’Aquila per fondarvi un Monastero di terziarie, Antonia fu inviata insieme a un piccolo drappello di suore. Era il 2 febbraio 1433. Rimase alla guida del Monastero di S. Elisabetta per 14 anni, ma la pur intensa vita spirituale non riusciva ad appagare il suo desiderio d’una sempre più profonda contemplazione. Andava così maturando in lei il pensiero di lasciare il Terz’ordine per abbracciare la Regola di S. Chiara.
In quegli anni altri monasteri di Clarisse, vicine al movimento degli Osservanti, stavano vivendo un intenso rinnovamento, volendo rivivere la freschezza delle loro origini, mediante la primitiva Regola di S. Chiara. In questa decisione forte ed eroica Antonia trovò sostegno spirituale e guida in Giovanni da Capestrano, in quegli anni a L’Aquila, che procurò i locali necessari per lei e per le consorelle che avevano deciso di seguirla. Era il 16 luglio 1447. Un grande corteo di cittadini con a capo Giovanni da Capestrano, partendo da Collemaggio, accompagnò Antonio e le altre 13 sorelle al Monastero dell’Eucarestia, successivamente chiamato “della Beata Antonia”, dopo la morte di lei. Incominciò così sotto il segno della più stretta povertà l’ultimo cammino ascensionale di Antonia, che portò tanto splendore all’Ordine delle sorelle povere di S. Chiara. Per sette anni tenne l’ufficio di badessa impostole da Giovanni da Capestrano, poi tornò nel silenzio e nella contemplazione più profonda del mistero di Cristo crocifisso, nel quale s’immedesimò completamente. Ma quei sette anni di guida del monastero furono sufficienti ad imprimere uno straordinario impulso alla vita contemplativa, nella perfetta osservanza della Regola, tanto che la fama si diffuse subito in città e nei dintorni, procurando numerose altre vocazioni.
Antonia seppe tuttavia vivere l’austera povertà con letizia evangelica. Sapeva trascinava tutte, con la parola e l’esempio. Era forte e materna, coltivando con tutte l’unità e l’armonia della vita in fraternità. Le Sorelle subirono il fascino del suo esempio e molte di loro offrirono alla Chiesa un genuino esempio di santità, come Ludovica Branconio, Giacoma dell’Aquila, Bonaventura d’Antrodoco, Paola da Foligno, Gabriella da Pizzoli, Giacoma da Fossa, proclamate Beate, ed altre ancora. Antonia visse sempre in obbedienza ed umiltà. Il suo stile di vita sempre limpidamente evangelico: occupava a mensa e in coro l’ultimo posto, indossava i vestiti più logori della comunità. Le Sorelle inferme, deboli, tentate e scoraggiate, trovavano sempre in lei conforto e l’amore tenero di una madre, pur essendo lei stessa affetta da un’orribile piaga che mantenne nascosta. Diversi i fenomeni mistici, di cui le Sorelle furono testimoni, frutto del suo grande amore per il Signore.
Antonia morì la sera del 29 febbraio 1472. Il suo trapasso fu segnato da miracoli prima ancora che fosse inumata la salma, come le guarigioni istantanee d’un aquilano sofferente di idropisia e di suor Innocenza clarissa, anche lei aquilana, che fu guarita dalle numerose piaghe. Quindici giorni dopo la sepoltura le suore riesumarono il sacro corpo per rivederlo, prima che si disfacesse completamente. Con grande meraviglia lo rinvennero incorrotto. Ripeterono più volte l’esperienza, tanto che se ne diffuse la voce in città. Ma per evitare esagerazioni il vescovo, cardinale Amico Agnifili, ordinò che la salma fosse sepolta allo scoperto, fuori del luogo sacro. Cinque anni più tardi il vescovo Ludovico Borgio, successore dell’Agnifili, concesse la riesumazione del corpo, trovato nuovamente incorrotto. Solo allora venne autorizzato il culto pubblico e il corpo fu levato da terra. Dopo regolare processo canonico, il 28 luglio 1848 Pio IX la dichiarava Beata. Il messaggio lasciato dalla Beata Antonia è quello d’una santità gioiosa e nascosta, totalmente avvolta nella segreta bellezza di un Dio sommamente amato. Ancor oggi le Sorelle povere, trascinate dal suo esempio e da quello di S. Chiara, vivono una vita semplice, nel silenzio del chiostro, ponendo Dio come il tutto della loro vita. Le Sorelle dell’antico monastero dell’Aquila, ora operanti nel Monastero di S. Chiara a Paganica, custodiscono con fedeltà il corpo della loro Madre, Beata Antonia, e continuano il cammino di consacrazione, nella gioia d’un amore che non ha fine. Sono davvero un punto di riferimento spirituale, di serenità, di attenzione verso gli ultimi, di preghiera, che molto giova ad una comunità così duramente colpita dalla tragedia del terremoto, consapevole della certezza di trovare nelle Clarisse un luogo sicuro di meditazione e fraternità.
