LA MARSICA DURANTE IL FASCISMO E LE GUERRE MONDIALI (il massacro di Capistrello)

In quello scorcio di fine maggio, in una zona ristretta, circa un chilometro quadrato, nella zona del Parco, sotto una pianta di ciliegio, un uomo di quarantacinque anni, Carlo Zaurrini, veniva trovato ucciso. I primi ad alzarsi dettero l’allarme. Una pallottola gli era entrata in un occhio, un’altra in un orecchio, il petto era crivellato; aveva una camicia per meta tirata fuori, i pantaloni sbottonati e insanguinati. Fece grande impressione e creo ancora maggiore angoscia e paura. Spinse un altro folto gruppo di contadini e di giovani ad andare in montagna con le loro bestie, con qualche arma, insieme ad alcuni prigionieri indiani.

Erano gli ultimi giorni della guerra, e questi poveri contadini intendevano mettere in salvo il proprio bestiame ed evitare che i tedeschi e i fascisti potessero perpetrare rappresaglie sulla popolazione per la loro resistenza contro la soldataglia. Molti partirono all’improvviso, di notte, dopo aver dato un frettoloso abbraccio ai familiari; tutti pensavano di poter tornare presto, liberi, per ricostruire la città e lavorare i campi. Tutti avevano una grande speranza nel cuore, invece molti non tornarono, non rividero più i loro cari. Fu un giorno infausto, il giorno della SS. Trinità, il 4 giugno del 1944. La mattina, verso le sette, i contadini sulle montagne di Luco erano intenti a mungere le pecore; altri accudivano ad altre faccende, qualcuno di guardia era distratto. All’improvviso una voce straniera disse qualcosa, tutti si voltarono e videro facce di stranieri e di traditori, tutti con l’arma puntata.

Nessuno si poté muovere. Gli armati ordinarono qualcosa, tutto a bassa voce, evidentemente avevano paura degli altri contadini sparsi per la boscaglia. La colonna si incammino. Un tedesco ordino a dei fascisti di prendere le bestie; questi, per la fretta e la paura ne presero solo una parte e seguirono la colonna. I contadini e i prigionieri incolonnati, con le mani alzate camminavano, sperando ognuno di trovare il posto più adatto per fuggire. Ma più avanti erano altri tedeschi e fascisti che rafforzavano la colonna di guardia. La ribellione e la fuga risultarono impossibili. I trentatre contadini e i prigionieri furono portati nella rimessa della stazione ferroviaria di Capistrello. Tre tedeschi ebbero un breve colloquio ed uno di loro indico una fossa di bomba antistante lo stabile, 1’altro annui. La terribile decisione era presa. I contadini vennero fatti uscire ad uno alla volta. Venivano portati sull’orlo della fossa e due gendarmi, a breve distanza, sparavano alla nuca, Cadde il primo, cadde il secondo, il terzo contadino tento la fuga, scappo, a dieci metri lo raggiunse una scarica e rimase li: il nome e Giacomo Cerasani di quarantasette anni. Venne il quarto, poi il quinto, il sesto; si era fatto gia un mucchio. Dallo stabile si senti una voce di fanciullo strillare, era Giuseppe Forsinetti, di tredici anni. Questo gridare dava fastidio ai camerati. Ordinarono di prenderlo, per farlo fuori subito. Nello stabile ci fu resistenza, ma invano.

Lo zio del ragazzo, Antonio Forsinetti, non volle abbandonarlo e gli si aggrappo e, cosi, nell’orlo della fossa, si videro due sagome disuguali. Fu la volta di un contadino con baffi, robusto, con fronte alta. Sono i segni di riconoscimento di Cipriani Angelo, caporalmaggiore dell’esercito, di anni quarantaquattro. Uno dei pochi contadini anziani piuttosto istruito. Questo uomo grido con tutte le sue forze: «Viva l’Italia! A morte i tedeschi!» Uscirono due uomini: erano i fratelli Rosini, Alfonso di quarantatre anni e Loreto di anni quaranta; caddero nella fossa tenendosi per mano. Cosi li trovammo dopo otto giorni dalla fucilazione. Seguitarono ad alternarsi sull’orlo della fossa della morte gli altri, in prevalenza giovani di sedici, diciassette, diciotto anni. Passarono i giorni, furono pianti. Finche il giorno dell’arrivo degli alleati si scopri la macabra sciagurata realtà.
La conferma di quanto contenuto nell’articolo e data anche dal fatto che il ”vecchio” che racconto all’autore, allora giovinetto, ha ripetuto tale racconto fino alla morte. Di ciò da conferma l’ex sindaco di Capistrello, Marcello Venditti, che ci informa che il ”vecchio” faceva di cognome Scatena ed era detto ”il biondo”.

