E’ tornata alla ribalta in Italia la drammatica situazione dell’orso, un animale pacifico che tutti dicono di amare, ma che continua a cadere sotto i colpi del più barbaro bracconaggio. Malgrado rappresenti innegabilmente una straordinaria attrazione, capace di arricchire, attraverso il turismo culturale e naturalistico, tutti i territori dove ancora riesce a sopravvivere.
L’ultimo episodio di un plantigrado ucciso, avvenuto in ottobre presso Roccaraso, alla congiunzione tra le montagne del Parco d’Abruzzo e quelle della Maiella, ci spinge a intervistare la persona che più ha vissuto a contatto con queste grosse fiere, tanto da essere chiamato “l’uomo degli orsi”: Franco Tassi. Il quale, oltre ad aver condotto con successo il Parco Nazionale d’Abruzzo per molti anni, è autore d’un libro ormai introvabile («Orso Vivrai!», Editoriale Giorgio Mondadori, Milano 1990). L’unico studio approfondito, frutto di prolungate esperienze, sull’Orso bruno marsicano: un testo divulgativo, ma su seria base scientifica, nel quale questi problemi venivano esaurientemente affrontati e discussi, proponendo le soluzioni più adeguate.
Prof. Tassi, si parla da anni del dramma dell’Orso marsicano, ma nonostante l’enorme dispiego di mezzi, non sembra siano stati adottati rimedi efficaci. Come mai?
Proprio in questi giorni sono venuti in Italia per approfondire il problema, e per intervistarmi, alcuni studiosi stranieri, e sembra che la questione della crisi del Parco d’Abruzzo, dove dal 2002 ad oggi sono stati uccisi ben oltre 50 individui, esploderà prima o poi a livello internazionale. Nessuno comprende infatti perchè mai tutte le iniziative, che in passato avevano avuto grande successo (Campagna Alimentare, Operazione In bocca all’Orso e Progetto Mela-Orso), siano state abbandonate a partire dalla primavera dell’anno 2002, e poi sostituite con tattiche disastrose, e con metodi di attrazione e dissuasione francamente assai discutibili.
Ci può spiegare meglio come venivano attuate queste iniziative?
Come è noto, uno dei punti cruciali per la sopravvivenza del plantigrado è l’alimentazione. Perché, come confidò l’americano Earl Gutskey, “una verità fondamentale sull’Orso è che lui non si trova mai troppo lontano dal suo prossimo pasto”. La strategia di offrire cibo in luoghi idonei, da tenere assolutamente segreti, venne attuata dal Parco in modo efficace negli anni Ottanta, attraverso l’Operazione “In bocca all’Orso”. Già da molto tempo, peraltro, e cioè dal lontano 1969, era stata avviata una vasta “Campagna alimentare” , che ogni anno offriva alla fauna granturco, mele e pere in abbondanza. Tuttavia, se si voleva davvero nutrire una intera popolazione, favorendone la riproduzione ed evitando sconfinamenti e spostamenti eccessivi, ciò non sembrava ancora sufficiente. Furono allora costituiti ampi punti di alimentazione, per portare appunto “in bocca all’orso” non solo carne, ma soprattutto frutta (donata in gran quantità da produttori e commercianti, bastava andarla a caricare sul camion). E si prescelsero i siti più remoti, frequentati da femmine in età riproduttiva o accompagnate da cuccioli, trasportandovi il cibo con l’elicottero: non soltanto per comodità, ma soprattutto per evitare di lasciar tracce che avrebbero potuto facilitare l’arrivo di disturbatori e bracconieri. In questo modo, l’orso veniva nutrito con l’antica dieta, ma senza essere costretto a discendere le valli, attraversare le strade e uscire allo scoperto, proprio nella stagione in cui si apriva la caccia. Infine, venne lanciata anche un’altra iniziativa, denominata “Progetto Mela-Orso”. Grazie alla quale, squadre di volontari piantavano alberi e arbusti fruttiferi nei punti strategici, donando alla fauna una nuova ricchezza alimentare in luoghi remoti e sicuri, al di fuori di ogni disturbo antropico.
Dunque si può sostenere che questi interventi furono un vero successo?
Certo, perché alla primavera successiva si constatavano costanti miglioramenti: animali tranquilli, più numerosi, non costretti a compiere incursioni negli “stazzi” per rubare le pecore… e persino orse con tre cuccioli, ottimo indicatore della salute della popolazione».
Si sente affermare, con insistenza, che nell’ultimo quindicennio la situazione è peggiorata, è vero? Eppure risulta che le ricerche sull’Orso marsicano si avvalgono di consistenti risorse umane e finanziarie: questo non potrà giovare al futuro del plantigrado?