Ma quale fu il contesto storico e spirituale nel quale l’Osservanza minoritica maturò, con particolare riguardo a L’Aquila e l’Abruzzo, per poi diffondersi in Italia e in tutta Europa? Alla morte di Francesco d’Assisi l’Ordine minoritico che egli aveva fondato era già molto diffuso, raggiungendo negli anni successivi, oltre che buona parte del continente europeo, anche Irlanda, Scozia, le regioni balcaniche e perfino la Scandinavia. Tuttavia, con la morte del fondatore, l’Ordine dei frati minori dovette affrontare una grave crisi d’identità, a causa d’una progressiva normalizzazione che portò all’accentuazione del carattere clericale. La fase evolutiva si concluse con Bonaventura da Bagnoregio che, eletto ministro generale dell’Ordine nel 1257, redasse una biografia ufficiale di Francesco e ordinò la distruzione delle “legende” più antiche, come quella scritta da Tommaso da Celano, e promulgò le nuove costituzioni dell’Ordine. Sotto la sua guida lo scopo dell’Ordine divenne quello di rispondere alle necessità più urgenti della Chiesa, come la predicazione, le missioni e la lotta all’eresia, cosicché i francescani iniziarono a non rifiutare d’accettare la dignità di vescovo o la carica di inquisitore. La povertà venne quindi interpretata come semplice rinuncia a ogni forma giuridica di proprietà e venne introdotta la nozione di “uso in povertà” dei beni materiali.
Durante tutto il Duecento e oltre, in seno all’Ordine s’accese una forte disputa tra frati favorevoli ad una interpretazione più blanda della Regola, in modo da privilegiare lo studio e la predicazione nelle città, e altri più inflessibili nel chiedere il ritorno alla volontà originaria del fondatore e all’interpretazione letterale della Regola, specie in materia di povertà. Questa posizione radicale circa l’austero rispetto della Regola si fuse con le attese apocalittiche del pensiero di Gioacchino da Fiore, dando vita al movimento degli Spirituali, che ebbe forte riferimento anche organizzativo con Angelo Clareno e Ubertino da Casale, quest’ultimo anche con atteggiamenti fortemente critici verso il papato. E peraltro il movimento esercitò una forte influenza sulla vita religiosa di quel periodo, che attendeva l’Era dello Spirito, resa ancora più imminente nelle attese con l’elezione al soglio pontificio del monaco eremita Pietro del Morrone, diventato papa Celestino V. Nei cinque mesi di papato prima della sua storica rinuncia, il 13 dicembre 1294, Celestino aveva fatto diversi atti innovatori, come l’emissione della Bolla della Perdonanza, che istituiva il primo giubileo della Cristianità concedendo l’indulgenza plenaria e gratuita a chiunque si recasse sinceramente pentito e confessato, dai vespri del 28 a quelli del 29 agosto d’ogni anno, alla Basilica di Collemaggio, a L’Aquila. O come la concessione agli Spirituali della facoltà di organizzarsi in Ordine religioso che osservasse alla lettera la Regola di San Francesco e la vita eremitica. Pensò il suo successore Bonifacio VIII ad annullare la concessione, ed i successivi pontefici Clemente V e Giovanni XXII a bollare d’eresia il movimento degli Spirituali, definendo fraticelli gli eretici.