Testimonianza di Fedele Luigi unico sopravvissuto

Siamo all’inizio del mese di giugno del 1944, in piena guerra. Avezzano e la zona circostante sono sottoposti a continui bombardamenti da parte degli americani che tentano di colpire le truppe tedesche in ritirata. Io e la mia famiglia, insieme con molte altre di Avezzano, avevamo trovato rifugio in alcune baracche, ai piedi della montagna, che sull’altro versante sovrasta la cittàdina di Capistrello. E il 2 giugno, insieme al mio amico Giovannino decidiamo di allontanarci dalla baraccopoli per tentare di sottrarre i miei due cavalli e il suo mulo alla razzia dei tedeschi, che al loro passaggio mettevano in atto un’azione di sabotaggio nei confronti della linea ferroviaria, dei pali dell’alta tensione, delle strade e come se non bastasse, si impossessavano del bestiame e di tutto ciò che aveva un qualche valore e che fosse trasportabile.

Ci rifugiammo sulla montagna di Luco dei Marsi, poco distante in linea d’aria dalle baracche, qui trovammo altre persone che avevano avuto la nostra stessa idea. Passarono due giorni, la mattina del 4, il sole era gia un po’ alto sulla cima della montagna, il che equivaleva ad un’ora compresa tra le 8.00 e le 8.30; tra di noi c’erano alcuni pastori con le loro pecore, stavano preparando il formaggio mentre noi altri con il siero cercavamo di ammorbidire quel poco di pane vecchio che ci doveva servire da colazione. In quel frangente un gruppo di tedeschi catturarono un pastore, noi tentammo di nasconderci mimetizzandoci tra la boscaglia, ma ben presto fummo circondati e perquisiti sotto la minaccia delle armi.

Ci misero in fila indiana, lungo una mulattiera, un vecchio percorso tracciato dai contrabbandieri, che portava a Capistrello. La fila era composta in modo che ogni quattro o cinque di noi era interposto un tedesco; con quel poco di italiano che conoscevano ci rassicurarono: ”Niente paura prendere solo pecore”. Non so che cosa pensassero gli altri in quel momento; io avevo un solo pensiero: non potevo permettermi di perdere i cavalli, erano l’unico mezzo per poter lavorare la terra e dar da mangiare alla mia famiglia. Ad un certo punto la mulattiera faceva una curva a gomito ed io mi ritrovai coperto alla vista del soldato che mi seguiva, mentre quello che mi precedeva era di spalle; stavo per scappare ma con la coda dell’occhio mi accorsi di aver perso l’attimo buono.

Alla curva successiva si ripresento la stessa situazione e stavolta mi feci coraggio e mi gettai al di la di un cespuglio portandomi dietro uno dei cavalli. Rimasi in quella posizione scomoda fino a quando l’ultimo tedesco non supero la curva, continuando a tenere il berretto sulla bocca del cavallo impedendogli di nitrire. Allora tornai indietro, fino al punto in cui ci avevano catturato, per recuperare alcuni arnesi, poi mi diressi verso Luco, dove mi rifugiai in un casale, perché intanto era scoppiato un forte temporale.

Alle quattro del pomeriggio del 4 giugno 1944, festa della SS. Trinità, una violentissima grandinata si abbatte sul Fucino, contemporaneamente, nei pressi della stazione di Capistrello, trenta uomini, tra cui un ragazzo di tredici anni, venivano fucilati: uno per volta, con un colpo alla nuca, sul bordo di una fossa scavata da una bomba, una fossa che fece da bara per tutti. Tornato alle baracche, tutti mi chiedevano notizie dei loro cari, io li rassicuravo in buona fede, dicendo che i tedeschi volevano solo il bestiame e quindi presto li avrebbero rilasciati; intanto uno dei muli era tornato, da solo, senza il suo padrone.

