Il mio servizio militare, mentre la guerra era gia in atto da oltre due anni, ha avuto inizio con una destinazione sbagliata. Il giorno 17 settembre 1942 quattro giovani di Balsorano fummo chiamati alle armi. Eravamo io, Pasquale Tuzi (della famiglia Cipinto), Pietro Rossi (della razza di Mangia) e Antonio Rossi (figlio di Mariuccia Fusaro). Dal Distretto militare di Sulmona io e Pasquale fummo assegnati al Deposito del 26’ Rgt. Fanteria a Latisana, vicino Monfalcone e Pietro e Antonio ad altri corpi. Alla stazione di Sulmona, scambiando Latisana per La Pisana, ci dissero che dovevamo recarci vicino Roma, ma mentre eravamo in viaggio verso questa citta, il caporal maggiore che ci accompagnava, informandosi meglio, capi che la destinazione era in alta Italia. Datosi che ero fidanzato con una ragazza di S.Vittore del Lazio, che intendevo rivedere e che era a Balsorano, prima di arrivare alla fermata della stazione ferroviaria di Avezzano chiesi al caporal maggiore di lasciare scendere me e Pasquale, ma egli sorridendo ci disse che eravamo matti.
Non appena il treno si fermo e mentre il caporal maggiore si era posto vicino allo sportello di uscita, io e Pasquale abbassammo il vetro del finestrino, buttammo gli zaini e ci calammo anche noi. Poco dopo, alle 10, prendemmo il treno per Roccasecca; non venne nessuno a controllare i biglietti e tutto ando liscio. Prima di arrivare alla stazione di Balsorano, dal rettilineo notammo due carabinieri. Se fossimo stati presi ci avrebbero portati in caserma e, senza farci nemmeno salutare i parenti, ci avrebbero rispediti a Sulmona. Per non essere visti, una volta che il treno si arresto, scendemmo dalla parte opposta, rimanendo nascosti dietro le piante. A quel punto, andati via i carabinieri, Pasquale si avvio lungo la ferrovia per raggiungere la propria abitazione ed io feci un’altra strada per arrivare a casa. Appena bussato alla porta venne ad aprire mia madre: rimase stupita nel vedermi e chiese perchè fossi tornato. – Mi hanno rimandato a casa! – risposi. – Con lo zaino? – replico lei. Mio padre che era più astuto e pratico capi che ero scappato; intuita la gravita del fatto mi invito a ripartire il giorno appresso. Gli detti retta e mi misi d’accordo con Pasquale. Ripartimmo alla volta di Roma con il treno delle 15,30 senza fare il biglietto. Prima di S.Vincenzo Valle Roveto passo il controllore.
Noi gli mostrammo il foglio di viaggio che era da Sulmona a Roma, che, naturalmente non era valido da Balsorano ad Avezzano. Insistette molto per farci fare il biglietto, altrimenti ci avrebbe consegnati alla polizia ferroviaria, ma noi fummo altrettanto decisi a non farlo. La spuntammo noi e ad Avezzano prendemmo un treno diretto alla Pisana. Qui ci stava aspettando un caporal maggiore che ci porto in una sala dove erano in attesa altri soldati. Ci condussero al deposito e ci fecero indossare la divisa militare. Ci fornirono di gavetta, cucchiaio e forchetta e prendemmo il rancio serale. Le gavette erano maleodoranti e pertanto quasi tutti fummo costretti a buttare la cena. Il giorno dopo prendemmo il treno diretto a Trieste ed il viaggio fu molto lungo. Arrivati, fummo presi in consegna da un caporale il quale ci condusse alla caserma ”Porto Franco”. Qui la fame si tagliava con l’accetta.
