(Testi a cura del prof. Angelo Melchiorre)
La bibliografia sulla battaglia di Tagliacozzo (o di Scurcola, [Vedi anche la storia di Scurcola Marsicana] o dei Piani Palentini, o come altro la si voglia chiamare, è ormai sterminata. Dal famoso verso di Dante (cui si deve la consacrazione del nome) ad oggi, poeti e narratori e storici di ogni tendenza e di ogni nazionalità hanno ricordato soprattutto la patetica figura del biondo Corradino, sceso dalla sua Germania per riconquistare il proprio regno e costretto poi a subire una delle più impreviste e tragiche sconfitte della storia, con la conseguente sua decapitazione a Napoli.
Quel che a noi interessa, in questa sede, è solo la memoria dell’evento, e non le ragioni internazionali che l’avevano determinato, poiché queste sono state esaurientemente esaminate da eminenti studiosi italiani e stranieri, e non si giustificano in una storia regionale come la nostra. Riassumiamo i fatti, seguendo lo schema tracciato da Peter Herde in occasione di un convegno tenutosi nel 1968 a Tagliacozzo per ricordare il settimo centenario della battaglia.
La sconfitta di Corradino avvenne esattamente il 23 agosto del 1268, nei Campi Palentini, tra Scurcola, Magliano (o Carce), Albe e Cappelle. Egli era nato da Corrado IV di Hohenstaufen e da Elisabetta, figlia del duca di Erlauchten. Durante la sua infanzia, si erano avute feroci lotte per il potere nella Baviera tra i suoi due zii, Ludovico II ed Enrico XIII. Ludovico aveva preso sotto la sua protezione il giovanissimo Corradino, solo perché rappresentante degli Svevi. Quando Carlo I d’Angiò, il 6 gennaio 1266, era stato incoronato re di Sicilia per le sollecitazioni del papa Clemente IV, i Ghibellini avevano scatenato una forte opposizione, il cui momento cruciale si era avuto nella battaglia di Benevento, avvenuta il 16 febbraio dello stesso anno e conclusasi con la morte di Manfredi.
Nell’agosto del 1267 Corradino, incoronato imperatore, scendeva in Italia per riconquistare i propri domini di Sicilia. Con lui erano partiti Bavaresi, Svevi, Franconi, lo zio Ludovico e Federico Senza Terra, duca d’Austria. Arrivato a Roma, Corradino era stato accolto su Monte Mario da Enrico di Castiglia, fratello del re Alfonso e cugino di Carlo d’Angiò. Quest’ultimo, prima della sconfitta di Manfredi, aveva aiutato Carlo; ma poi, avendo cercato nel febbraio del 1267, senza riuscirvi, di farsi cedere dal re la Sardegna, aveva giurato di vendicarsi dell’affronto. Nel medesimo anno, in occasione di una rivolta popolare contro le istituzioni avvenuta a Roma, Enrico aveva ricevuto dal capitano Capocci la carica di senatore. Questo titolo gli consentiva di incontrarsi con Corradino e di stabilire con lui i piani di battaglia contro Carlo.
Sono queste, dunque, le premesse indispensabili per comprendere tutta quanta la vicenda, che si conclude tragicamente nello scontro sui Piani Palentini.
Nel mese di luglio del 1268, Carlo si reca in Puglia per combattere contro i Saraceni, che gli si sono ribellati. Poi, informato dai Guelfi romani e dalle sue spie circa i progetti di Corradino, alla fine del mese parte per andare incontro al nemico, passando per la via Valeria attraverso la Marsica. Il 4 agosto – come lui stesso racconta in una lettera inviata al papa il giorno successivo a quello della battaglia – si accampa presso Castrum Pontis. Questa località, oggi scomparsa, si trovava in prossimità di Scurcola e sorgeva presso un ponte di legno, posto sopra un torrente. La zona è ad est del monte Velino, e il ponte incrociava la strada che oggi unisce i paesi di Magliano e Antrosano, più o meno in corrispondenza del luogo dove lo stesso re Carlo farà costruire, dopo la battaglia, la chiesa di S.Maria della Vittoria.
Carlo d’Angiò, il 14 agosto, si accampa nelle immediate vicinanze di Scurcola. Quindi, essendo arrivato molti giorni prima del nemico, ha modo di conoscere a fondo il terreno per poter impostare in modo razionale la propria strategia.
Corradino, invece, dopo aver tenuto un consiglio di guerra, parte da Roma solo il 18 agosto, insieme con Enrico di Castiglia e i suoi mercenari. Passando per Tivoli, giunge ad Arsoli (che allora segnava il confine fra Stato della Chiesa e Regno di Napoli) e, successivamente, a Carsoli, nella speranza di poter ricongiungere le proprie truppe con quelle dei Saraceni ribelli.
