Testi tratti dal libro Avezzano e la sua storia
(Testi a cura di Giovanni Pagani)
La nostra storia si presenta, sin dai suoi primordi, densa di avvenimenti, la cui successione si venne svolgendo con ritmo tale, da far trovare Avezzano al centro dell’attività sociale, politica ed economica del popolo anxantino. ” Marsorum sunt Anxantini ” dice Plinio (1), e non a caso li cita per primi nella distinzione dei popoli marsi, consapevole senza dubbio dell’importanza della loro funzione e del loro peso nella vita della nazione comune, della quale gli usi, i costumi, le tradizioni, le leggi, le consuetudini ed il linguaggio facevano riconoscere fratelli tutti i figli della medesima terra, quella dei Marsi.
Ora, alla luce e sulla scorta di risultanze archeologiche e bibliografiche, si procede alla ricostruzione della storia della nostra città, considerando tutte le opinioni e notizie attinenti all’argomento, le quali possano valere nella ricostruzione della verità, che con tanto amore si va ricercando.
Dalla sua origine, a qualunque epoca voglia farsi risalire, Avezzano apparve segnata da un destino a volte benigno, a volte crudele, che attraverso le alterne vicende di tanti secoli le ha tuttavia riservato un ruolo di primo piano non soltanto in seno all’antica gente anxantina, ma anche fra tutti gli altri popoli marsi. Che Avezzano sia stata degli Anxantini non v’è ormai alcun dubbio, perché la zona in cui sorge è la medesima di quella occupata dal detto popolo, i cui confini territoriali potrebbero (2) essere ricostruiti in base a dati epigrafici, in precedenza citati, i quali fanno ritenere che i Campi Palentini, dalla catena del Girifalco e dal fiume Salto nonché l’agro di Avezzano dovevano essere, fino ai Lucensi, territorio anxantino (2). Difatti, come è stato già ricordato, gli Anxantini e gli Albensi erano confinanti ed iscritti alla medesima tribù Fabia, che era la più antica e la più nobile di Roma, mentre tutti gli altri Marsi erano iscritti alla tribù Sergia.
Inoltre il cippo conterminale con l’epigrafe ” ALBENSIUM FINES ” (3), scoperto nel lato occidentale da Scanzano, indicava che gli Albensi arrivavano fino al Salto, toccando certamente con la loro vasta zona, a sud del Velino, San Pelino, Scurcola, Poggio Filippo, Scanzano, Santo Stefano e persino Santa Anatolia, nelle quali località furono rinvenuti titoli epigrafici con la dicitura ” Fabia “. E’ da ricordare ancora che le epigrafi rinvenute nel Campi Palentini e nell’agro di Avezzano fanno menzione, oltre che della tribù Fabia, anche di ” Giove Statore ” (4), menzione che manca in tutte le iscrizioni albensi: la qual cosa prova l’esistenza del tempio a Giove Statore nel territorio anxantino e che tale tempio doveva essere il più grande monumento architettonico consacrato poi ad Augusto.
Si riporta in proposito il pensiero di Loreto Orlandi, espresso a pag. 70 della sua opera postuma: ” L’esistenza del tempio a Giove Statore in territorio anxantino fu accertata dal Mommsen con quella serenità di vedute, che è caratteristica principale del grande archeologo “. Particolare interesse mostra anche l’esistenza, nel medesimo territorio anxantino, del ” Collegium fabrorum tignarior “, che era un’organizzazione romana, ben disciplinata, di operai specializzati, armatori, carpentieri, pontieri, la cui opera era assai utile e preziosa tanto in guerra quanto in pace, ed era diretta da un Praefectus fabrorum.
Il detto ” Collegium fabrorum “, come risulta dal passo del Febonio già citato (5), esisteva nella contrada o vico Pantano presso il tempio di Augusto, che fu trasformato nella chiesa di S. Salvatore successivamente di S. Antonio Abate ed infine di S. Bartolomeo Apostolo. Questa circostanza particolarmente importante induce a ricordare che Avezzano viene indicato dallo stesso Febonio come vico contemporaneo al Pantano, che era cosi denominato, non nel senso di piccola palude o acquitrino, secondo la tradizione volgare, ma nel significato etimologico di Pan-Theon, cioè tempio di tutti gli Del, correggendosi in tal maniera anche l’intepretazione data dal Corsignani ” quasi Pantheon Jani ” (6).
Non appare fuori luogo intanto notare che lo storico francese Horno, a pagina 203 della sua opera ” La Rome antique ” a proposito del nome Pantheon, cosi si esprime: ” Il nome di Pantheon è rimasto quanto mai enigmatico… Sembra che Paritheon debba tradursi per edificio particolarmente sacro e non per tempio di tutti gli’ Dei ” (7). (12) Le considerazioni dell’Homo vengono in tal modo a confermare il senso della santità, che si intende attribuire al luogo, ove la nostra città ebbe la sua culla. Non è stato forse detto che il luogo, dove sorse Avezzano, si chiamava ” Casa di Dio “, e che la gente, che aveva cura di quel tempio, si chiamava Vezzia, cioè gente della ” Casa di Dio ” ? (8). In un poemetto arcadico, intitolato ” La Marsica “, si leggono i seguenti versi sull’origine di Avezzano: ” … non più dispersi’ restaro, e nuova società formando, all’un tempo tra lor surto Pantheon intorno stabilir de’ lor Penati le nuove sedi ” (9).
