IL FUCINO (il territorio in epoca romana)

Nel IV secolo a.C. L’area intorno al Lago Fucino e abitata, sulla riva nord, dalla popolazione italica degli Equi e a sud dai Marsi. Noti per il loro coraggio, essi entrarono assai precocemente in contatto con Roma, poichè controllavano un’area di fondamentale importanza per l’occupazione della penisola. Il bacino del Fucino e infatti al centro dell’Italia in un importante nodo di comunicazioni tra le antiche regioni umbre e campane, ma anche tra Roma e L’Adriatico. Sin dalle età più remote questa caratteristica ne fece un bacino dove gli scambi culturali e le influenze artistiche delle popolazioni limitrofe furono elaborati in modo autonomo, confluendo nel patrimonio di conoscenze ed esperienze artigianali ed artistiche che dettero luogo ad una elaborazione originale, in varie epoche, della produzione ceramica, metallurgica e scultorea. A differenza di gran parte del territorio montano dell’Abruzzo interno, piuttosto isolato, nell’area fucense gli influssi politici magno greci e romani, già nel IVIII secolo a.C., sono ben leggibili nella religione, nella lingua, nella produzione e circolazione delle monete. La macroscopica presenza del lago Fucino, drammaticamente privo di emissari naturali, condizionava certamente in senso negativo le condizioni di vita delle popolazioni rivierasche che, più volte nel corso di 5000 anni, si sono rifugiate sulle alture circostanti.

Il momento storico che precedette questa fase di ”incastellamento” ante litteram da localizzare nell’età del Bronzo, e, forse, rintracciabile nelle fonti letterarie attraverso la saga della città di Archippe, ingoiata dal lago, in cui, forse, si allude nella tradizione locale ad una fase di esondazione del Fucino con il conseguente sommergimento dei centri perilacustri. Oltre l’allevamento transumante e, complementariamente, la piccola proprietà contadina l’economia locale poteva contare sulla pesca e le attività ad essa connesse. Tuttavia il regime incostante del lago che favoriva la formazione di ampie aree malsane e di danni periodici ai raccolti costituì certamente un ostacolo allo sviluppo economico. Caratteristica comune, delle genti italiche, il modo di abitare il territorio, attraverso una rete di villaggi sparsi, collegati in entità amministrative di tipo federale. Il sistema paganico-vicano utilizzava come punti di aggregazione i grandi santuari nei quali si esprimeva l’orgoglio della nazione di appartenenza.

I precedenti insediamentali dell’età del Ferro caratterizzati dal posizionamento dei villaggi allo sbocco degli immissari del Fucino, in corrispondenza di piccole pianure fertili non sembra di fatto aver condizionato la distribuzione degli abitati nelle età successive. Al decadimento di alcuni segnato dalla fatidica data del 90 a.C., come Supinum, vicus di notevole importanza già nel III secolo a.C., corrisponde l’incremento di altri come Marruvium divenuti municipium dopo la guerra sociale che assumerà una nuova forma urbana strettamente collegata al rinnovato significato politico. Nel nuovo sistema di piccoli villaggi e centri urbani più grandi attestato dal III al I secolo a.C. rimangono immutate le ubicazioni di parte dei grandi santuari federali, di antica tradizione come Lucus Angitiae e forse Lecce dei Marsi, che vengono ristrutturati dando origine a nuovi insediamenti urbani.

La logica territoriale seguente la romanizzazione seleziona per l’insediamento, tra i siti frequentati in età più antica, quelli coerenti con le logiche della viabilità di attraversamento del bacino fucense. All’imbocco delle traiettorie di comunicazione extraregionale si impostano i capisaldi militari più importanti, come e nel caso di Alba, terminale della Valle del Liri e della Valle del Salto, ma anche Supinum posizionata proprio allo sbocco della Vallelonga, e Murruvium punto obbligato di passaggio per le comunicazioni con le aree ad oriente del Fucino. I modi dell’insediamento, sebbene fortemente caratterizzati dall’organizzazione tipica delle aree italiche, per abitati sparsi, in montibus vicatim habitantes (Ltvro IX, 13), furono profondamente condizionati anche dai modelli urbanistici trasmessi dall’esperienza romana presente nell’area con una delle colonie più antiche, quella di Alba Fucens costituita nel 303 a.C..