Su questo percorso non tutti gli storici sono d’accordo, soprattutto circa l’itinerario finale, quello che Corradino segue da Carsoli in avanti. L’Oman, il Lot, il Salvatorelli, il Runciman ritengono che egli avesse seguito la via Valeria, passando pertanto per Tagliacozzo e Scurcola, fino a giungere ai Piani Palentini, dove, presso il ponte sul fiume Salto, sarebbe avvenuto lo scontro. Lo Herde, al contrario, in base ai documenti e all’osservazione diretta del territorio, cerca di confutare tale tesi e di stabilire con maggior precisione il percorso fatto da Corradino. Infatti – dice Herde – nella lettera inviata a Clemente IV, il re Carlo afferma che Corradino aveva attraversato il Cicolano (e non la via Valeria), con l’intenzione di raggiungere Sulmona, dove si sarebbe unito ai Saraceni provenienti dalla Puglia.
La sera del 22 agosto, Corradino si sarebbe accampato solo per una breve sosta tra il monte S.Nicola (vicino al paesello di Sorbo) e il monte Carce (a sud-ovest di Rosciolo e a nord-ovest di Magliano): tra due alture, cioè, che a settentrione delimitano la valle attraverso cui il fiume Salto esce fuori dai Campi Palentini. Quindi – soggiunge lo storico tedesco, è certo che Corradino era arrivato nei Piani Palentini attraverso la valle inferiore del Salto, e con la ferma intenzione di proseguire oltre; ma non si può stabilire con precisione quale fosse stata la strada che egli aveva percorso da Carsoli al Salto. Le fonti, infatti, non sono chiare in proposito; e l’unica ricostruzione possibile è quella effettuata in base all’osservazione diretta delle condizioni del terreno e all’esatta misurazione del tempo che Corradino avrebbe effettivamente avuto a disposizione. Noi saltiamo tutte le considerazioni di natura topografica e cronologica che lo Herde avanza per sostenere la propria tesi, e riportiamo soltanto le conclusioni: la battaglia, cioè, si sarebbe svolta non presso il ponte in muratura esistente sul fiume Salto (come, invece, sostengono gli altri storici), bensì nelle vicinanze di un altro ponte in legno, posto sopra un ruscello – il Riale – che scorre nelle vicinanze di Castrum Pontis.
Si tratta, come si vede, di questioni abbastanza oziose, dal punto di vista puramente storiografico, ma che acquistano rilievo sotto altri aspetti: quello strategico-militare, ad esempio, sul quale ha condotto un breve ma succoso studio il generale di Corpo d’Armata Alvaro Rubeo (il lavoro è stato pubblicato nel 1978. D’altra parte, l’aspetto più interessante della battaglia di Tagliacozzo è proprio quello tattico-strategico, dal momento che la vittoria finale spettò non al più forte in campo (Corradino), ma a colui che aveva saputo sfruttare più abilmente e più spregiudicatamente le condizioni del terreno. Dopo che Carlo aveva ricevuto i vettovagliamenti dall’Aquila, i due eserciti si erano schierati in posizione di combattimento, al di qua e al di là del fiume. Le truppe di Carlo, forti di circa tremila uomini, erano formate da provenzali, francesi e italiani (toscani, lombardi e campani) ed erano comandate da Enrico di Cousance, maresciallo del re, il quale, per meglio ingannare i nemici, indossava le insegne reali.
L’esercito di Corradino poteva contare su un numero maggiore di armati, ben cinquemila (tedeschi, italiani e spagnoli), che erano stati divisi in tre schiere: la prima agli ordini di Federico di Baden e dello stesso Corradino, la seconda comandata da Galvano Lancia e la terza da Enrico di Castiglia. Carlo, che era inferiore di numero, fu consigliato dal prode ed esperto cavaliere Erasmo (o Alardo) di Valery, reduce di Terrasanta e vecchio di età e di senno guerresco, a porre una riserva di ottocento cavalli coi più fedeli baroni e coi migliori cavalieri, in un agguato, vicino al luogo della battaglia”. Il posto preciso non è stato individuato dagli storici, ma già Buccio di Ranallo, nella sua dialettale Cronaca aquilana, così scriveva:
“Quillo stava imbuscato e non con troppa gente;
Non sapeano li nemici, dove stesse, niente:
Stava ad le Cappelle sapiate veramente,
Sentendosi lo aiuto uscì arditamente”.
“Le indicazioni di Buccio – secondo Paoluzi – fanno riconoscere in Monte Felice o in Montecchio, vicino a Cappelle, sulle falde del Salviano, il luogo dove Carlo e Alardo si posero in agguato colla riserva per sbucarne a tempo opportuno. Altri invece lo fissano in pianura, tra Antrosano e Albe, tanto più che essendo quel sito in quei tempi boscoso, si prestava assai facilmente ad un’imboscata.