Questi versi esprimono il concetto della sacralità del fondo dei Vezzi, assai diffuso fra gli storici e le popolazioni della Marsica. Ora, tornando al discorso precedente, non può esservi dubbio che Avezzano sia antica quanto il Pantano e gli altri vichi, i quali, secondo Febonio, e quindi secondo tutti gli storici posteriori, si riunirono in un luogo unico, il più adatto alle esigenze della loro difesa e della loro organizzazione comune, e che risultava il più importante per monumenti o costruzioni antiche (10). Si può chiedere altresi la ragione per cui nel dare il nome al nuovo paese, sorto in circostanze tanto particolari, sia prevalso quello di Avezzano. Tale interrogativo non richiede grande riflessione nella risposta, che fornisce finalmente la soluzione definitiva fra le tante possibili che si sono finora presentate. Si deve riconoscere che Avezzano doveva essere il centro abitato preminente fra i vichi primitivi, sicché il suo prestigio assoluto portò il suo nome a prevalere pacificamente su tutti gli altri.
Che nel territorio di Avezzano sorgesse un centro abitato di una certa importanza sin dal 200 a. C. è provato da molteplici, inequivocabili risultanze, che saranno ora descritte. Innanzi tutto è da ricordare il rinvenimento di una piccola ara votiva (11), ornata di fregi dorici, cioè con triglifi che separano metope, riproducenti forme di cranio di bue, come nella decorazione del sarcofago di Scipione l’Africano: circostanza questa molto significativa, che rivela chiaramente il diretto legame con il contenuto dell’epigrafe, risalente all’epoca repubblicana e scolpita sulla stessa piccola ara, a memoria del voto fatto ad Ercole dal Legionari Marsi, reduci dall’Africa per la seconda guerra punica (219-201 a. C.). Lo storico avezzanese Bernardino latosti ricorda che alla sua epoca la suddetta lapide a forma di ara votiva figurava collocata, assieme ad altre. ” lungo la scala, che mena al Tribunale ” (12).
L’iscrizione epigrafica cosi dice: ” Herculei donum – milites africani – Aecilianis Magister curavit – C. Saltorius C. F. ” (13). Essa testimonia la partecipazione di volontari marsi alla detta guerra, di cui Livio fa aperto cenno nel seguente passo: ” quurn Sciplo classerri comparavit, Marsi, Paeligni, Marrucinique multi voluntarli nomina in eam dederunt ” (14). La piccola ara votiva era murata nella chiesetta di San Nicola, nel cui lato, sulla strada omonima, era stato fissato con scarso gusto architettonico il portale con l’architrave originale del tempio di Ercole, che risaliva anch’esso all’epoca repubblicana romana. Questo portale, attualmente custodito nel Museo Lapidario Comunale di Avezzano assieme all’altro maggiore della seconda metà del sec. XIII, presenta nel suddetto architrave tutti i caratteri di un’arte ben raffinata, come non potrebbe sospettarsi in località diversa da Roma nel periodo repubblicano, che precedette le guerre puniche.
Esso consta anche di un arco di scarico ben modanato, ma privo di decorazione: inoltre i due capitelli di ordine corinzio appena accennato, quasi irregolari, sovrastanti due pilastrini, i quali fungono da spalle, sorreggono con piccole basi scarsamente sagomate l’architrave, che, come Si è detto, è l’elemento più interessante dell’intero portale: esso e apparso sempre manchevole delle altre parti originali, come dimostrano precisamente i lati dell’architrave medesimo, certo disperse prima della ricomposizione sopra uno dei lati esterni della chiesetta di San Nicola. L’architrave è decorato da un piccolo fregio di un verismo eccezionale, raffigurante in bassorilievo una vite simbolica, sorgente al centro in due rami, che si svolgono in volute circondanti ciascuna un pampino, e che si estendono fino al limite dei lati, ove due aquile, inconfondibili per il piumaggio, sorreggono col becco ricurvo le estremità dei tralci. L’ornato si distingue dal bassorilievi del medioevo per l’assenza di ogni motivo di stilizzazione, e presenta uno studio minuzioso del vero, che viene riprodotto con una fedeltà anatomica non riscontrabile facilmente nel periodo medioevale, al quale venne erroneamente assegnato in precedenza.
La composizione è di una eleganza semplice, ma fine, ponendo in evidenza i particolari più esili della natura, rappresentata con tanta cura, da sembrare stampata sul vero. Si e confortati inoltre, in questi rilievi, dal competente giudizio di due grandi intenditori, Pietro Piccirilli (15), che dichiara l’architrave ” di gusto classico “, ed Ignazio Carlo Gavini (16), il quale si accorda col Piccirilli nel riconoscere che la mano dell’abilissimo scultore è diversa da quella, che esegui il portale maggiore, per quanto sia l’uno che l’altro storico abbiano ritenuto del secolo XIII anche il portale minore, ignari forse di ogni altra notizia relativa. Le decorazioni dei due portali infatti non solo risultano scolpite da mano diversa, ma mostrano anche caratteri, che li fanno risalire ad epoche differenti, la cui arte tuttavia è dotata della medesima essenza, quella romana: essi provenivano da edifici distinti e senza dubbio di importanza architettonica ben più grande, considerata l’assoluta mancanza di valore artistico della chiesetta di San Nicola, non tanto antica, le cui quattro mura ad opera incerta davano l’impressione di essere state costruite soltanto per tenere in piedi i portali stessi.