Nel 1368 Paoluccio Trinci ottenne dal ministro generale Tommaso da Frignano il permesso di riaprire l’eremo di Brogliano e di osservare la Regola in tutto il suo rigore. La santità personale di frate Paoluccio, la sua sottomissione alle autorità ecclesiastiche e la protezione politica assicurata dai suoi familiari, signori di Foligno, permisero alla comunità di Brogliano di svilupparsi e raggiungere la stabilità, facendone un autorevole centro di riforma che conobbe una rapida diffusione, in Umbria e nell’alta Sabina. Fu quella di Paoluccio la prima comunità dell’Osservanza. Con Giovanni da Scontrone le comunità osservanti salirono a trentaquattro e i frati a duecento. Ma il maggiore sviluppo s’ebbe con l’ingresso di grandi personalità, come quelle di Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca, con il sostegno di Alberto da Sarteano.
Sotto il loro influsso gli Osservanti, pur mantenendo stile di vita eremitico, si aprirono agli studi e all’apostolato della predicazione. Il successo e la forte diffusione dei frati osservanti acuirono i contrasti con i francescani “conventuali”, favorevoli ad una Regola meno rigida. Per riportare all’unità l’Ordine, diviso in conventuali e osservanti, nel 1430 Martino V diede ai francescani delle nuove costituzioni, elaborate da Giovanni da Capestrano – fine giurista, prima di diventare frate -, con norme accettabili da entrambe le parti sulla proibizione dell’uso del denaro e sulla rinuncia ai beni immobili. Ma il tentativo si rivelò un insuccesso, come pure quelli degli anni successivi. Nel 1438 venne eletto vicario generale degli osservanti Bernardino da Siena, che scelse Giovanni da Capestrano come suo assistente. Con loro l’Osservanza francescana si diffuse rapidamente in Francia, Germania e nei Paesi Bassi, poi in Austria, Ungheria, Polonia e Boemia, specie sotto l’influsso della predicazione di Giovanni da Capestrano.
Ancora un’annotazione, infine, sull’opera della Beata Antonia e dell’Osservanza francescana in territorio aquilano. Gli osservanti erano arrivati all’Aquila intorno al 1415. Ma la forte espansione del movimento s’ebbe con la predicazione a L’Aquila di S. Bernardino da Siena (Massa Marittima, 1380 – L’Aquila, 1444), insieme a S. Giovanni da Capestrano (Capestrano, 1386 – Ilok, 1456) e S. Giacomo della Marca (Monteprandone, 1393 – Napoli, 1476), che con Alberto da Sarteano costituirono le quattro colonne portanti dell’Osservanza. Alla loro opera s’unì la Beata Antonia, insieme alle consorelle clarisse, con il grande carisma che le animava. Grande la fioritura spirituale nel Quattrocento, grazie a queste grandi figure, cui s’aggiunsero i francescani osservanti Beato Vincenzo dell’Aquila e Beato Timoteo da Monticchio, insieme alle numerose Beate clarisse, già citate, tutti straordinari testimoni della fede. Grazie a loro e all’Osservanza fiorì la rinascita spirituale a L’Aquila, in Abruzzo, in Italia e in Europa.
Rinascita resa ancor più feconda dalla scelta di Bernardino di tornare in città, sentendo vicina la morte. “Eamus, fratres, ad Aquilam. Non subsisto possum, ad Aquilam, ad Aquilam, ad Aquilam missus sum”. Così la notte del 30 aprile 1444 Bernardino degli Albizzeschi, 64 anni, sfinito ed emaciato dalla malattia e dalla penitenza, aveva salutato per l’ultima volta i frati del convento della Capriola, nei pressi di Siena. Vincendo le loro preoccupate implorazioni a restare in città, spinto da una grande forza interiore, con quattro confratelli s’era messo in cammino verso l’Abruzzo in quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio. Un viaggio lungo, faticoso, pieno di sofferenze. Giunto all’Aquila, nel suo convento di San Francesco, sentendo arrivare l’ora del trapasso, Bernardino aveva chiesto ai confratelli d’essere deposto, spoglio e con le braccia aperte a croce, sul nudo pavimento della sua cella. Poco dopo, al vespro di quel mercoledì, spirò. Era il 20 maggio del 1444. Con tutte le residue forze aveva desiderato transitare alla vita eterna non nella sua terra toscana ma a L’Aquila, la bella città che più amava, dove aveva predicato insieme ai fedeli discepoli Giovanni da Capestrano e Giacomo della Marca, esercitando una grande influenza nella vita spirituale, sociale e civile.
Goffredo Palmerini