Il primo novembre riconobbi, tra i militari, mio fratello Sabatino il quale faceva parte della Milizia Volontaria e che quando io partii si trovava a Roma. Fummo molto contenti di ritrovarci ed ambedue chiedemmo un permesso per trascorrere qualche ora insieme. Andammo a mangiare in una trattoria e parlammo della nostra casa, dei genitori e della guerra la cui fine non arrivava mai. Ci accorgemmo anche che i civili guardavano male verso di lui perchè indossava la camicia nera. Scaduto il permesso ci lasciammo con tanto rammarico e mi disse che era in attesa di una licenza da trascorrere in famiglia. Gli chiesi, allora, di portarmi al ritorno qualcosa da mangiare. Egli qualche giorno dopo usufrui della licenza e quando torno venne di nuovo a trovarmi portando con se una pagnotta di pane casereccio di oltre tre chili, del formaggio e anche di un poco di prosciutto.
Si era fatto tardi e chiesi al mio comandante di autorizzarlo a trascorrere la notte con me, nella mia camerata. Parlammo un po’ e lui si addormento. Io, invece, sentendo l’odore del formaggio fatto da mio padre e del pane fragrante confezionato da mia madre non riuscivo a prendere sonno. Avevo l’acquolina in bocca e lo stomaco che reclamava. Stando coricato sulla brandina incominciai ad addentare pezzo per pezzo un po’ di tutto. L’indomani mio fratello, che era più grande di me, prima di tornare al reparto di appartenenza, esclamo: – Mi raccomando, il pane ed il companatico fattelo bastare per diversi giorni! Arrossii e ne me chiese il motivo. Dal mio sorriso imbarazzato capi che avevo mangiato quasi tutto durante la notte. Non avemmo più occasione di incontrarci fino al ritorno a Balsorano a guerra finita. Restai a Porto Franco per un paio di mesi e poi ci trasferirono a Villa Opicina, in una caserma nuova.
Durante il giorno, tra le tante esercitazioni, quella che più mi colpi consisteva in una gara facoltativa di velocità. Il percorso era molto difficile e comprendeva l’attraversamento di depressioni molto profonde, delle vere e proprie buche nel terreno, larghe circa 500-600 metri e profonde 80-100 metri. Il vincitore riceveva un piccolo regalo ed io vincevo quasi sempre. Il 22 dicembre 1942 si disputo una gara di percorso di guerra; il vincitore sarebbe andato in licenza premio a casa. I concorrenti eravamo 150. Partivano tre per volta e soltanto il primo si qualificava, gli altri due venivano scartati. Alla fine rimanemmo in tre: io, un calabrese di nome Calderone ed un settentrionale di nome Montanini. La gara fu vinta da me, ma non tornai in licenza perchè, a giudizio del colonnello comandante, il tragitto per venire a Balsorano e tornare al reparto era troppo lungo. Egli strappo la mia licenza.
Già pronto per partire, rimasi incredulo e deluso. Successivamente il capitano mi fece chiamare; speravo ancora nella licenza, ma egli, mostrandomi il foglio strappato dal colonnello mi riassicuro che alla riapertura delle licenze il primo ad andare a casa sarei stato io. Si riaprirono le licenze ma per l’assenza del capitano, io non ne potetti usufruirne e cosi dovetti definitivamente rinunziare alla speranza anche perchè le licenze furono totalmente chiuse. Qui a Villa Opicina ricevetti una lettera della fidanzata che mi prostro molto. Qualsiasi altro militare al mio posto sarebbe rimasto ben contento della notizia avuta ma a me fece l’effetto di una mazzata sul capo. E perchè? Perchè la ragazza di San Vittore non l’amavo, non ne ’ ero innamorato pur se tra noi vi erano stati dei rapporti intimi. Non appena lessi la lettera ed un certificato medico allegato avvertii un senso di fastidio che mi sconvolse tutto; lei esprimeva tutta la sua gioia ed il certificato attestava che la ragazza era incinta di tre mesi! Mi sedetti su un gradino per schiarirmi le idee e fui notato dal sottotenente Migliorini, il quale mi si avvicino: – C’e qualcosa che non va, Tuzi? – mi chiese. Non risposi e girai gli occhi dall’altra parte. Allora lui mi tolse la lettera dalle mani e la lesse. Lesse pure il certificato medico e, ridendo, continuo: – Bello sporcaccione sei stato; ed ora cosa intendi fare? La devi sposare, ecco che ti rimane da fare! Poi, fattosi più serio aggiunse: – Questo certificato medico non ha alcun valore perchè non porta il visto dei carabinieri del tuo paese! Mi rincuorai e man mano che i giorni trascorrevano, passarono anche le mie preoccupazioni. Infine le scrissi una lettera per dirle che dubitavo molto delle sue affermazioni e del certificato medico. Aggiunsi anche che non poteva più contare sul mio amore perchè con la guerra in corso i nostri destini avevano preso delle vie ben diverse. E venne l’ordine di partire per la Russia. Qualche giorno dopo fummo imbarcati a Fiume, ma diretti, invece, in Iugoslavia.