E cosi la piccola ara, eretta ad Ercole per mezzo del capo della Comunità religiosa addetta al culto del nume, C. Saltorio figlio di Calo, per volontà espressa nel quartieri Aciliani dai combattenti marsi della seconda guerra punica, era rimasta infissa per vario tempo tra il pietrame di recupero, che sulle rovine dello stesso tempio di Ercole (17), servi molto posteriormente alla costruzione delle quattro mura della chiesetta di San Nicola; essa lasciata poi negletta per tanti anni, custodi in segreto una prova storica di immenso valore per noi avezzanesi. Si deve poi notare che la chìesuola suddetta distava dalla chiesa collegiata di San Bartolomeo nel Pantano, nello stesso luogo cioè dove sorgeva prima il tempio ritenuto di Giano e poi dedicato ad Augusto, all’incirca un chilometro. Orbene il tempio di Ercole era vicino al Pantano e faceva parte di un abitato, sito nel territorio di Avezzano. Si sa che il suo culto veniva celebrato in tutti i centri dei Marsi, perché di frequente ‘ritorno al Fucino furono rinvenuti molti piccoli idoli in bronzo, che raffiguravano Ercole recante sulla spalla sinistra la pelle del leone, mentre innalzava la clava, brandita dalla mano destra. Inoltre, in uno dei tre frammenti di bassorilievi, rinvenuti presso l’emissario claudiano, e che avevano decorato la facciata dell’antico Incile, fra l’altro, v’era scolpito Ercole dominante in atteggiamento di lotta.
Durante gli scavi della città di Avezzano, dopo il terremoto del 1915, per lo sgombero delle macerie, dentro un muro antico in Via Aloysi, distante dalla chiesa di San Bartolomeo trecento metri circa, fu rinvenuto un piccolo tesoro di monete repubblicane; il conio più recente di parte di esse giungeva fino al 90 a. C. Il rinvenimento eccezionale fa ritenere che i proprietari, per salvare il danaro da ogni pericolo di furto durante la guerra sociale, lo avessero nascosto, senza averne potuto fare alcuna rivelazione prima della loro morte, forse verificatasi improvvisamente nei tristi frangenti della guerra stessa.
La notizia di tale rinvenimento mi fu riferita nel 1937 direttamente dall’ing. Loreto Orlandi, ed occasione a parlarne fu la consegna da parte mia, quale Segretario dell’Ufficio Recuperi del Terremoto, di 292 monetine d’argento romane ed albensi, perché fossero custodite nel Museo Comunale; di quelle romane alcune erano con l’effigie di Giulio Cesare, altre con diversa immagine; le albensi recavano in un verso l’aquila che stringe tra gli artigli tre dardi, con l’iscrizione ” ALBA “, ed al rovescio la testa di un guerriero con elmo, battuta tra il 303 ed il 263 a. C. in Alba. Anche tali monetine erano state trovate dure gli scavi tra le macerie dell’abitato centrale della vecchia Avezzano.
Queste monetine erano ancora conservate nell’Ufficio Recuperi del Terremoto presso il Tribunale di Avezzano, essendone ignoto il proprietario, e perché rimanessero nella nostra città mi interessai molto, sollecitando il Podestà dell’epoca, cav. Silvio Bonanni, a farne richiesta per l’attribuzione e per la custodia nel Museo Civico. Il Magistrato Commissario dell’Ufficio Recuperi, dott. Virginio Pollo-Poesio, accogliendo l’istanza del Capo dell’Amministrazione Comunale di Avezzano, emise apposito decreto, in virtù del quale potei effettuare la consegna al Cav. Bonanni ed all’Ing. Loreto Orlandi, che lo assisteva quale dirigente dell’ufficio tecnico comunale ed iniziatore del Museo Lapidario Civico, da lui diretto con zelo e competenza. Un antico acquedotto attraversava il territorio di Avezzano, partendo dall’attuale piazza del mercato, che una volta si chiamava Piscina, per un piccolo specchio di acqua alimentato da sorgente naturale sul luogo, e che i ragazzi nelle afose giornate d’estate trasformavano abusivamente in… stazione balneare d’occasione, come la cosiddetta ” Refota ” in contrada Muscino.
Tale acquedotto portava l’acqua della detta sorgente fin verso le chiesette della Madonna di Loreto e di Sant’Antonio Abate, passando per San Leonardo e la sua costruzione a cunicolo aveva di particolare la copertura fatta con grosse tegole a capanna, a somiglianza dei sepolcri antichissimi, notati nella necropoli di Colle del Sabulo nel sito della vecchia Avezzano e nella zona stessa delle due chiesette ora nominate (18). Parlando proprio delle chiesette medesime, Bernardino latosti ricorda che nella coltivazione dei terreni ed in qualche scavo fatto lungo la via di San Nicola, nelle vicinanze della Madonna di Loreto e di S. Antonio Abate, si trovarono molti sepolcri antichissimi, posti in linee estese ed addossati gli un agli altri. La forma di essi era quella di un parallelogramma; la base, i lati, le due estremità ed il coperchio erano fatti di tegole ben lunghe, larghe e grosse con rilievo a due parti per l’incastro, e con due lettere impresse, le quali, essendo sempre le stesse, facevano supporre che stessero ad indicare il nome ed il cognome del fabbricatore. Le tegole del coperchio erano poste ad uso di tetto per lo scolo dell’acqua.
Dentro detti sepolcri si rinvennero ossa umane e lucertole di creta, che senza dubbio rappresentavano qualche simbolo rituale. Fu rinvenuto un solo sepolcro di dimensioni maggiori, contenente uno scheletro di donna e due di bambine, il cui sesso si poté supporre dalla presenza di orecchini e di una collana. Aggiunge l’illustre storico concittadino che, in altri luoghi della campagna di Avezzano, si rinvenne qualche altro sepolcro, contenente forse il corpo del proprietario del fondo, privo di ogni iscrizione mortuaria, che indicasse il nome del tumulato o l’epoca del seppellimento; a fianco dell’estinto era deposta una lunga spada ed una specie di targa di rame; in altri casi simili lo scheletro aveva tra i denti una moneta e nel dito un anello ordinariamente di ferro, con un incavo, che probabilmente era stato occupato da una pietra preziosa. La ruggine aveva corroso tali oggetti, che indicavano la distinzione dei sepolti, i quali dovevano essere stati o grandi guerrieri o cavalieri. Dice testualmente Bernardino latosti: “Trovatomi presente all’apertura di qualche sepolcro di quest’ultima specie, ho osservato che le ossa presentavano una dimensione superiore a quella, la quale conforma lo scheletro degli abitanti delle nostre contrade “… ” Per ultimo sono stato assicurato, e per molti esempi posso da me stesso assicurare, non essersi in queste contrade scavato un sepolcro, nel quale si potesse da qualche segno giudicare se chi vi era chiuso fosse un idolatra o un cristiano! ” (19).