La tragica notizia arrivo solo cinque giorni dopo, il 9 giugno; una serie di grida disperate si alzo dalle baracche, alcuni, armatisi di coraggio, erano andati fino a Capistrello ed avevano riportato la notizia. Io sono l’unico sopravvissuto di quell’assassinio di massa, sono qui e posso raccontarlo, posso anche fare una valutazione sulla guerra e su ciò che rappresenta: penso che sia la cosa peggiore che la mente umana abbia mai partorito, fonte di lutti, privazioni, soprusi su altri uomini, e qualcosa che calpesta il bene più prezioso delle persone, la dignità umana.

Dopo molti anni si riapre la possibilità di fare piena luce sull’eccidio di Capistrello e sulla possibilità che i colpevoli siano chiamati a risponderne di fronte alla giustizia. Finora le prove che abbiamo sono rappresentate dalle lettere degli ex soldati tedeschi, che vengono pubblicate integralmente in questo capitolo e dal resoconto dell’incontro avvenuto il 20-12-’93, a Monaco di Baviera, nella casa dell’ex caporale Siegfried Oelschlegel, oggi prete. Dalla documentazione acquisita scaturiscono tanti interrogativi e cioè:

1) Come mai dopo quarantadue anni dei soldati tornano in un piccolo paese se vi sostarono solo poche ore?

2) Due ex caporali tedeschi tornano a Capistrello, dopo quarantadue anni, nel 1986 e vanno a fotografare una casetta di quelle che i contadini costruiscono per gli attrezzi da lavoro ai margini della loro vigna (trattasi di costruzioni di quattrocinque metri quadrati, alte circa due metri). Questa casetta, oggi distrutta, si trovava un bel po’ distante dalla stazione ferroviaria, sulla strada che porta alla montagna, dov’erano i contadini presi e trucidati (vedi ultima parte della lettera, datata 12-12-’87 ”aggiunta e complemento”). Alla richiesta di spiegazioni del Sindaco (lettera 7-3-’87) i due tedeschi rispondono inviando, fra l’altro, la foto della ”casetta”, qualificandola come un bunker dove ancora nel 1986, precisano i tedeschi: ”c’era persino un qualcosa che somigliasse ad un letto (sic!) e dal quale bunker i partigiani informavano gli alleati delle posizioni dei tedeschi, per farli bombardare”. Come si può constatare si tratta di una giustificazione non richiesta. Excusatio non petita accusatio manifesta.

3) Ed ancora: i tedeschi fecero un’azione di rappresaglia per i bombardamenti subiti, pero non fummo noi ad effettuare la rappresaglia, ma altri che passarono otto giorni dopo, provenienti da Cassino. E elementare obiettare: non regge la tesi che un reparto in fuga, il 4 giugno, quando gli angloamericani entravano a Roma, anziche proseguire la fuga verso Rieti e Ascoli Piceno, si fermano a Capistrello, si fanno tre ore a piedi (fra andata e ritorno), per una montagna che non conoscono e piena di pericoli, prendono trentasei persone, le portano a valle e ”perdono” anche tempo ad ucciderle, una ad una, col colpo alla nuca, anziché eliminarle con sventagliate di armi automatiche.

4) E ancor più non regge questa tesi, se si vuole accreditare che questi altri soldati in fuga, lo avrebbero fatto per vendicare i loro commilitoni, morti otto giorni prima, a causa dei bombardamenti, di cui, forse, non erano neanche a conoscenza. E per di più avrebbero dovuto vendicare dei soldati che loro neanche conoscevano, morti mentre i loro compagni di reparto si erano messi in salvo, otto giorni prima. L’ex caporale attualmente parroco Siegfried Oelschlegel, dopo aver scritto e difeso queste tesi, nell’incontro di Monaco, si arrende all’evidenza e si dice convinto che l’eccidio possono averlo fatto solo coloro che erano di presidio a Capistrello, ed aggiunge (giustificazione non richiesta) ”pero noi partimmo il 27 maggio… L’ex caporale, attuale parroco, scrive al sindaco di Capistrello, (lettera 12-12-’87) che sarebbe ”allettante” poter curiosare nell’archivio del Comune per cercare il giudizio del suo superiore di allora, e aggiunge: ”forse, la lettura di esso, fatta oggi, potrebbe rendere superflua una psicoterapia”.