La mattina della partenza, essendo stati avvistati, nei pressi del porto, alcuni sommergibili inglesi ci fecero indossare i salvagente, ma il viaggio si svolse senza inconvenienti anche se la paura di qualche attacco improvviso ci teneva in agitazione. Sbarcammo a Sebenico dove prendemmo una tradotta militare che ci condusse a Spalato. Qui ci venne assegnata la zona di presidio dei ”Sette Castelli”.Con altri sei soldati fui incorporato nel 3’ battaglione, con l’incarico di capo postazione. Uno dei sei era di Campobasso della classe 1922 il quale mi insultava spesso perchè, secondo lui, ero troppo giovane per ricoprire un tale incarico. Le offese continuarono fin quando un giorno venimmo alle mani.
Lo presi per la gola ma lui, abbassata la testa, mi morse con forza il pollice della mano desta. Allora gli sferrai un calcio e lui cadde a terra. Constatato che il mio dito sanguinava abbondantemente e accecato dal dolore e dalla rabbia, presi il fucile per spararlo. La fortuna fu che un militare anziano mi fermò in tempo. Andai in infermeria per farmi medicare. Spiegai all’infermiere cosa era successo e lui fece il rapporto. Il capitano comandante della compagnia volle ascoltare me, chi mi aveva dato il morso ed il militare che mi disarmo. ”Dovrei mandarvi entrambi sotto processo” esclamo il comandante ”ma, data la vostra giovane età, vi assegno quindici giorni di rigore!” Scontata la pena non vedevo l’ora di riscattarmi e l’occasione propizia si presento venti giorni dopo allorché il capitano comandante invio presso di noi un portaordini: cercava un telo da tenda.
Dissi al molisano: – Consegna il tuo! Egli mi rispose: – No, il mio non glielo do. Dagli il tuo! Al rifiuto gli feci un biglietto di punizione e lo portai al comando. Quando il capitano lo lesse mi mandò a chiamare; mi rimproverò, strappò il biglietto e non volle sentire le mie ragioni. Gli risposi che avrei fatto ricorso al comando reggimentale, descrivendo per bene l’accaduto. Si calmò e venimmo ad un accordo: quel mio amico-nemico fu trasferito subito in un’altra postazione distante quindici chilometri dalla mia.
Una notte mentre ero di guardia dalle 24.00 alle 2.00 sentii uno strano rumore. Feci una raffica di mitraglia, tutte le postazioni si misero in allarme, sparando altre raffiche di mitraglia; si avverti anche qualche colpo di cannone, ma nessuno non vide nulla. Al mattino feci il rapportino e lo misi nella cassettina del comando. Dopo averlo letto il capitano mi fece chiamare e mi disse che se non fosse stato trovato nulla sarei finito sotto processo. Fu ordinato un rastrellamento e venne fuori un partigiano iugoslavo ferito da una raffica di mitraglia sulla testa. A fianco vi era un fucile e, sul terreno, tracce di sangue di altro ferito il quale, abbandonata l’arma era fuggito. Io, soddisfatto, chiesi una licenza premio al che il comandante mi rispose che sarei andato a casa a guerra finita. Dopo qualche tempo fummo portati e dislocati a Mustar nel Montenegro e in altre zone interne della Iugoslavia, ma l’8 settembre 1943 tornammo nelle postazioni iniziali.