Del resto sepolture identiche, le cui salme avevano indumenti ed oggetti vari di natura ed epoca indubbiamente pagane, furono scoperte lungo le strade cittadine, che erano entro i termini di quell’area di Avezzano, la quale nel medioevo fu circondata da mura e che oggi può essere riconosciuta nel circuito approssimativo segnato da Via Marcantonio Colonna, Via Vezzia, piazza del Municipio, piazza Torlonia lato sud, piazza Castello, vale a dire la parte centrale della città, anteriore al terremoto del 1915, nella quale arca furono pure rinvenute le monete delle epoche repubblicana ed imperiale, di cui si è dianzi parlato. Un eccezionale rinvenimento si ebbe nell’anno 1930 ad opera di Loreto Orlandi, Ispettore Onorarlo ai Monumenti, il quale presso il diruto muro di cinta del castello, scopri un cippo sepolcrale a base quadrata della misura di m. 0.53 per m. 0.48 di base per m. 0.83 di altezza. Nella parte che si conficcava nel terreno il cippo si restringe a punta e reca incavata una buca, dove erano le ceneri della defunta. Fu rinvenuto a profondità di circa cinquanta centimetri, abbattuto di fianco, ma in sito e cioè non trasportato a caso in quel luogo, tanto che nella cavità vi era ancora il residuo di ceneri. Vi si nota la seguente iscrizione epigrafica in carattere spiccatamente dell’epoca repubblicana, con lettere di m/m 60: SALVEIA. M. F. (Salveia M. (arci) F. (ilia) (20).
Tale rinvenimento prova l’esistenza, nel sottosuolo del vecchio abitato, di tombe pagane, in parte scoperte ed identiche a quelle descritte da B. latosti con tegoloni situati a capanna, di materiale fittile, e di sarcofaghi; vi sono state rinvenute altresì numerose sepolture cristiane. Seppellire i morti lungo le strade anche della città o presso il suolo stesso delle abitazioni nei tempi remoti era consuetudine pagana, corrente anche ‘n Roma (donde la preghiera augurale nelle epigrafi latine ” sit tibi terra levis “), fino a quando una legge delle XII Tavole, ” Hominem mortuum ne sepelito, neve urito in urbe “, non venne a proibirla tassativamente; ma negli altri centri abitati, non soggetti a diretto ed attento controllo, la medesima consuetudine continuò, anzi dall’avvento del Cristianesimo si seppelliva persino entro le chiese sino all’editto napoleonico di Saint Cloud del 5 settembre 1806, con cui si dispose che le sepolture dovessero aver luogo in appositi cimiteri, fuori delle città e delle chiese. Un tempo l’individuo poteva erigere il suo sepolcro in qualunque fondo privato per sé o per altri, mentre oggi il sepolcro anche privato, deve essere collocato in un’area di proprietà del Comune; la legislazione non ha trascurato tale materia, disciplinandola in apposite leggi, costituendo un diritto reale sul generis, quello di avere sepoltura in un determinato luogo del cimitero pubblico.
A maggiore conferma della tesi circa l’esistenza di un centro abitato antichissimo nell’ambito di Avezzano, altra importante testimonianza viene fornita dall’antropologo Nicolucci, il quale, nel compiere il suo pregevole studio sui crani dei Marsi, dove procedere a ricerche ed a raccolta di elementi da esaminare. Orbene lo scienziato suddetto afferma: ” I crani marsi che ho potuto raccogliere fra, antichi e moderni, sono, al numero di 40, fra i quali 22 maschili e 18 muliebri. Sei fra questi ultimi sono antichi, e dodici dell’età moderna, cioè fra il secolo XVI e la metà del presente. Fra i maschili due soli sono antichi, e i rimanenti tutti moderni, compresi egualmente fra il secolo XVI e la metà del XIX. Essi appartengono a diversi luoghi della Marsica; gli antichi ad Avezzano, ad Alba, a S. Pelino ed a Luco, tutti raccolti in sepolcri dell’Epoca Romana Repubblicana ed Imperiale; i moderni ad Avezzano, Trasacco, Luco, Villavallelonga, Pescina, S. Benedetto, Collarmele e Lecce de’ Marsi ” (21).
La capacità cubica dei crani marsi risultò al Nicolucci veramente straordinaria, in media di 1485 c.c., e superiore a quelle di molti altri crani italici tanto antichi, quanto moderni; per la qual cosa è bene riportare il suo chiaro pensiero in proposito: ” D’onde cotesta grande superiorità nella capacità cubica dei crani marsi sopra gli altri crani italiani? A chi abbia visitato l’odierna Marsica, ed abbia contemplato quella forte popolazione che si estende su tutta l’antica sponda occidentale del Fucino da Trasacco fino ad Avezzano, non sarà difficile dare alla giusta domanda una conveniente risposta. Quegli uomini sani e vigorosi, per la loro costituzione erculea, per la loro membratura atletica possono dirsi i Patagoni dell’Italia; e poiché tutto è proporzionato nel loro corpo, cosi anche i crani grandeggiano al pari delle altre parti della persona, e la capacità quindi della scatola cerebrale non può non essere in proporzione della grandezza di quella corporatura. lo non tacerò la sorpresa che n’ebbi la prima volta ch’io vidi, or sono circa 30 anni, spingendomi sopra uno schifo per le sponde del lago Fucino, presso Luco e Trasacco quelle genti operose che davan opera alla pesca nella quale erano espertissime. Uomini e donne mi rinnovarono l’idea di quel giganti di cui favoleggiavasi che avessero in tempi antichissimi popolate le nostre regioni, perché lo non avevo mai veduto in verun’altra parte d’Italia cosi elevata statura, così robuste membra, e fibra cotanto gagliarda.