5) Come può pensare un uomo colto, un parroco, di trovare dopo cinquanta anni, in un piccolo comune, un archivio di un piccolo reparto militare di passaggio, che sosta solo poche ore in quel comune? Allora, il reparto cui apparteneva l’attuale parroco, non era di passaggio, ma di stanza a Capistrello, con sede nella stazione e nella vicina galleria. Ciò sarebbe confermato anche dalla citazione dei numerosi cuochi che risiedevano nella galleria e che aiutarono (come scrivono i due tedeschi) a seppellire i morti tedeschi, mentre si sa che un piccolo drappello in ritirata non ha ”cuochi”.

6) E ancora: come può un ex soldato, dopo cinquanta anni, dover ricorrere alla psicoterapia, di cui potrebbe fare a meno se ritrovasse il giudizio del suo ex superiore, il cui contenuto gia conosce? Se e il contenuto del giudizio ad imporre la psicoterapia, allora che abbia o no il pezzo di carta in mano nulla cambia. 0, invece, il nervosismo che impone la cura e alimentato dal timore che in tale documento possa risultare qualcosa di sgradevole, o pericoloso, per chi ne e oggetto?

7) Ma l’attuale parroco non finisce di stupire, poichè, mentre con la lettera del 12-12-’87 chiede di poter cercare oggi il giudizio del suo ex superiore su di lui, nel documento che a suo tempo rimise all’Istituto di storia militare di Friburgo afferma: ”Tra le macerie ritrovai il giudizio del mio ufficiale, che fu duro e deludente nei miei confronti”.

8) Ma se sotto le macerie del bombardamento l’attuale prete ritrova il giudizio del suo ufficiale, allora vuol dire che almeno un ufficiale era con lui e con loro, appunto perché l’ufficiale portava con se il ruolino del comando, dove trascriveva, fra l’altro, le note riguardanti i subalterni. E se e cosi, come scrive l’ex caporale, attualmente sacerdote, come può lo stesso lamentare, nella stessa lettera, che nessun ufficiale si era fatto vedere?

9) Infine: come si concilia l’affermazione dei due ex caporali, di essere stati a Capistrello poche ore, con quanto scrive l’attuale parroco e cioè: ”Ancora oggi mi meraviglia, la calma con la quale restammo a Capistrello, senza pensare una sola volta agli americani che avanzavano con i loro carri armati. Fu leggerezza o presunzione? Oppure solo calma? Nessun ufficiale passo mai per dare una controllata, che secondo me avrebbe fatto bene a fare”.

Osservazioni:

Se fosse vero che erano partiti il 27 maggio, apparirebbe improprio il riferimento alla ”meraviglia” per ”la calma” di fronte ai carri armati che avanzavano. Quando si sa che questi arrivarono il 10 giugno. Allora e vera la nostra supposizione, che costoro erano a Capistrello il quattro giugno? E infine, se era un reparto di pochi uomini, in sosta per poche ore, come potevano attendersi la visita di qualche ufficiale, come lamenta l’ex caporale – oggi sacerdote. Vuol dire che il reparto di costoro era di stanza a Capistrello e c’era anche il 4 giugno?

Quindi costoro sanno e tacciono?

Nell’incontro di Monaco, non potemmo formulare accuse, ma solo chiedere un aiuto per appurare la verita. Dopo tante insistenze e dinieghi il parroco si ricorda che c’era anche un certo prof. Dieter Sehmann, oggi medico a Colonia. Tutto quanto e stato finora accertato e rimesso al giudizio dei lettori. In coscienza, per quanto gli indizi possano contribuire a farsi delle convinzioni, essi non costituiscono prove sufficienti per formulare un atto di accusa preciso. Continuerò la mia ricerca insieme al sindaco di Capistrello e a quanti potranno associarsi in questa opera. Comunque, per gli indizi contenuti nella documentazione acquisita e qui pubblicata, perché si faccia piena luce e si perseguano i responsabili secondo la legge ho rimesso il tutto: – Alla Procura della Repubblica di Avezzano – Alla Procura Militare – Roma – Al Ministero degli Esteri – Roma – Ai Ministri della Giustizia e della Difesa della Repubblica Federale Tedesca – Bonn Per conoscenza questi atti sono stati trasmessi anche ai sindaci dei Comuni i cui cittadini furono trucidati: Capistrello, Avezzano, Canistro, Borgorose, Luco dei Marsi.

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