La precoce romanizzazione dell’area fucente dovette costituìre per i villaggi indigeni, l’impulso all’aggregazione e alla definizione di più avanzate forme urbane di varia entità e di diverso significato politico. Fin dagli inizi del III secolo a.C. il paesaggio circumlacuale caratterizzato dagli oppida o ocres (insediamenti di sommità circondati di recinti fortificati utilizzati, forse, come riparo stagionale) e dagli abitati rivieraschi, subì un lento processo di riassetto territoriale. La forte concentrazione di recinti fortificati (gli oppidu cui si riferisce la tradizione trasmessa da Livio), il loro uso continuato nel tempo, i culti in grotta, sopravvissuti accanto ai santuari di tipico sapore ellenistico, epicentri di aggregazioni urbane di varia entità, e i grandi agglomerati urbani di Alba Fucens e Lucus Angitiae, prima, e Marruvium, poi, fanno del comprensorio fucense un’area densa di siti di grande interesse archeologico e storico.

Nel periodo romano fu certamente incentivata la manutenzione delle aree perilacustri destinate all’agricoltura particolarmente favorita dal clima mitigato dal lago. La coltivazione dell’olivo, sicuramente praticata in queste aree diversamente da oggi, era in età repubblicana una notevole fonte di reddito per le ricche famiglie di possidenti tra cui basti citare i potenti Ottavi attestati a Marruvium sia nel ramo dei Laenates che in quello dei Balbii, questi ultimi stabilitisi poi a Tivoli. Gli interessi economici imperiali nel periodo Giulio-Claudio per questa zona sono documentati dai ripetuti tentativi di regimentazione delle acque lacustri culminati con la costruzione dell’emissario artificiale che attraverso un lungo percorso in galleria scaricava le acque nel fiume Liri. L’aspetto paesaggistico della fase romana in cui più si evidenzia un panorama urbanistico complesso, formato di città vecchie e nuove, villaggi di piccole e grandi dimensioni, santuari extraurbani e un numero consistente di ville di ampia estensione, e quella coincidente con il corretto funzionamento dell’emissario artificiale inaugurato durante il regno dell’imperatore Claudio, magistralmente rappresentata nei bassorilievi della Collezione Torlonia, recentemente acquisiti al patrimonio pubblico.

La rovina dell’emissario claudiano, dovuta forse a eventi tellurici, accelerata anche dall’assenza di manutenzione della complessa opera ingegneristica, e la crisi del sistema politico-economico di Roma, ebbe come conseguenza la tracimazione delle acque del lago oltre i limiti controllati. Con il tempo gli abitanti tornarono ad arroccarsi sulle alture strategiche, riutilizzando in parte anche i recinti fortificati di età predomina. Intorno al Fucino conosciamo un ottantina di oppida o castella di dimensioni grandi (100 ha di Case di Carrito), medi (tra i 30 ha e i 14 ha come Civita d’Antino, Roccavecchia di Pescina), e piccoli (con una superficie tra 1 e 3 ha, come quello della Petogna), ubicati a varie quote dai 670 m ai 1700 m secondo la logica del controllo dei territori circostanti. Il recinto fortificato, realizzato in opera poligonale, era coerente con l’andamento delle curve di livello definendo un perimetro per lo più tendente al circolo o all’ovale. Era realizzato in grossi blocchi lapidei di forma irregolare sovrapposti senza malta sul terreno naturale opportunamente predisposto.

La superficie esterna dei blocchi era sommariamente sbozzata: pietre di minori dimensioni sono poste a riempimento degli interstizi tra i massi più grandi. Nel recinto si aprivano le porte di accesso all’area fortificata spesso organizzata su terrazze, attrezzate con cisterne per la raccolta dell’acqua piovana; in alcuni siti sono stati rinvenuti santuari che continuano ad essere frequentati anche dopo l’abbandono dell’abitato (La Giostra di Amplero). La tecnica poligonale era del resto in quest’area, nel IV-III secolo, un modo di costruzione largamente diffuso nella tradizione muraria del posto, sia nelle fondazioni locali sia in quelle coloniali come documentano le mura urbane di Alba, quelle di Lucus Angitiae, nonchè i terrazzamenti urbani pertinenti ad altre aree sacre (Lecce dei Marsi e Ortucchio), alcune sostruzioni stradali (via Valeria a Roccacerro e a Tagliacozzo) e gli argini del torrente Tavana a Lecce dei Marsi.