Essi mi parvero i non tralignati discendenti di quella ” maschia prole di Sabelli (Orazio), di que’ fortissimi Marsi (Cicerone), de’ quali non erasi mai potuto menare trionfo, e senza de’ quali non si era mai potuto vincere battaglia (Appiano) ” (22). Dal Febonio si apprende, come risulta nelle pagg. 33-34 del presente libro, che in occasione della ricostruzione della chiesa di San Bartolomeo nel sec. XVII, fu rinvenuta l’epigrafe dedicata al liberto Marcio, Seviro, Augustale, Dendroforo ed alla di lui madre: il rinvenimento avvalora sin d’allora la notizia dell’esistenza del tempio di Augusto, oltre che del Collegio dei Fabri, nel medesimo sito della Collegiata di S. Bartolomeo (23). L’iscrizione epigrafica, trascritta dal Febonio, presenta alcune differenze rispetto a quella riportata dal Mommsen al n. 3938 dei C. I. L., che è la seguente:
” M. ALICIUS. MARCIO. FAUSTO. LIBERTO. SEVIR. AUGUST. DENDROPHORO. ALBENSI. ET TROPHIMAE. MATRI “.
Difatti in quest’ultima si legge, Fausto invece di Iausio, Trophimae invece di Theophilmae. A conferma poi dell’esistenza della famiglia TROPHIMA nella zona di Avezzano all’epoca imperiale, va ricordato che pure nella chiesa di San Bartolorneo fu rinvento da Alessandro Aloysi, nell’anno 1738, il sepolcro della famiglia medesima, fornito dell’immancabile iscrizione epigrafica (24); detta famiglia TROPHlMA quindi ripeteva certamente il cognome della madre di Marcio Augustale e Dendroforo, come avvenne per la famiglia di Dante, secondo quanto egli fa dire dal suo trisavolo Cacciaguida degli Elisei:
” Mia donna venne a me di Val di Pado: e quindi il soprannome tuo si feo ” (25). Come accennato a pagina 32, nella medesima Chiesa Collegiata di San Bartolomeo, durante gli scavi fu rinvenuta, sotto l’altare maggiore, una lapide con iscrizione epigrafica in omaggio all’imperatore Traiano per l’opera da lui svolta nel riattivare e perfezionare l’emissarici di Claudio. L’epigrafe cosi dice:
” IMP. CAESARI. DIVI. NERVAE. FIL. NERVAL TRAIANO. OPTIMO. AUGUSTO. GERMANICO. DACICO. PARTHICO. PONT. MAX. TRIB. POT. XVIII. COS. VI. PATRI. PATRIAE. SENATUS. POPULUSQUE. ROMANUS. OB. RECUPERATOS. AGROS. ET POSSESS. QUOS. LACUS. FUCINI. VIOLENTIA. INUNDAVERAT >, (26).
Tale epigrafe venne illustrata dal Febonio e dal Fabretti, ma il primo a farne cenno nella sua opera ” De Teate antiquo”, storia di Chieti antica, fu Lucio Camarra, il quale dichiara di averla vista quando era vice-duca del principe Marco Antonio Colonna nella Marsica, e cosi scrive:
“Testatur lapis, tametsi non integer, qui Aviani in Marsis extat in templo Divi Apostoli Bartholomel (quod olim jano dicatum nomen illi oppido fecisse ferunt) a me nuper observatus, dum Marci Antonii Columnae romani principis et magni citerioris Siciliae comestabuli in eius perampla toparchia gerebam vice” (27). L’epigrafe, vista dal Camarra e riportata dal Febonio (28), scritta a grandi lettere sulla base gigantesca, che era servita a sostenere “Traiani Principis marmorcum colossum” dove era l’altare maggiore di San Bartolomeo (in ara maiori Collegiatae Ecclesiae S. Batholomei in hac nostra Patria, dice testualmente il Febonio.) andò distrutta, con la detta base, forse in seguito al lavori di ricostruzione della Collegiata.
Nel periodo in cui svolsi le funzioni di Commissario Prefettizio dell’Ospedale Civile di Avezzano, notai nell’ampio recinto dell’Ospedale medesimo, molto ingrandito di recente, una certa quantità di massi di pietra alquanto ingombranti, da cui venivano ricavate colonnine terminali per conto del Comune di Avezzano. Diedi disposizione perché fossero rimossi e collocati in un punto appartato dello stesso recinto, onde far procedere al migliore assetto del grande giardino. In questa circostanza mi informai della provenienza di tali massi dall’ing. Loreto Orlandi, dirigente dell’Ufficio Tecnico del domune, e venni a conoscere che erano stati rinvenuti nelle immediate adiacenze della chiesa di San Bartolomeo, tra le macerie di vecchi fabbricati distrutti dal terremoto del 1915, per la costruzione dei quali, in tempi lontani, erano stati usati. Risultavano perfettamente tagliati ad opera rettangolare, tutti delle medesime dimensioni e, senza alcun dubbio, la forma precisa ne indicava la sicura origine, quella cioè di un importante antico edificio. Qualcuno di quel massi è visibile ancora. Loreto Orlandi ne parlava anche nel suoi scritti (29).