Il tempo consentirà di trarre conclusioni definitive in proposito, ma per ora limitiamoci ad alcune semplici constatazioni di fatto. La strategia del Parco è oggi molto cambiata: sospesa la Campagna Alimentare, abolita l’Operazione Arma Bianca che offriva ai pastori ottimi cani da gregge abruzzesi, soppressa la Sorveglianza in alta quota, praticamente incontrollata l’invasione di moto, quad e fuoristrada… Non esistono dati sicuri su quanti Orsi marsicani siano stati abbattuti dall’avvento della nuova gestione ad oggi, ma certamente sono stati ben più di 50, un’enormità! Nell’autunno 2002 un quotidiano locale lanciava l’allarme (“Sale a 5 il numero di orsi marsicani scomparsi quest’anno. Un numero impressionante, rimasto fino a qualche giorno fa nascosto”, Il Centro, 31 ottobre 2002). Meno d’un anno dopo alcuni responsabili forestali, sconsolati, rincaravano la dose (“Negli ultimi venti mesi abbiamo trovato ben 8 esemplari uccisi dai bracconieri”, Il Corriere della Sera, 9 luglio 2004; “Ben 9 gli orsi uccisi dal 2003 ad oggi su una popolazione che conta complessivamente la presenza di circa 40 esemplari”, Il Centro, 2 settembre 2004). Ma già qualche mese prima la direzione del Parco era stata costretta ad ammettere pubblicamente i sintomi della catastrofe (Negli ultimi due anni erano state infatti trovate “carcasse di ben 16 Orsi bruni marsicani, con un rischio per la specie definito altissimo”, Il Centro, 1° maggio 2004)… La verità, però, appare ancor più drammatica: perché in base ai dati in possesso del Gruppo Orso, affluiti grazie alla collaborazione di guardie ed escursionisti, si era calcolato che gli individui abbattuti sarebbero stati, soltanto nel primo biennio, circa una trentina. Vittime soprattutto di bracconaggio e di bocconi avvelenati, come tutti sanno. Abbattuti non di rado alle porte dei paesi, e magari proprio da coloro che spergiurano di amarli e proteggerli…
Una vera assurda strage… Siamo dunque sull’orlo dell’estinzione?
Non ancora, per fortuna. I plantigradi uccisi sono molti, ma ne resta ancora un discreto numero vivo e vegeto. Fortunatamente alcuni presìdi istituiti dal Parco in passato hanno tenuto bene: le Riserve Integrali, la chiusura delle piste forestali, in parte anche la cessazione dei tagli boschivi nei demani comunali proprio per questo assunti dal parco in gestione diretta, e via dicendo… Nella parte più intatta e remota del Parco gli orsi trovano ancora condizioni di vita soddisfacenti, all’epoca degli amori ne sono stati osservati persino 6 esemplari insieme, e spesso anche femmine con 3 cuccioli… Sulla quantità di orsi marsicani esistenti nell’Appennino Centrale tutti hanno voluto sentenziare, dando vita a quello che è stato definito “il valzer delle cifre”. C’era chi diceva che ne restavano solo 19, chi 30 e chi 60: per altri esperti erano persino “troppi per quel territorio”. Ciascuno però restava chiuso nel proprio “orticello”, e non mancavano coloro per i quali un povero orso esisteva soltanto se poteva essere catturato, pesato, valutato in ogni aspetto e sottoposto all’ormai dilagante “analisi del DNA”. In verità, se gli orsi fossero stati così pochi come qualcuno sosteneva, oggi sarebbero totalmente scomparsi. E poi, la loro diffusione interessa un vasto comprensorio montuoso dell’Appennino Centrale, e quindi non solo Abruzzo, ma anche Lazio e Molise. In questi casi, più di un accuratissimo, lungo e costoso censimento individuale, vale una “stima” della popolazione, per operare immediatamente tutti i necessari interventi di sostegno. La conclusione è molto semplice: se l’orso marsicano contava appena 60 individui all’inizio del “rilancio” del Parco (1969), le valutazioni più serie all’inizio del terzo millennio parlavano di almeno 100 esemplari (2001). Un dato probabilmente impreciso, ma non esagerato: errato semmai per difetto. Si può comunque ragionevolmente affermare che, nel giro di trent’anni, gli orsi erano praticamente raddoppiati. E avrebbero continuato a crescere, se le cose non fossero cambiate. La situazione attuale invece preoccupa molto, sia per la scarsa consistenza del nucleo, sia per l’incapacità di adottare misure risolutive, e anche per a crescente “antropizzazione” incontrollata di gran parte degli ecosistemi, che determina la progressiva “deviazione” dei costumi del plantigrado.
Si riferisce ai frequenti casi di orsi che entrano di notte nei villaggi, compiendo razzìe nei pollai? Ma è vero ciò che si dice, che si tratti di un comportamento indotto da ricerche troppo «invasive»?