Nello specifico del problema dell’appartenenza della cd. prima cinta muraria di Alba Fucens alla fase coloniale e stata recentemente documentata dall’esito di scavi finalizzati al restauro di alcuni tratti. In particolare, nel lato della Porta di Massa, il materiale archeologico contenuto negli strati di fondazione ha restituito frammenti di ceramica campana relativi a piatti, ciotole, coppe e lucerne alcune di produzione locale altre di importazione in un contesto tipico degli ambienti romanizzati. Rimane aperto il problema della cinta più interna alla quale sarebbe collegato il bastione rasato e sostituito con la costruzione della prima cinta coerente con la fondazione della colonia.

La logica di successivi ampliamenti sulle pendici della collina dal versante occidentale sembra confermata dai due successivi interventi nei quali l’opera poligonale ammorzata nel cementizio va a definire una terrazza monumentale costruita in opera reticolata la cui funzione urbana sembra essere coerente alla tipologia dei complessi onorari di tradizione ellenistica. Questo quadro pone non pochi problemi di carattere archeologico e storico. Infatti se la costruzione o ricostruzione delle fortificazioni di Alba e la Munitio della via Valeria non creano problemi nel quadro dell’opera di colonizzazione dei territori controllati da Roma, qualche perplessità si pone nel caso di Lucus Angitiae, di cui non va sottovalutato il significato politico e religioso sia tra i Marsi, ma, generalmente, tra gli italici come documenta la diffusione del culto di Angitia. L’estensione della cinta muraria – qualsiasi fosse la parte occupata da costruzioni all’interno – non può essere giustificata con la definizione corrente di cittàsantuario sul cui significato urbanistico c’e molto da riflettere.

Del resto questo concetto e nel IV-III secolo, nell’area centro italica, piuttosto inconsueto, tanto più se riferito ad un territorio tradizionalmente caratterizzato dall’insediamento sparso. dalle informazioni ricavate dai ritrovamenti monetari si può evincere, una circolazione monetaria di monete romane e delle aree centromeridionali in cui prevalgono le zecche campane (cui si ispira addirittura la monetazione coloniale di Alba Fucens che conia L’argento con il sistema ponderale greco) La ragione di questo fenomeno storico va ricercata da un lato nel legame secolare tra le tribu affini di Equi e Marsi e quelle confinanti a sud di Volsci e Ernici, dove infatti ritroviamo l’attestazione del culto marso nella trasposizione Angitia-Anagnia, dall’altro nel precoce rapporto tra aristocrazie marse e famiglie gentilizie romane, la cui documentazione più eloquente e la famosa tessera hospitalis di Trasacco.

Si tratta di un oggetto di bronzo riproducente una mezza testa di ariete sulla cui metà interna si legge un’iscrizione che definisce il rapporto di ospitalita tra un T. Manlius romano e un personaggio marso dal nome T. Staiodius la cui famiglia, gli Staiedi, troviamo attestata in vari siti fucensi, ma anche in varie località della Campania e ad Atina, confermando, attraverso questo piccolissimo elemento, la ricostruzione storica di un quadro che vede l’area marsa come parte integrante di un’intensa rete di scambi culturali con le aree limitrofe e la Campania da un lato e con Roma dall’altro. Questi rapporti con Roma divennero particolarmente evidenti alla vigilia della guerra sociale come documentano gli stretti rapporti tra Vettius Scato marso e Pompeius Strabo romano e tra Poppaedius Silo e Livius Drusus. Il processo di integrazione dei nobiles marsi avvenuto durante il corso di molti anni attraverso i rapporti di scambio e con la politica delle alleanze matrimoniali, soprattutto con il gruppo degli aristocratici romani facenti capo a Mario, completo la trasformazione dei contenuti politici e religiosi propri dell’area in questione trasmettendo quel patrimonio di tradizioni artistiche che Roma aveva a sua volta assimilato dai suoi contatti con il mondo etrusco-laziale e campano.

I consolidati rapporti clientelari tra le famiglie preminenti dell’area marsa e le aristocrazie romane ripresero all’indomani della guerra sociale, confermando la più recente interpretazione di questo conflitto finalizzato all’acquisizione dello ius civitatis e i vantaggi politici ed economici da esso derivanti tra cui la possibilità di influire sulla politica di apertura di nuove vie all’espansione commerciale nel mediterraneo e all’emigrazione degli Italici. Si tratto in effetti per i Marsi della conferma di una linea politica unitaria già adottata precedentemente. Pur avendo in alcuni casi tutti i presupposti dell’insediamento urbano, alcuni vici non divennero mai urbs, fatta eccezione forse per Marruvium, dove però questo stato e sinora documentabile compiutamente solo per la fase posteriore la guerra sociale. A Marruvium la situazione giuridica vicana permane sino alla prima meta del I sec. a.C., tuttavia non possiamo ritenere che quella che fu la principale città dei marsi non avesse rilevanza urbana, soprattutto se si tiene conto del fatto che, tra le civitates foederatae, queste marse furono tra quelle più precocemente romanizzate, ciò in virtù, come abbiamo già visto, sia della centralita geografica che della contiguita con le colonie latine.