Da quale importante antico edificio provenivano quei massi di pietra squadrata? La domanda appare senz’altro oziosa, dal momento che più volte è stato affermato che esisteva un tempio antico nel sito della Chiesa Collegiata di San Bartolomeo, e che tale tempio fu prima dedicato a Giove Statore – non a Giano, secondo la vecchia credenza – e poi certamente ad Augusto Imperatore. Tale credenza, del tutto infondata, fu dovuta al rinvenimento, nel sito dell’antico tempio, di vari oggetti, che erano certamente ” donaria ” provenienti da una stipe votiva, la quale confermava l’esistenza del tempio pagano in quel luogo. Detti oggetti consistevano in figure simboliche di forme diverse, amuleti, piccoli idoli, etc., ed inoltre in monete di bronzo, erroneamente scambiate per medaglie, che da un lato recavano l’immagine di Giano Bifronte e dall’altro il rostro di una nave (30). Infatti esse corrispondevano perfettamente all’asse librale, (as libralis), moneta romana in bronzo, la cui prima coniazione venne attribuita a Servio Tullio, ma probabilmente non risaliva oltre il V secolo a. C., ed ai tempi di Cicerone valeva poco più di cinque centesimi. Il conio dell’asse librale presentava proprio le caratteristiche particolari delle medaglie sopra descritte: da un lato figurava l’effigie di una divinità, cioè Giano Bifronte, e dall’altro il rostro di una nave.
Si deve ancora aggiungere che la consacrazione a Giano Bifronte del tempio non risulta confortata dal sostegno di alcuna fonte archeologica o storica contemporanea, come al riguardo afferma lo Sclocchi (31), o comunque anteriore a quegli storici, che l’ammettono con tanta concorde certezza; invece va notato che nelle lapidi con iscrizioni epigrafiche citate, rin~ venute nel territorio di Avezzano, viene nominato sovente e con chiarezza Giove Statore, per la carica di curatore del suo tempio, rivestita dal personaggi, ai quali sono indirizzate le dedicatorie delle lapidi suddette. Una di queste importanti iscrizioni epigrafiche è bene riportarla per intero, perché fornisce la prova lampante che il tempio antico nel Pantano doveva essere dedicato a Giove Statore e non a Giano:
” D. M. S. L. MARCULEIO. SATURNINO. VETERANO. AUGUSTICO. VII PRI. IIII VIRO. I. D. QUAESTORI REIPUBBLICAE. CURATORI. ANNONAE. PLEBIS. CURATORI. OMNIUM. PUBBLICORUM. CURATORI. APUD. T. JOVEM. STATOREMQUE. COLLEGI. FABRORUM. TIGNARIORUM. L. MARCULEIUS. FAUSTUS. IUNIOR. III VIR. IURE. DIC. CURATORI. ANNONAE. PATRI. OPTIMO. ET. SIBI. FECIT”.
La testimonianza, che si ricava dal titolo sopra trascritto, è data palesemente dalla denominazione T (ergeminum) attribuita a Giove, che ha cioè tre nomi e tre forme. Orbene dei tre frammenti di bassorielivi rinvenuti presso l’emissario claudiano, uno, anche esso mutilo, rappresenta un tempio, il cui lato ha undici colonne (di cui quattro infrante), le quali poggiano sopra uno stilobate ad alto podio, nella cui superficie laterale appaiono scolpite tre statue, che formano una triade divina, intercalata da piante basse ornamentali, ed il tutto sorge sopra una base costituita da file sovrapposte di. massi di pietra lavorati ad opera rettangolare: quasi a realizzare un concetto ideale di apoteosi, si innalza sull’alto podio, rivelando accento italico attraverso una imponenza maestosa greco-romana. Il tempio raffigurato nel bassorilievo ha tutti i caratteri propri di quello, che si dedicava a Giove Statore Tergemino, con la rappresentazione della triade divina di Giove, Giunone e Minerva, venerata nel Tempio Capitolino, il cui culto poi si diffuse per l’Italia e per ogni provincia dell’Impero con la conseguente costruzione di templi simili a quello descritto.
Un esempio tipico di tempio con sei colonne di fronte ed undici di lato, come quello riprodotto nel bassorilievo, secondo Vitruvio, fu costruito nell’anno 100 a. C. in Roma da Ermadoro di Salamina per incarico di Postumio Metello (32).
Altro esemplare, per quanto privo di statue esterne, si rinviene nella città di Nimes nella Gallia Narbonense: tale tempio è dotato di undici colonne laterali e sei frontali, di un alto podio, di un vestibolo ampio, ed il colonnato corinzio aderisce alle cortine murarie dei lati; esso riconduce al tipo etrusco-italico del tempio di Marte Ultore in Roma e risale all’età augustea, attestando come i Romani abbiano diffuso forme architettoniche del genere in ogni parte del loro vasto impero. Sembra evidente ormai che non si possa più dubitare dell’esistenza del tempio di Giove Statore nel territorio dove sorgeva Avezzano prima del terremoto del 1915. In nessuna zona della Marsica inoltre si sono mai rinvenuti elementi, atti a provare l’esistenza di Anxantium in territorio diverso da quello di Avezzano, dove invece gli elementi stessi sono venuti alla luce in misura e ragione sufficienti a dimostrarne la presenza. Il seguente passo, tratto dall’opera postuma di Loreto Orlandi, nelle pagine 167-168, conclude definitivamente l’argomento: ” Sorprendente è l’esistenza nel nostro territorio del Tempio a Giove Statore, bene documentata da monumenti epigrafici e dal bassorilievo rinvenuto anch’esso nell’Incile Claudiano “.
