Soldato di leva della classe 1921, dopo un breve periodo di addestramento con il 49’ Rgt. Sommeggiata Alpini, Divisione Parma fui inviato, nell’agosto 1941, sul fronte greco-albanese dove partecipai alle operazioni di guerra. Nel febbraio 1942 ebbi una licenza di un mese, ma sbarcando a Bari fui trattenuto in contumacia per quaranta giorni, scaduta la quale arrivai a Balsorano. Rivedere il mio paese, i miei genitori, gli altri familiari, la fidanzata fu un momento esaltante e commovente. Stentavo a crederci e mi pareva tutto un’ illusione, ed un sogno davvero divenne allorché, approfittando della licenza, mi sposai. Ora che ero ammogliato, il tornare al fronte fu più che penoso; nel giro di pochi giorni avrei dovuto passare dalla beatitudine e dal calore della famiglia alle sofferenze ed alle incognite della guerra. Ma la realtà, la dura e tremenda realtà era quella e ripartii con la disperazione nell’anima.
L’otto settembre 1943 (giorno dell’armistizio tra Badoglio e gli alleati) mi trovavo, col reparto, di presidio nella località di Draciovizza. Appresa la notizia, fummo tutti contenti perchè si sperava, in tal modo, di tornare a casa ma le cose andarono diversamente. Nei giorni che seguirono venimmo disarmati dai tedeschi e tutte le armi furono ammassate nel territorio occupato dal reggimento, sotto la loro sorveglianza, comprese quelle tolte agli altri soldati italiani presenti nella zona di Valona. La notte del 15 settembre i partigiani albanesi ci attaccarono con 1’intento di impadronirsi delle armi. Si scontrarono pero con i tedeschi appostati nelle fortificazioni erette tutto intorno e noi italiani venimmo a trovarci tra due fuochi. Vi furono accaniti combattimenti con gravi perdite tra noi italiani, i partigiani albanesi ed i tedeschi i quali resisterono all’attacco nonostante gli albanersi fossero superiori di numero.
Il nostro accampamento, durante la battaglia, fu raso al suolo e le baracche risultarono completamente distrutte. Gli italiani sopravvissuti fummo spostati di due chilometri, lungo la strada che conduce a Vallona e li ci riunimmo per renderci conto delle nostre perdite: dei 3000 che eravamo in partenza, eravamo rimasti in 600-700 circa. Fummo invitati dai tedeschi a collaborare, ma quasi tutti rifiutammo; venimmo etichettati da badogliani e come tali seguimmo le sorti degli altri non collaboratori. L’indomani mattina, ormai prigionieri, fummo, una parte trasportati a Bittoli (Macedonia) dove, una volta rinchiusi in vagoni merci (70 persone ciascuno! ), seguimmo la deportazione in Germania e più precisamente a Neumbrandeburg. Il viaggio duro circa venticinque giorni in quanto, molto spesso, il convoglio veniva fermato nelle stazioni, dove sostava per due o tre giorni. Eravamo tutti stanchi, affamai e ridotti a sopravvivere con due pagnotte di pane giornaliere da dividere tra settanta persone. Neumbrandeburg era un centro di smistamento di ebrei, sovversivi e appunto di noi badogliani in quanto ci eravamo ribellati all’occupazione tedesca in Italia. Restai in questo centro smistamento fino a meta febbraio del 1944.
Per me, fu un periodo terribile; ero stremato e affamato, la mia unica fonte di nutrimento era costituita da una misera minestra composta da bucce di barbabietole ancora terrose il mio peso corporeo era sceso fino a soli 38 chilogrammi. Come passatempo ognuno di noi veniva caricato sulle spalle di quattro mattoni e si doveva camminare, con questo peso addosso, per tre ore giornaliere. Il restante tempo trascorreva apatico e disperato con il pensiero rivolto all’Italia o nell’abulia più completa. Nel gruppo ero, comunque, riuscito a fare delle amicizie, soprattutto con Scatena di Capistrello e con Carusotti di Scurcola Marsicana.
Durante la prigionia, ci chiesero quale attività svolgevamo da civili e ci assegnarono dei numeri di riconoscimento: io ero il numero 1847, il mio amico Scatena era invece il numero 1848 ed infine Carusotti il numero 1849. Io dichiarai che ero aggiustatore meccanico. Un freddo giorno di febbraio fummo svegliati alle 4 del mattino e condotti alla stazione per formare una delle tante tradotte (treni merci) con destinazione ignota. Poco prima di salire sul treno io e altri 16 soldati fummo estratti dalla lunga fila e ricondotti indietro. Rimasi sconvolto da questo fatto perchè volevo seguire i miei due amici e quasi compaesani ovunque loro fossero andati, ma cio non fu possibile e cominciai a piangere come un bambino per il timore di non vederli mai piu. Noi 17 fummo riportati indietro perchè eravamo tutti operai specializzati: io, come ho gia fatto presente, ero aggiustatore meccanico mentre gli altri erano tornitori, elettricisti, saldatori, meccanici ecc.