All’origine del centro di Marruvium e stato ipotizzato uno spostamento in pianura del villaggio fortificato di Roccavecchia di Pescina. L’abitato si formo all’incrocio della viabilità proveniente da nord con quella circumlacuale, nell’ambito del territorio di una comunità la cui unita etnica era al momento ancora molto forte, nella posizione più favorevole allo sviluppo, date le nuove condizioni politiche ed economiche. Il paese odierno di S. Benedetto dei Marsi, quasi completamente edificato dopo il terremoto del 1915, occupa interamente il sito della Marruvium romana. L’impianto urbano e stato individuato nel corso di scavi occasionali e, insieme al sistema viario ed alle infrastrutture, e da riferire ad una fase seguente la Guerra Sociale.

La città di Marruvium dovette ben presto assumere caratteristiche urbane di una certa entitk documentate dalle strutture riferibili a domus riccamente mosaicate, con affreschi parietali policromi e dalla ricca documentazione epigrafica che attesta monumenti pubblici. Alla fase Giulio-Claudia e da ascrivere la costruzione dell’anfiteatro e del teatro. Del primo, in cui sono stati recentemente condotti saggi conoscitivi, e stato possibile ricostruire il sistema costruttivo. L’ampiezza delle strutture, paragonabile con quelle di Alba Fucens e Teate, sembrerebbe documentare l’importanza del centro urbano cui dovettero fare riferimento gran parte delle popolazioni rivierasche. Questo ruolo egemone sul territorio, la cui origine va probabilmente ricercata in periodi precedenti, sottolineato dalla localizzazione delle strutture per spettacolo, sembra documentato anche dalla diffusione di particolari forme di artigianato artistico le cui botteghe sono forse da localizzare proprio a Marruvium.

Ancora chiaramente leggibili nell’assetto del centro attuale sono i due assi di attraversamento territoriale cui si riferì ancora nel XII secolo la costruzione della chiesa di S. Sabina, ad essi coordinata nell’orientamento. Un altro elemento caratteristico dell’uso del territorio di Murruvium e il tracciato della via circumlacuale il cui uso dovette proseguire, nonostante i gravi episodi di esondazione riportati dalle fonti, dal periodo tardo antico in poi. Mentre rimane dubbio il margine urbano verso est e verso ovest – privi peraltro come il resto della città – di tracce visibili delle mura urbane, due elementi ci documentano con evidenza l’estensione urbana: a sud verso il lago i due monumenti funerari, attribuibili anch’essi al periodo Giulio-Claudio, detti localmente Morroni, sono attestati lungo la viabilità che serviva la fascia extraurbana lungo il lago. Il piano regolatore antico la cui datazione va forse, sulla base di recenti acquisizioni tuttora in corso di scavo, rialzata almeno al primo decennio del I sec. a.C. era organizzata sull’incrocio di due assi di cui, come abbiamo appena detto, rimane traccia nella viabilità attuale delle via Romana via Pagliarelle.

Il primo rappresenta l’asse di percorrenza circumlacuale e il secondo dall’andamento sinuoso, denuncia la sua antichità rispetto all’attuale corso Vittorio Veneto in posizione centrale rispetto alla città attuale, che si e spostata verso ovest. Che il sito antico occupasse anche il lato destro della via Pagliarelle e evidente, oltre che dal toponimo Civita che proprio in quest’area si conserva, anche dai rinvenimenti archeologici attribuibili a domus della prima fase dell’impianto urbanistico. Una zona residenziale di notevole significato e quella che sta emergendo dallo scavo lungo il Corso Vittorio Veneto dove e ubicata un’abitazione caratterizzata da un grande atrio con impluvium, su cui gravitano ambienti mosaicati di altissima qualità artistica e di esecuzione, che per analogia con impianti coevi potrebbero essere datati ai primi anni del I secolo a.C.

