Nuovo libro dello scrittore Fulvio D’Amore

IL BRIGANTAGGIO Tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie nell’azione del capobanda Antonio Gasbarrone (1814-1825)
di Antonio Socciarelli

La vita scellerata e avventurosa di Antonio Gasbarrone, uno dei più noti capibanda laziali, contemporaneo di Standal e Dumas, viene rievocata nel libro in uscita per le Edizioni Kirke (Avezzano-Cerchio) scritto dal ricercatore e saggista Fulvio D’Amore, dopo aver consultato numerosa e interessante documentazione d’archivio. Apogeo e declino del celebre brigante sono gli anni combattuti senza tregua dal 1814-1825, quando con le sue numerose scorribande tra Stato pontificio e regno delle Due Sicilie mise in crisi cardinali, monsignori e il Papa-Re. Nella sua biografie ottocentesca, scritta dal brigante Pietro Masi, confessò apertamente di aver ucciso di suo pugno almeno trecento persone, compresi gendarmi papalini e soldati borbonici; proprietari terrieri, conducenti di diligenze, donne e pastori che parlavano troppo. Alto, robusto, corpulento, sempre armato fino ai denti, riuscì persino a minacciare la città di Avezzano, portandosi con i suoi armati sotto la cinta muraria. La famiglia Jatosti (una delle più facoltose del capoluogo marsicano) subì le sue vessazioni. Infatti, per salvare la pelle ad un suo congiunto rapito da Gasbarrone, sborsò notevoli somme. Moltissimi sono gli episodi accaduti lungo la frontiera pontificia, dalla Valle Roveto fino ad Accumuli, che videro protagonista assoluto il brigante di Sonnino (oggi provincia di Latina). La sua banda, sempre mobilissima, condotta magistralmente, sapeva dove colpire, avendo la complicità di centinaia di pastori laziali, abruzzesi e molisani. Oltretutto, durante la rivoluzione carbonara del 1821 (condotta da Guglielmo Pepe e dal generale Carrascosa), l’astuto capobanda indossò la divisa borbonica, facendo parte di un “corpo franco” costituzionale, incaricato di attaccare le retrovie del generale austriaco Frimont. Più volte ottenne l’amnistia dal Papa-Re, presentandosi alle autorità pontificie come fosse capo di un esercito regolare senza deporre le armi. Mandato al confino di Cento (delegazione di Ferrara) con moglie e figlio, scappò dopo qualche mese, percorrendo almeno cinquecento chilometri, inseguito da innumerevoli forze dell’ordine che presidiavano i confini delle regioni attraversate. Tuttavia, riuscì indenne dai numerosi agguati. Infine, ferito, riparò nei pressi del suo paese nativo, ben nascosto e curato da un pastore suo amico. Riorganizzate le varie bande, riprese il suo “antico mestiere”.

I villaggi abruzzesi che subirono le violenze o le rappresaglie di Gasbarrone furono: Opi, Pescasseroli, Barrea, Pescina, Rivisondoli, etc. Le zone dell’Aquilano e del Cicolano non furono esenti dalle sue devastanti incursioni a danno dei ricchi proprietari armentari, di mercanti e di ignari viaggiatori. In una delle sue più singolari scorribande, all’imbrunire, entrò tranquillamente nella taverna di Paterno, terrorizzando tutti gli avventori: mangiò, bevve e, alla fine, pagò il conto all’oste, dirigendosi poi ad assalire gli stazzi di alcuni signori di Celano che avevano portato le mandrie a pascolare presso i campi di S.Jona. Vestiti tutti con giacche, cappotti e banderuola rubata ai soldati pontifici; cappello tondo a punta adornato di fettucce, treccia da un lato e grossi orecchini alle orecchie,  armati con fucili militari, baionetta e pugnali, i briganti di Gasbarrone commisero durante i dodici anni alla macchia, ogni specie di nefandezze. Tagliarono orecchie ai figli dei proprietari che non volevano pagare le somme del riscatto e spesso squartarono nemici e traditori, appendendone gli arti agli alberi posti sulle strade principali, come monito per tutti i viandanti. I vari monsignori (delegati straordinari), per non dare troppo scandalo, dovettero scendere a patto con il famoso capobanda che, seppur imputato di delitti e misfatti punibili con la pena di morte, occorreva ammansirlo con diplomazia. Questa, grossomodo, la storia narrata nel libro dell’autore marsicano, che scaturisce dai rapporti delle forze di polizia, dalle lettere dei sindaci, dei preti, dei proprietari e dalle testimonianze dei pastori; un racconto veritiero senza fronzoli, supportato da ampia bibliografia che, però, ne ha talvolta gonfiato i contorni, portando la figura di Gasbarrone verso il “mito” del brigante della prima metà dell’Ottocento. Basti pensare che, durante il suo periodo di prigionia a Castel Sant’Angelo,  le signore inglesi e francesi in gita in Italia, sbarcate a Civitavecchia, andavano a trovarlo, per avere a caro prezzo qualche ciocca dei suoi capelli, come prezioso souvenir da mostrare nei sontuosi salotti europei..

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