La battaglia si accese, dunque, la mattina del 23 agosto. Il primo a muoversi fu Enrico di Castiglia con i suoi cavalieri spagnoli, e si diresse contro Enrico di Cousance, credendolo re Carlo. Dopo una violenta mischia, si sparse per tutto il campo la notizia che il re Carlo era stato ucciso, notizia che suscitò l’entusiasmo dei tedeschi e lo sgomento dei francesi. Iniziò l’inseguimento degli sconfitti, mentre il vero re Carlo, dal suo nascondiglio, attendeva il momento opportuno per intervenire con le sue forze fresche. Quando il vecchio Alardo si accorse che gli spagnoli di Enrico di Castiglia si erano allontanati dal campo per inseguire i nemici verso la montagna, fece muovere Carlo dal suo posto e, insieme, si scagliarono sulle schiere in disordine di Corradino.
“Il misero giovinetto col cugino Federico, che se avessero (…) ancora resistito in attesa degli spagnoli avrebbero forse vinto, se ne fuggirono invece attraverso i monti ed i boschi Simbruini verso Roma e pervennero al castello dei Frangipani.” Questa fu, dunque, la famosa battaglia di Tagliacozzo, che decise di un regno e fu una svolta assai importante nella storia del Mezzogiorno d’Italia. La domanda che ci si pone, a questo punto, è l’unica alla quale gli storici non hanno finora risposto: e, cioè, perché la battaglia tra lo svevo e l’angioino sia avvenuta proprio in Abruzzo, e non altrove. Si potrebbe subito rispondere che la scelta della località fu del tutto casuale, ma tale spiegazione non sembra affatto convincente, se è vero che Carlo d’Angiò -come abbiamo già ricordato – era giunto nei Piani Palentini molti giorni prima dell’arrivo di Corradino. Possiamo noi azzardare alcune ipotesi, nessuna delle quali tuttavia è pienamente verificabile. La prima è quella secondo cui fosse stato proprio Carlo d’Angiò a scegliere le zone più impervie dell’Abruzzo, sia perché le più adatte a fermare un esercito così numeroso e così agguerrito qual era quello di Corradino, sia perché generalmente la regione (e Aquila in particolare) si era dimostrata favorevole agli Angiomi, sostenitori di una politica decisamente antifeudale o, per lo meno, ostili a quella antiquata mentalità feudale di cui erano stati paladini, fino a quel momento, gli Svevi.
La seconda ipotesi è che, invece, fosse stato Corradino a scegliere la strada dell’Abruzzo, che gli avrebbe consentito di prendere alle spalle il re Carlo, il cui obiettivo era naturalmente il sud (Napoli e la Sicilia), dopo essersi ricongiunto con i Saraceni suoi alleati. La terza ipotesi è quella secondo cui la vicinanza del confine pontificio avesse spinto entrambi i contendenti a preferire una zona, che consentisse la fuga (e la salvezza) in caso di sconfitta.
La quarta e ultima ipotesi è di natura prettamente geografico-logistica: essendo impedito, infatti, il passaggio attraverso la gola di Ceprano (come scrive il Palma), l’unica strada consentita era proprio quella della Marsica e dell’Abruzzo montano.
Risposte più precise, invece, sono state date ad altri quesiti, di carattere più generale; quale fosse, cioè, il quadro europeo entro il quale si mossero e si scontrarono i due contendenti; e come debbano essere interpretate, dal punto di vista morale e politico, le due figure, di Corradino e di Carlo d’Angiò. In un recente convegno (anno 1987), tenutosi a Tagliacozzo, il prof. Ludovico Gatto ha inserito la vicenda di Tagliacozzo in un quadro interpretativo più ampio, mostrando come la lotta tra i due sovrani non possa essere considerata un semplice fatto dinastico o di potere, bensì un fatto culturale e politico di più ampia portata: quello dello scontro secolare tra il guelfismo e il ghibellinismo europei, tra la Chiesa e il Papato. Il prof. Sanfilippo, nel medesimo convegno, ha voluto delineare, nelle sue caratteristiche fondamentali, la personalità di Carlo d’Angiò, “cercando dì spiegarne la leggenda nera: un principe duro, crudele, facile all’insidia e alla feroce repressione, non per naturale inclinazione, ma perché questo vuole il potere”.
Sulle conseguenze, determinate dalla vittoria angioma, abbastanza positivo è stato il giudizio dei due relatori; ma il Palanza corregge quanto da loro espresso, scrivendo testualmente: “In parte Sanfilippo ha ben difeso la sua tesi (…), ma meno siamo con lui se ricordiamo come furono angariate di tasse le popolazioni, furono distrutte le buone istituzioni amministrative introdotte da Federico Il, scomparve la civile tolleranza, si spense lo splendore culturale”.