La casa si dispone sul frontestrada con il lato più corto, gli ambienti si sviluppano sull’asse centrale atriotablino-peristilio a lato del quale si aprono una serie di stanze variamente decorate con pavimentazioni in tessellatum, signino e a tessere appaiate con elementi colorati. Le dimensioni degli ambienti nel loro complesso e in particolare dell’atrium e del tablinum dalla caratteristica forma allungata caratterizzano la domus in corso di scavo come una casa di notevole estensione.

L’abitazione viene strutturata secondo un progetto ben definito che in parte utilizza le precedenti strutture come appoggio degli alzati successivi. Questa fase edilizia coerente nella quale convivono motivi tradizionali e ”nuove creazioni”, si imposta su un precedente di cui non conosciamo abbastanza, che potrebbe collocarsi nel momento immediatamente precedente la guerra sociale documentando la presenza nella civitas foederata di Marruvium della residenza privata di grande impegno di un personaggio di rilievo nella compagine sociale dei marsi. Sappiamo del resto dei precoci rapporti delle aristocrazie marse con la nobilitas romana, cui va forse riferita l’ipotesi di entità urbane precedenti la municipalizzazione da più parti sostenuta purtroppo senza il supporto di una documentazione archeologica organica.

Va sottolineato il caso significativo della famiglia aristocratica dei Vettii Scatones, originari di Marruvium discendenti del famoso praetor Marsorum che sembra estinguersi dopo il 69 d.C. in concomitanza con la fase di abbandono della domus che difformemente da quanto osservato per altri edifici di Marruvium non subisce trasformazioni d’uso in età tardo antica. Il municipium in analogia con quanto avviene a Supino fu ristrutturato nell’età Giulio-Claudia quando fu costruito l’anfiteatro, le terme, la basilica e i quartieri residenziali più vicini alle rive del Lago, la cui irrigimentazione dovuta all’intervento imperiale, consenti in quegli anni, L’edificazione delle terre circumlacuali come e ben dimostrabile dalle costruzioni riferibili a domus individuate in località Civita con muri in opera reticolata e pavimenti in cocciopisto di tradizione ellenistica. Le fasi iniziali dell’impianto viario di Murruviam vanno poste nella tarda età repubblicana in accordo con la documentazione epigrafica.

Questo dunque potrebbe essere considerato il riflesso più evidente di quei dettami della sistemazione urbanistica dei municipia relativi alla fase immediatamente successiva alla guerra sociale. La programmazione urbana iniziale doveva aver coinvolto l’intera area del centro abitato, come dimostra la particolare collocazione dell’anfiteatro, situato dal lato opposto della città, probabilmente all’esterno delle mura. Al municipium di Marruvium fu assegnato il territorio a nord-est del lago: da Celano fino a Trasacco di cui sono evidenti tracce di centuriazione ancora visibili nella pianta del 1720 conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. I terreni recuperati con il prosciugamento del lago furono organizzati e sfruttati razionalmente come documenta la presenza di ville di notevoli dimensioni presenti sulle rive del lago. L’uso diffuso, nelle strutture edilizie ad esse pertinenti, dell’opera reticolata fa pensare che la fase di impianto sia coeva alla costituzione dei municipia e che in seguito al prosciugamento del lago esse abbiano goduto di una fase di notevole incremento.

Tra le più recenti acquisizioni in questo campo va posto lo scavo della villa in località Sedine di Pescina che ha restituito un frammento di una pregevolissima testa di Augusto in basalto verde di fabbrica alessandrina, una testa in marmo bianco bifronte con maschere teatrali e un’altra di piccole dimensioni da riferire ad un personaggio dionisiaco, ancora inedite. La villa, costruita su un terreno opportunamente terrazzato sulla riva nord del lago, in una località piuttosto amena nota con il toponimo di Villa d’Oro, in cui sembra di poter riconoscere tracce dell’organizzazione centuriale, è da attribuire ad un personaggio della famiglia degli Herennii attestati in tutto il Fucino, soprattutto ad Alba e nel territorio di Marruvium.

La memoria dell’insediamento probabilmente collegato ad un vicus rimane in età altomedievale nel nome S. Maria de Apinianico (attualmente la zona e nota anche con il nome di Appignanici) riferito ad un monastero esistente in questo sito sin dall’VIII sec. d.C. L’altro municipio fucense fu Anxa sorto sul luogo dell’antico santuario di Angitia. Il luogo della città identificabile chiaramente entro un grande perimetro che raccorda le pendici rocciose del monte Penna con le sponde del lago. La cinta fortificata e realizzata in opera poligonale in maniera del tutto analoga nella esecuzione a quella della vicina Alba Fucens. Le strutture poligonali non sono utilizzate solo per la cinta fortificata, ma anche, in parallelo con quanto avviene ad Alba, per i terrazzamenti che organizzano lo spazio urbano in relazione alla viabilità su cui si aprono le porte. E evidente la necessita di collegare e coordinare in uno spazio protetto gli elementi del paesaggio, le cime rocciose, il lago e il bosco sacro con le aree destinate sia alla residenza che alle attività pubbliche e religiose.