“Tali documenti ci inducono per eliminazione, dopo tutte le ricerche nell’esteso territorio, ad ubicarlo là dove gli stessi documenti epigrafici attestano che ” Augusti Templum erat “, e questo torna a grande onore per la nostra città, e non più si dirà che vi era il tempio a Giano Bifronte, ma il Tempio a Giove Statore, dedicato al culto degli Imperatori”. Senza il prezioso ausillo dell’indagine archeologica sarebbe stato impossibile portare alla luce verità di si grande importanza e che per tanti secoli sono rimaste avvolte nell’ombra densa da leggende fantastiche e da supposizioni, ripetute con ragionamenti, per quanto abili, pur sempre inattendibili in quanto a valore storico. La qual cosa dimostra che la storia, per la sua validità, va tessuta con la maggiore possibile prudenza nell’ordito e va sorretta da scienza precisa nella trama, assicurando in tal modo che la realtà non abbia a subire mutamenti a causa di errori, ma si presenti nella sua originaria purezza.
Orbene nel territorio di Avezzano, corrispondente a quello Anxantino, è stata sempre riconosciuta come vera e reale l’esistenza di un grande tempio, quello cioè che gli storici, dal Febonio in poi, hanno ritenuto erroneamente dedicato a Giano, che sorgeva nell’area centrale della vecchia Avezzano, cioè nel Pantano (Pan-theon), come si è detto altre volte. Da nessuna iscrizione epigrafica è venuto fuori alcun indizio a sostegno della erronea notizia: per la qual cosa si deve dedurre che il tempio di Giove Statore va identificato con il tempio ritenuto di Giano, dedicato poi ad Augusto, presso il Collegium Fabrorum, come si legge nello stesso Febonio, già citato in proposito (33), a meno che non; si voglia prendere in considerazione la possibilità dell’esistenza di due templi vicinissimi nella medesima località, ipotesi impossibile a sostenersi. Le decorazioni della fronte avanzata dell’emissario claudiano, nel rappresentare una città, che si sostiene essere Anxantium, stanno a significare la celebrazione della capitale del popolo, nel cui territorio sorgeva l’emissario, e nel contempo l’omaggio al ” Senatus populusque Anxantinus “.
Essa fu ritenuta degna, più di ogni altra città marsa, di essere raffigurata con i suoi monumenti ed i simboli dei suoi culti nelle opere di scultura ornamentale dell’antico Incile Si spiega quindi come il tempio di Giove Statore Tergemino, massimo monumento architettonico degli Anxantini, e l’effigie di Ercole, divinità venerate dagli Anxantini medesimi, vennero scolpiti nei bassorilievi decorativi descritti. Per una più precisa identificazione territoriale della città di Anxantium si è agevolati dal prezioso soccorso, che ci proviene dall’opera di Tolomeo Claudio (34), matematico, astronomo, geografo, nato in Egitto e vissuto quasi sempre in Alessandria durante l’epoca degli Antonini (138-180 d. C.). Dalla sua Geografia in otto libri, opera di grande interesse per la più vasta raccolta di cognizioni antiche nella scienza geografica, si apprende infatti una notizia di eccezionale valore, inerente all’argomento. Però il testo tolemaico, come è ben noto, risulta corrotto in più punti; per cui il nome della città dei Marsi, molto vicina ad Alba Fucense, viene letto AEX da alcuni, ARX da altri, e da altri ancora ANX o addirittura ANXANTIUM, traendo quindi conclusioni diverse, convinti della corruzione del testo (35).
Tuttavia dalle indicazioni fissate dall’autore si deduce che la posizione della detta città era nel medesimo grado longitudinale e settentrionale di Alba, quindi nello stesso meridiano, e precisamente a sud tra il lago Fucino ed Alba stessa., essendo il territorio a nord molto ridotto per la prossimità del Monte Velino. Dice testualmente il Febonio (36): “Arx autem, quam. in nostro etiam situ Ptolomeus ponit, in prospectu Albac sita erat, quod et modo Arce (corrupio vocabulo) nominatur “. Nel testo tolemalco risulta corrotto anche il nome di Alba Fucens, che si legge “Alfa Bucefis”: da tale dizione naturalmente sono sorte denominazioni erronee, delle quali alcune veramente sorprendenti, che vengono attribuite ad Avezzano antica, come “Alpha Buellas”, che si riscontra nella “Guida dell’Abruzzo” di Enrico Abbate (37), e “Alphabucelus”, che si rinviene in altra opera pregevole “Tra umanisti e Filosofi” mutamenti a causa di errori, ma si presenti nella sua originaria purezza.
Orbene nel territorio di Avezzano, corrispondente a quello Anxantino, è stata sempre riconosciuta come vera e reale l’esistenza di un grande tempio, quello cioè che gli storici, dal Febonio in poi, hanno ritenuto erroneamente dedicato a Giano, che sorgeva nell’area centrale della vecchia Avezzano, cioè nel Pantano (Pan-theon), come si è detto altre volte. Da nessuna iscrizione epigrafica è venuto fuori alcun indizio a sostegno della erronea notizia: per la qual cosa si deve dedurre che il tempio di Giove Statore va identificato con il tempio ritenuto di Giano, dedicato poi ad Augusto, presso il Collegium Fabrorum, come si legge nello stesso Febonio, già citato in proposito (33), a meno che non; si voglia prendere in considerazione la possibilità dell’esistenza di due templi vicinissimi nella medesima località, ipotesi impossibile a sostenersi.
Le decorazioni della fronte avanzata dell’emissario claudiano, nel rappresentare una città, che si sostiene essere Anxantium, stanno a significare la celebrazione della capitale del popolo, nel cui territorio sorgeva l’emissario, e nel contempo l’omaggio al ” Senatus populusque Anxantinus “.
Essa fu ritenuta degna, più di ogni altra città marsa, di essere raffigurata con i suoi monumenti ed i simboli dei suoi culti nelle opere di scultura ornamentale dell’antico Incile Si spiega quindi come il tempio di Giove Statore Tergemino, massimo monumento architettonico degli Anxantini, e l’effigie di Ercole, divinità venerate dagli Anxantini medesimi, vennero scolpiti nei bassorilievi decorativi descritti.