Verso sera venne un militare siciliano, vicino di postazione il quale, in preda all’emozione, ci disse che la guerra era finita: la gioia ci prese tutti, ma il giorno dopo si presentarono i partigiani slavi e ci fecero prigionieri, riconducendoci a Spalato e togliendoci le armi. Il 27 settembre 1943 cademmo nelle mani delle forze armate tedesche e posizionati in più punti dai quale non era possibile muoverci nemmeno per prendere un po’ di acqua altrimenti c’era il pericolo di essere fucilati. Piovve tutta la notte e quelli che tentarono la fuga furono ammazzati. La mattina dopo io avevo le scarpe tutte bagnate e sul terreno acquoso si notavano le sagome dei militari morti.
I tedeschi ci fecero camminare a piedi per una settimana. Dal mio comando, prima della cattura, avevo avuto un altro paio di scarpe che misi in sostituzione di quelle vecchie. Il fatto fu notato da un militare tedesco il quale mi costrinse a cedergliele, dandomi quelle sue in cambio che erano molto più strette. Non riuscendo a camminare le tolsi, rimanendo scalzo. Lungo la strada incontravamo delle fontane ma a nessuno era permesso di bere. Il tragitto fu lunghissimo. Si camminava giorno e notte senza soste e senza bere; la stanchezza era arrivata al limiti della sopportazione. Finalmente accadde qualcosa: presero 2.000 uomini, li organizzarono in file di dieci per un totale di 200 file. Quelli che rientrarono nei duemila proseguirono il viaggio sugli autocarri tedeschi, gli altri seguitarono a piedi. Io fui fortunato perchè capitai in una fila e, quindi, sull’automezzo che prosegui fino in Austria.
Ci fermammo prima presso un laghetto vicino ad una stazione ferroviaria dove sostammo per un giorno. Insieme con un altro prigioniero fui portato in un reparto di cavalleria per mettere a posto le selle, le cavezze e i finimenti. La sera ci riconducevano alla stazione dove ci davano un filoncino di pane, un po’ di burro e marmellata. Io, per mettere la marmellata, non avevo nulla; chiesi ad un mio amico di prestarmi il coperchio della gavetta ma lui si rifiuto. Un soldato tedesco si accorse del fatto: lo prese a schiaffi, gli tolse la gavetta, che consegno a me, e gli lascio il solo coperchio. Il giorno seguente arrivo una tradotta; fummo fatti salire in carri per il trasporto del bestiame e chiusi con lucchetti. Per tre giorni rimanemmo li dentro senza mangiare e senza bere e dal confine con l’Austria fummo condotti vicino l’Olanda, nel campo Meppen. Aperti i portelloni fummo fatti scendere e condotti in un campo di concentramento. Durante il tragitto molti ebbero dei malori per la fame e per la sete.
La notte non dormimmo perchè fummo assaliti da pidocchi e cimici i quali ci produssero molto prurito e rossore in tutto il corpo. Per ognuno presero il numero di matricola ed insieme con altri due italiani, Vincenzo Basciani di S.Vincenzo Valle Roveto e Nicola Milardi abruzzese residente vicino Roma, fui avviato al lavoro in uno stabilimento siderurgico di Lutenstein (Renania). La fatica era molta: 12 ore di lavoro al giorno per una settimana e dodici di notte senza mangiare. Ero arrivato a pesare 45 chili. Durante la settimana di lavoro diurno, la sera non si poteva dormire fino a quando i tedeschi non facevano l’appello e se trovavano qualcuno gia a letto erano ”botte”.
Il 24 gennaio del 1944 al lavoro – mentre preparavamo lastre di ferro da 80 chili ciascuna e successivamente le passavamo al rullo per, infine, accatastarle l’una sull’altra per un totale di 50 lastre – alcune di esse scivolarono e vennero contro di me. Fortunatamente mi spostai in tempo, ma non potetti evitare che una mi colpisse il piede destro, cavandomela con la frattura del 3’ e 4’ metatarso. All’infermeria fui ingessato e poi ricondotto al campo dove c’erano delle baracche ognuna delle quali conteneva 24 uomini. Avevo la possibilità di scrivere a casa, ma mi astenevo dal raccontare come vivevo perchè le lettere erano soggette a censura. In quel periodo la zona dove stavo veniva sottoposta a continui, incessanti bombardamenti da parte degli anglo-americani e per far capire ai miei questo fatto una volta scrissi che tutti i giorni avevamo le visite di Geremia La Rocca”. Mia madre, che era di indole semplice e senza malizia, quando ascolto la lettura della lettera, disse che doveva recarsi subito a Roccavivi per chiedere mie notizie a Geremia! Il giorno 24 luglio 1944, nella fabbrica, mi toccava il turno di notte dalle ore 18 alle 6 del di seguente. Veniva a prenderci una guardia e siccome il vitto serale non era ancora arrivato, ci fu assicurato che lo avrebbero portato durante il lavoro.