Esattamente, il caso è ben noto a tutti i veri “esperti” di orsi, e rischia di determinare una “deriva” irreversibile. Perché l’orso è un animale molto ghiotto, individualista e pervicace: se s’incapriccia d’un cibo o d’un sapore, continuerà poi a ricercarlo, e mamma orsa trasmetterà certamente questo comportamento ai suoi cuccioli. Animali che avevano sempre evitato e fuggito l’uomo, diventano come dicono gli americani “spoiled”, vale a dire “viziati” o “deviati”. Oggi alcuni operatori preferiscono definirli orsi “problematici”, oppure “confidenti”, “assuefatti”, o “condizionati”. Esprimono lo stesso concetto, ma con una sfumatura diversa. Perché i termini usati in Abruzzo sembrano darne la colpa ai plantigradi, mentre all’estero fanno chiaramente intendere che la vera e unica responsabilità è dell’uomo. Vengono suggeriti vari rimedi, dalle barriere di protezione con impulsi elettrici ai “dissuasori” come le pallottole di gomma, ma una cosa è certa: rieducare un orso deviato è impresa molto difficile, se non impossibile. Lo dimostrano anche gli episodi passati degli orsi della Slovenia bruscamente trapiantati in Trentino e nei Pirenei Francesi, e finiti spesso miseramente. Nel caso dell’orso d’Abruzzo la situazione non è meno seria: alcuni ricercatori, all’insaputa del Parco, avevano cercato di attirare gli orsi con “esche olfattive” a base di pollame e pesce, o con polli che erano stati nutriti con scarti di pescherìa. L’effetto è stato disastroso: i plantigradi sono entrati nottetempo nei villaggi alla ricerca di cibo, invadendo i pollai accuditi dalla gente più anziana, che vi vedeva un’attività utile e gratificante, anche per portare il quotidiano “ovetto fresco” ai nipotini. Lo spavento è stato enorme… E non esagero affermando che, se quasi tutti questi orsi sono ormai scomparsi, ciò significa purtroppo che qualcuno, regredendo alla barbarie, li ha abbattuti.
Vuol dire che la ricerca scientifica troppo accanita e invasiva può essere causa di danni irreparabili?
Ogni attività umana eccessiva può produrre conseguenze dannose. Quando si tratta di specie vulnerabili e in pericolo, occorrerebbe la massima prudenza. La ricerca è il faro che illumina la via da percorrere, ma questa luce va indirizzata nel modo giusto, con visione ampia e interdisciplinare, da parte di coloro che detengono la responsabilità della “missione conservazione”. Per molti anni abbiamo cercato di far comprendere, anche a livello internazionale, che il “fattore limitante”, nella tutela della fauna minacciata, non era certo la carenza di indagini scientifiche, tutt’altro! Mancavano, piuttosto, analisi eco-sociologiche adeguate. Anche i casi del rinoceronte e dell’elefante in Africa, o della tigre in Asia lo dimostrano chiaramente. Come ha affermato il Professor Alistair Bath, geografo canadese specializzato in “human dimentions”, ovvero dimensioni umane del conflitto ambientale, stupito per la quantità di risorse umane e finanziarie devolute in Italia agli studi sull’orso: “Ma mi pongo una domanda: tutto ciò è veramente utile per la sopravvivenza delle specie che studiamo? Credo che corriamo il rischio di ritrovarci con tante ricerche molto interessanti, e con diversi orsi morti».
Quali conclusioni trarre dal recentissimo caso dell’orso deceduto a Roccaraso?
Anche questo triste episodio, avvenuto a cavallo tra Parchi d’Abruzzo e Maiella, ha rivelato che quel povero animale investito era stato già da tempo colpito a fucilate, confermando così la nefasta incidenza della caccia (che qualcuno si ostina a negare, parlando addirittura di “ambientalismo venatorio”!), e la sconfortante carenza di presidio del territorio, e cioè di adeguata sorveglianza. Una situazione che andrà ora peggiorando per effetto del prossimo disfacimento della Forestale, con tutte le immaginabili conseguenze. Quel che appare certo è che non si riuscirà a sottrarre all’estinzione il grosso plantigrado, se non si saprà anzitutto approfondire la verità, modificando decisamente gli attuali metodi fallimentari, in cui per tre lustri sono stati profusi consistenti fondi italiani ed europei. E riscoprendo come la cosiddetta “vecchia gestione del Parco” aveva salvato non solo l’Orso marsicano, ma anche il Camoscio d’Abruzzo, il Lupo appenninico e tutta la ricca Biodiversità dell’Appennino Centrale, reintroducendo anche, con grande successo, animali da tempo scomparsi come il Cervo e il Capriolo. E soprattutto, assicurando la rinascita del Parco grazie a una strategia innovativa ed efficace, che attraverso il riscatto culturale, il turismo naturalistico e il coinvolgimento delle comunità locali, avrebbe in breve dimostrato i benefici del Parco, a vantaggio sì del patrimonio naturale, ma anche della società locale e nazionale.