Nei giorni seguenti fummo trasferiti a Dortumund, nel campo di concentramento VI D, composto da tutti italiani dove alloggiammo in due baracche, rigorosamente recintate con reticolato, per impedirci di comunicare con gli altri internati presenti nel campo perchè, da badogliani, eravamo considerati sovversivi. Nel campo di concentramento riuscii a sopravvivere proprio grazie alle mie capacita di aggiustatore meccanico che mi permisero di lavorare in fabbrica con gli altri 16 compagni fortunatamente scampati da quel viaggio che sapeva di angoscia e di morte. Lo stabilimento produceva materia grezza per la polvere da sparo. Per procurarci più cibo e godendo, nell’ultimo periodo di maggiore liberta, ci dedicammo ai furti. Si rubava tutto ciò che aiutava a sopravvivere ed un giorno scovammo un magazzino di farina di castagne. Ne asportammo in più riprese, ma i tedeschi, accortisi degli ammanchi, la mischiarono con il gesso.
Io non volli nemmeno assaggiarla ma un commilitone di nome Erasmo Baldassarre di Gioia del Colle, ne mangio un bel po’. La notte, assalito da forti dolori addominali, fu ricoverato in infermeria, dove, tra la vita e la morte, rimase diversi giorni. Fortunatamente all’arrivo degli americani, era gia guarito. Ai primi di maggio del 1945, essendo stati liberati dagli americani, ci demmo alla pazza gioia in attesa di essere rimpatriati. Imitando gli ex prigionieri russi i quali, tornati in possesso delle armi, incominciarono a farsi delle vendette contro la popolazione, anche noi diciassette ci procurammo fucili, pistole e bombe a mano. Per evitare possibili rivincite anche da parte nostra, dagli americani fummo rinchiusi nuovamente nel campo VI D, dove rimanemmo fino al 7 agosto, tra privazioni e stenti.
Come vitto giornaliero ci dovemmo accontentare di dieci gallette del peso e della forma di una fetta di pane biscottato. Con tradotte stracariche di internati che tornavano in patria, attraverso la Svizzera, rientrammo in Italia. Il 18 agosto del 1945 giunsi finalmente ad Avezzano, ma purtroppo la ferrovia per Roccasecca era stata distrutta. Non essendoci altri mezzi pubblici di trasporto mi recai in via XX settembre in attesa di qualche mezzo di fortuna per tornare a Balsorano. Dopo un po’ di tempo transito un camion carico di balle di stracci; un vero e proprio ferro vecchio rimesso su con le gomme piene, sbilenco e privo di qualsiasi dispositivo di sicurezza. L’autista, accorgendosi del mio disagio, mi offri un passaggio a condizione che mi fossi sistemato sulle balle. Accettai immediatamente. Purtroppo, con quel viaggio, le mie disavventure non erano ancora terminate.
Infatti a circa un chilometro” dall’arrivo a casa il camion si ribaltò improvvisamente ed io con un gran salto riuscii a salvarmi per miracolo. Sarebbe stata una beffa troppo grande morire proprio davanti alla porta di casa dopo tutto quello che avevo passato, ma fortunatamente e a differenza di tantissimi altri miei compagni partiti per la guerra, riuscii a riabbracciare i miei. Mia moglie, i miei genitori, i miei fratelli e sorelle, nel vedermi cosi all’improvviso, credettero all’apparizione di un fantasma, si proprio alla comparsa di un redivivo perchè da oltre un anno non avevano avuto più mie notizie e perchè la guerra era finita da oltre tre mesi e quasi tutti gli internati in Germania erano gia tornati. Piansi di gioia nel vedere la mia prima figlia.
Dopo qualche giorno mi recai a Capistrello e a Scurcola Marsicana per accertarmi se i carissimi amici Scatena e Carusotti erano tornati anch’essi. Durante il viaggio ripensavo a quel treno della morte sul quale non fui fatto salire all’ultimo momento. Avevo al riguardo un brutto presentimento e non mi sbagliai; dalla voce dei familiari, straziati dal dolore, seppi che erano finiti arsi vivi nei forni crematori di Buchenwald! In questo racconto di guerra mi sono limitato a citare i fatti e le situazioni più rilevanti della mia vita in grigioverde, tralasciando episodi pur importanti ma, presumo, di scarso interesse del lettore.