Armando Di Carlo, oggi ottantenne pieno di vigore e ricco di memoria, della Polizia Stradale, figlio del grande invalido della guerra 1915-1918 Beniamino, ha narrato volentieri i suoi trascorsi bellici. ”Il 21 giugno 1940 fui chiamato alle armi nella Milizia Stradale e destinato a L’Aquila. Nell’ottobre dello stesso anno partii per Tirana, prendendo parte alle operazioni di guerra sui fronti greco, albanese, Jugoslavo.
Dopo l’8 settembre 1943, fatto prigioniero dai tedeschi, subii la deportazione nel campo di concentramento di Meppen. Non ero portato a trascorrere il tempo dietro i reticoli, subendo passivamente la guerra e dopo un mese seguii volentieri i componenti del mio reparto i quali aderirono alle quattro divisioni camicie nere, formate dalla R.S.I. in Germania. Fui incorporato nella divisione Littorio. L’addestramento a Sennelager duro circa un anno. Nei primi tempi fummo istruiti alla guerra da ufficiali e sott’ufficiali tedeschi; in seguito, divenuti istruttori con i gradi di sergente, sergente maggiore e maresciallo, avemmo noi l’incarico di addestrare i giovani volontari e le reclute provenienti dall’Italia. Nel novembre del 1944 la mia divisione rientro in Italia con destinazione Cuneo, a presidio del fronte francese e per l’assistenza e servizio di polizia.
Il 25 aprile 1945, con la disfatta dell’esercito tedesco e di quello della R.S.I., cademmo prigionieri nelle mani dei partigiani e condotti a Monteu-Ruero in provincia di Torino. Eravamo una sessantina e fummo richiusi in uno scantinato. Mi astengo dal raccontare tutto quello che passammo. Dopo oltre cinquant’anni, determinati tremendi episodi, per chi li ha subiti e non ha nulla da rimproverarsi, sfumano dalla mente e dallo spirito man mano, con naturalezza. Un giorno, alla fine di aprile, vennero a prelevarci, con i camion, gli americani. Ogni automezzo era scortato dai carabinieri italiani. Ci condussero ad Asti, poi a Modena ed infine a Grizzana (Bologna).
Quì ci caricarono sui carri per il trasporto del bestiame per portarci a Tombolo e a Coltano, dov’era un apposito campo di concentramento. Gli americani ci tolsero tutto ciò che avevamo, comprese le lamette da barba. A me levarono anche i soldi – tremila lire – che poi mi restituirono alla fine. Nel campo, gli americani avevano ogni ben di Dio ma a noi fecero patire la fame e la sete perchè non ci concedevano nemmeno la decima parte di quello che essi mangiavano. Dormivamo per terra sotto le stelle e soltanto dopo un paio di mesi ci concessero delle tende, una per ogni sei persone. Alla fine di agosto ci consegnarono una specie di cartolina postale, insieme alla tassativa disposizione che ci obbligava ad indicare come indirizzo di risposta: Prisioner of war, cognome e nome, Campo 337 Naples Italy. Seppi, al mio ritorno a casa che, quando i miei ebbero la cartolina, mio fratello Erminio e mio padre, cieco di guerra, non essendoci mezzi di trasporto idonei perchè la ferrovia era stata distrutta, si precipitarono a Napoli con una vecchia e sgangherata moto.
Li trovarono un soldato italo-americano il quale, meravigliato, disse loro: Non andate perdendo altro tempo; tornatevene a casa perchè questo campo si trova a Coltano, vicino Pisa e non a Napoli! Lascio immaginare la prostrazione, la sofferenza di mio padre durante il viaggio di ritorno a Balsorano. Pianse lungo tutto il tragitto, che duro l’intera giornata. Il sindaco Bifolchi forni dei documenti attestanti la buona condotta della mia famiglia e mia, e mio fratello, qualche giorno dopo, venne a trovarmi nel campo di concentramento di Coltano. Allorché mi chiamarono per il colloquio – lui fuori ed io dentro un reticolato – egli non mi riconobbe perchè ero dimagrito come un chiodo ed anche perchè erano quattro mesi e venti giorni che non mi facevo più barba e capelli. Fui io a chiamarlo e la commozione di entrambi raggiunse una tale intensità che non potemmo dirci nulla. Attraverso il reticolato non fummo in grado nemmeno di abbracciarci e riuscimmo soltanto a sfiorarci con le mani.
Prima di ripartire mio fratello mi infuse coraggio e pazienza ma io, cosi come gli altri miei commilitoni, ci chiedevamo cosa aspettassero per mandarci a casa. La guerra, ormai, era terminata da quasi cinque mesi. All’inizio di ottobre delle commissioni inviate dal Ministero della difesa vennero per interrogarci sul nostro comportamento durante la guerra al fronte, la permanenza il Germania e sui rastrellamenti contro i partigiani italiani. Ogni commissione era composta da un ufficiale superiore e da altri subalterni. Raccontai tutto il mio trascorso di guerra, senza omettere nulla.
Il 17 ottobre 1945, dopo circa sei mesi di permanenza in quel campo duro ed inospitale, fui liberato. Mia madre, dopo essere tornato a casa, nel vedermi com’ero ridotto, piangeva tutti i giorni perchè temeva che potessi morire da un momento all’altro: pesavo 51 chili. Mi porto dal dr. Federico Fiorentini, medico condotto il quale mi prescrisse una cura ricostituente, specialmente sul modo di mangiare, ed in poco tempo, grazie a lui, mi ristabilii. Mio padre, invece, ripensava spesso alla beffa dell’indirizzo errato, imposto dagli americani a Coltano. Egli aveva molta stima di essi per aver combattuto insieme, contro gli austriaci, nella guerra 1915-18. Ma da quell’episodio ignobile la stima si tramuto in disistima.