Per una più precisa identificazione territoriale della città di Anxantium si è agevolati dal prezioso soccorso, che ci proviene dall’opera di Tolomeo Claudio (34), matematico, astronomo, geografo, nato in Egitto e vissuto quasi sempre in Alessandria durante l’epoca degli Antonini (138-180 d. C.). Dalla sua Geografia in otto libri, opera di grande interesse per la più vasta raccolta di cognizioni antiche nella scienza geografica, si apprende infatti una notizia di eccezionale valore, inerente all’argomento. Però il testo tolemaico, come è ben noto, risulta corrotto in più punti; per cui il nome della città dei Marsi, molto vicina ad Alba Fucense, viene letto AEX da alcuni, ARX da altri, e da altri ancora ANX o addirittura ANXANTIUM, traendo quindi conclusioni diverse, convinti della corruzione del testo (35).
Tuttavia dalle indicazioni fissate dall’autore si deduce che la posizione della detta città era nel medesimo grado longitudinale e settentrionale di Alba, quindi nello stesso meridiano, e precisamente a sud tra il lago Fucino ed Alba stessa., essendo il territorio a nord molto ridotto per la prossimità del Monte Velino. Dice testualmente il Febonio (36): “Arx autem, quam. in nostro etiam situ Ptolomeus ponit, in prospectu Albac sita erat, quod et modo Arce (corrupio vocabulo) nominatur “. Nel testo tolemalco risulta corrotto anche il nome di Alba Fucens, che si legge “Alfa Bucefis”: da tale dizione naturalmente sono sorte denominazioni erronee, delle quali alcune veramente sorprendenti, che vengono attribuite ad Avezzano antica, come “Alpha Buellas”, che si riscontra nella “Guida dell’Abruzzo” di Enrico Abbate (37), e “Alphabucelus”, che si rinviene in altra opera pregevole “Tra umanisti e Filosofi” di Giuseppe Tommasino (38). Il vocabolo ARX quindi va ritenuto senz’altro corrotto, ed il nome veramente originario doveva essere ANXA di sicura derivazione osca, che appare anche fra le iscrizioni epigrafiche, espresse in lingua osca ed eseguite con lettere greche, scoperte nel comune lucano di Anzi, l’antica Anxia municipio romano, nella provincia di Potenza (39).
E’ certo che il vocabolo, in origine, doveva essere ANXA, per indicare in forma abbreviata ANXANTIUM, perché Plinio il Vecchio, vissuto anteriormente a Tolomeo Claudio, essendo stato presente all’inaugurazione dell’emissario di Claudio dove sicuramente transitare per il territorio di Avezzano sollecitare la curiosità e l’interesse scientifico di Plinio, studioso di ogni disciplina, nel visitare i luoghi, informarsi sul nomi ed apprendere ogni altra notizia, che egli per sua particolare natura ricercava e raccoglieva insaziabilmente, insieme ad immense letture, per riportare poi il tutto nelle sue numerosissime opere, di cui ci rimane soltanto la Naturalis Hìstoria; questa è una specie di eccellente enciclopedia, nella quale Plinio rispecchia tutte le cose del mondo esterno, comprese le arti figurative. Dalla Naturalis Historia (40) quindi sono state attinte le notizie riguardanti il popolo Anxantino, che risiedeva nella zona di Avezzano con la sua capitale Anxantium e con altri centri abitati minori.
Da tutti gli elementi, passati in attenta rassegna, emergela credenza che l’antica Anxantium era ubicata entroi li confini miti del territorio occupato dalla moderna città di Avezzano, stato, così con l’importante centro abintorno al tempio di Giove Statore Tergemino nel Pantano, come tutte le testimonianze suddette hanno potuto ampiamente e con chiarezza documentare. In nessuna località della Marsica, si torna a ripetere, sono stati mai rinvenuti indizi o tracce, che abbiano potuto dirigere le indagini storiche ed archeologiche attraverso un sentiero diverso da quello ora seguito, e condurre ad una conclusione distinta da quella, cui si è pervenuti in questa esposizione.
Per quanto i nostri storici abbiano tentato di sostenere tesi varie e, come si e constatato, l’una contrastante all’altra, circa il sito della città di Anxantium e del popolo anxantino nella regione marsa, tutte le loro argomentazioni presentano difetto di validità storica, perché non sono confortate dal sostegno della prova, che è l’elemento essenziale ed indispensabile per la serietà dei risultati di ogni ricerca scientifica. E per prova si intendono le fonti storiche di assoluta e sicura attendibilità, siano esse di carattere archeologico o bibliografico o tradizionale; le quali fonti poi, passate al vaglio di una critica serena ed obiettiva, sostenendosi ed integrandosi a vicenda, costituiscono solido fondamento di una verità storica inoppugnabile.
Cosi è stato possibile ricostruire la vita primordiale del nostro popolo, che è quello anxantino dei Marsi, popolo progenitore, che si sparse in seguito nel diversi vichi originari; di Anxantium la memoria andò perdendosi misteriosamente nei secoli, nondimeno la sua voce, quasi eco intermittente di un suono gradito, è giunta fino a noi, per rinsaldarsi nell’anima della sua terra.
I vichi non furono dunque la prima origine della nostra città, ma con la loro riunione nel Pantano (Pan-Theon) costituiscono nel nome di Avezzano la naturale continuazione di Anxantium. Non risulta l’epoca precisa di tale riunione, ma dal corso deglì avvenimenti emerge che essa dove realizzarsi dopo l’avvento e lo stabilirsi degli ultimi barbari, i Longobardi.