Il culto di Angitia, di cui ci e stata tramandata una lettura grecizzata, sembra essere progressivamente emerso da un fondo comune di culti collettivi legati agli antenati, le cui attestazioni nelle grotte nel bacino fucense risalgono al Paleolitico. Il carattere del culto solare ed insieme ctonio riporta all’ambito agrario e a quello funerario. già nel quarto secolo, in Campania, Angitia viene associata a Circe e Medea, figlia di Helios, confermando il suo carattere legato alla nascita e alla morte della luce solare. Essa infatti viene detta anche Diviu, nel senso di Celeste, e Cereria sottolineandone il legame con la divinità madre ctonia agraria e funeraria. La assimilazione di Angitia a Circe e Medea, che
come abbiamo visto nasce dalle sue caratteristiche legate alla luce diurna, fu recepita dall’antiquaria romana nei suoi aspetti legati alla magia attribuendo ad Angitia quelle caratteristiche di dea dei serpenti del tutto estranei al significato originale del culto.

Una particolare fortuna dovette godere – come nel resto delle aree italiche – il culto di Ercole, non solo come divinità legata alla pastorizia, ma anche come tutore delle attività mercantili. Tuttavia non e forse del tutto corretto attribuire ad Ercole la miriade di aree sacre caratterizzate principalmente dal rinvenimento di bronzetti raffiguranti il dio, cosi caratteristici delle nostre aree. Va invece presa in esame la possibilità di una complementarità di Ercole ad altre divinità come avviene per esempio proprio in area marsa nel Lucus Angitiue. E già stato notato che, ben prima di qualsiasi influsso romano, L’insieme di tradizioni religiose appartenenti alle popolazioni iraliche marse fu elaborato, e in qualche modo grecizzato, grazie agli intensi contatti tra la Campania e il Fucino. Questi contatti, sembrano particolarmente evidenti nell’introduzione tra i Marsi di alcune divinità greche, tra cui Ercole e i Dioscuri, per le quali e stata ipotizzata una mediazione etrusca.

Ad ambedue, la religiosità italica associa il culto tradizionale di Giove. Accanto a questo, da Come sembra essere pervenuto nel Fucino il culto di Apollo, documentato in un iscrizione da Trasacco datata al III sec. a.C. Al culto apollineo forse va riferito il toponimo Petogna-Pitonius collegato col serpente sacro al dio. Alla dedica Aplone, proveniente dal vicus Supinus, va collegata quella più monumentale del tempio albense sul Colle di S. Pietro, databile al III secolo a.C., in probabile associazione con Diana. E di recentissima acquisizione L’insieme dei dati archeologici e architettonici da riferire al culto praticato in un tempio sinora ignoto, scavato nell’estate 1998 in località ”Il tesoro” nell’area dell’antica Lucus Angitiae. In un sito molto suggestivo, ricavato regolarizzando le alte pareti rocciose, lisciate e adeguate, fu inserito l’impianto di un edificio templare su podio di notevoli dimensioni. La planimetria del tempio piuttosto insolita e caratterizzata da una doppia cella preceduta da un ampio pronao con scalinata frontale.

La data di realizzazione della struttura e da porre in relazione con le strutture in opera incerta e reticolata. Dai pochi dati raccolti dallo scavo che e certamente solo all’inizio possiamo ipotizzare che si tratti di uno dei templi più importanti della città santa, poichè è sistemato sulla viabilità principale di attraversamento della città antica, anche se per il momento escludiamo la possibilità che possa trattarsi del tempio di Angitia, divinità madre del luogo cui sarà stato riservato uno spazio localizzato in un luogo preminente della sistemazione urbana. La collocazione non lontana dal porto lacustre delL’edificio ora individuato e la presenza di altri ambienti forse riferibili ad una struttura di servizio al santuario, comunque connessa al tempio sembrano suggerire, vista la particolarità della doppia cella una dedica a due divinità complementari che in via del tutto ipotetica potrebbero essere riconosciute in Cerere e Venere largamente attestate nelle aree italiche come divinità protettrici delle funzioni femminili.

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