Ed infatti cosi fu. Erano tre patate ed un poco di brodaglia nerastra. Avevo tanta fame ed ingoiai tutto senza nemmeno togliere la buccia alle patate. Tornato al lavoro il capo reparto, che era bassino e secco come un chiodo, ma dotato di una cattiveria rara, mi comunico che alle 21 non avrei dovuto usufruire del riposo consueto dei venti minuti perchè il pasto serale lo avevo consumato in fabbrica. Insieme con me, alla macchina, lavorava un prigioniero russo il quale mi disse di stare attento perchè quel miserabile, qualche tempo addietro, con una verga di ferro, aveva spezzato un braccio ad un ragazzo anch’egli russo. Feci finta di nulla e mi avviai con gli altri, ma egli mi afferro per un braccio e mi condusse vicino alla macchina. La mise in moto e si piazzo al posto del russo. Non gli detti retta e tentai ancora di uscire ma lui mi segui per menarmi. Con un gesto rabbioso lo invitai ad avvicinarsi ed egli desistette. Verso le cinque del mattino venne il capo fabbrica, accompagnato da due SS. con intenzioni certamente di portarmi via. Erano presenti anche l’interprete ed il capo reparto. Parlarono tra loro, naturalmente in tedesco, ed il traduttore mi domando cosa avevo fatto.
Raccontai tutto quello che era successo e lui disse: – Il capo reparto ha fatto presente, invece, che tu la notte smetti di lavorare e te ne vai al reparto dove stanno le ragazze russe. Chiesi, allora, di ascoltare la testimonianza del prigioniero russo. Questi fu chiamato e non pote che confermare cio che io avevo detto e, cioè, che di notte ero stato sempre alla macchina insieme con lui. Il capo fabbrica, accertata la verita, si rivolse al suo subordinato e lo investi con male parole: – Vai via, maiale, vai via, vai via! Fu quello, certamente il periodo più nero della prigionia. La sera, in attesa dell’ordine per poter andare a letto, ci sedevamo intorno al tavolo con i gomiti appoggiati su di esso e la testa tra le mani. Nessuno credeva più di poter tornare a casa e, al posto delle vaghe speranze, subentro la più completa rassegnazione. Un giorno, arrivato all’estremo delle forze, riuscii a farmi concedere venti giorni di riposo assoluto in infermeria e ciò avvenne perchè fui aiutato da un sottotenente medico italiano. Approfittai del fatto che sotto l’ascella sinistra si era fatto un ascesso che mi impaurì molto.
Il medico esegui l’intervento e cosi restai nell’infermeria per le medicazioni. Mentre riposavo venne da me un militare tedesco di guardia con un ferro da stiro in mano; mi disse che dovevo stirargli i pantaloni. Acconsentii e da quel giorno incomincio a portarmi tutto ciò che avanzava dai pasti suoi e dei suoi commilitoni. Una sera furono ricoverati in infermeria due soldati italiani di un altro campo; uno arrivo che era uno scheletro e faceva molta impressione a guardarlo: mori poco dopo. L’altro si salvo a malapena e, dopo una degenza di una settimana, fu dimesso. Una volta, avendo molta fame, chiesi ad un tedesco delle patate; per tutta risposta mi pianto il fucile al petto. Quando gli dissi che potevo dargli, in cambio, delle sigarette facemmo il baratto. Era arrivata la primavera dell’anno 1945 e gia, da alcuni giorni, incominciarono a sentirsi, da lontano, i boati delle cannonate che scoppiavano. Cio ci fece supporre che il fronte di guerra si stava avvicinando. Un pomeriggio, io ed un altro prigioniero italiano, andammo su una collina per vedere se gli anglo-americani stavano avanzando.
Notammo un drappello della SS che si spingeva verso di noi. Ci allontanammo come se niente fosse ed appena usciti dalla loro vista ci demmo alla fuga. Poco dopo, in quel tratto, si scateno un violentissimo cannoneggiamento tedesco dal quale sarebbe stato impossibile uscire indenni. Ci salvammo, comunque, per miracolo. Il giorno dopo finalmente gli anglo-americani arrivarono e noi, felici, facemmo grande festa. Questi ci trasferirono nel campo Alfac e ci diedero carta bianca. Per tornare a casa, pero, c’era tempo e, in attesa del rimpatrio, potevamo andare a lavorare nei campi dei contadini tedeschi. Insieme con un altro italiano, accettai. Era il 2 giugno 1945 e fui inviato in una fattoria agricola con moltissime vacche da latte. Il padrone si chiamava Hugo A. Aveva la moglie ed una figlia di diciassette anni di nome Elizabet; un altro figlio era militare.
Alla sera dovevo mungere le vacche mentre, durante la giornata, eseguivo la falciatura delle erbe e i raccolti e badavo al pascolo delle vacche le quali avevano a disposizione, a rotazione, tre estesi recintita accanto a quella di Elizabet. Avevo ventidue anni e, a volte, percepivo il suo respiro perchè le porte, per il caldo, venivano appena socchiuse. Con la ragazza era subentrata molta simpatia perchè trascorrevamo, nel lavoro, molto tempo insieme. Dall’amicizia passammo alle confidenze e dalle confidenze all’amore. Ed una notte entrai nel suo letto. Trascorsi tre mesi meravigliosi perchè avevo tutto. Un giorno uno zio di Elizabet mi propose di sposarla. Mi disse: – Avrai una bellissima moglie e tutta questa proprieta! Se non fosse stata la nostalgia di rivedere mia madre e mio padre, forse mi sarei fermato in Germania. Lasciai quella famiglia, tra molte lacrime della ragazza e la commozione dei suoi genitori, per essere trasferito in un campo di rimpatrio. Da qui, il 27 agosto, presi una tradotta militare che mi condusse fino a Basilea.
Si viaggiava, per non intralciare il traffico ferroviario normale, soltanto di notte e con esclusione del sabato e della domenica. Attraverso Chiasso e poi Como ed infine Roma, avevo modo di pensare ai miei familiari che presto avrei riabbracciato dopo tre lunghi anni di sofferenze. Arrivai a Balsorano il pomeriggio del 10 settembre 1945. Mia madre, seguita da altre persone, mi venne incontro lungo Via Roma. Mio padre, assalito da grande emozione, non ne ebbe la forza e mi attese in casa. Qualche tempo dopo, parlando in casa della famiglia di Hugo A. ed in modo particolare di Elizabet, espressi il desiderio di tornare in Germania, almeno per fare una visita ai mio vecchio datore di lavoro: mio padre mi fulmino con uno sguardo! Mia madre e mio padre mi esortarono a riallacciare i rapporti con la ragazza di San Vittore, ma io gia avevo messi gli occhi su colei che, in seguito, divenne mia moglie.
Un giorno venne a Balsorano il padre della mia ex fidanzata per invitarmi a riprendere i rapporti con la figlia. Preso alla sprovvista fui sul punto di cedere ma, ripensando al viso meraviglioso della ragazza, mia compaesana, che avevo preso a corteggiare, ebbi l’ispirazione di inventarmi una bugia che, in effetti, scoprii essere la verità. Gli risposi: Ho saputo che tua figlia lavora per gli americani; sta sempre in mezzo ad essi, cucina e lava finanche la loro biancheria intima! Si – mi rispose – mia figlia presta servizio per gli americani, lavando i loro panni ma sono io che vado a prenderli e riportarli! Ando via abbastanza rassegnato e non mi disse nemmeno di come fosse finito il fatto della gravidanza. Evidentemente si era trattato di una pure invenzione della ragazza.