Il reparto del fante A.F. di anni 26 del 13’ Rgt. Fanteria era gia in territorio dichiarato in stato di guerra allorché il 24 maggio 1915 scoppio la prima guerra mondiale. Sin dalle prime azioni belliche si capi che A.F. era un soggetto che andava attentamente controllato in quanto, insofferente alla disciplina, prendeva delle iniziative personali che potevano mettere a repentaglio sia la propria incolumità sia quella degli altri soldati.
Spesso, in trincea, veniva richiamato all’ordine dal sottotenente comandate del plotone di appartenenza il quale, appena uscito dalla scuola di guerra, era di qualche anno più giovane di lui. E A.F. agli ordini, alle imposizioni era decisamente insofferente. Soleva affermare che per uno come lui, abituato a combattere lupi ed orsi sulle montagne del proprio paese, un soldatello austriaco rappresentava ben poca cosa. In trincea, per l’indisciplina e le insubordinazioni, il giovane ufficiale non aveva l’opportunità di castigarlo ma si prendeva la rivincita allorché il reparto usufruiva dei turni di riposo.
Le punizioni consistevano soprattutto nel rancio dimezzato, niente pane e nessuna sigaretta e per A.F., sempre affamato ed accanito fumatore erano sofferenze inaudite.” La narrazione che segue e stata desunta dal racconto fatto da A.F. appena dopo tornato dalla guerra e divenuta di dominio pubblico. Tuttora qualche anziano del paese dice di averla ascoltata dalla viva voce del protagonista, deceduto diversi anni addietro. Taluni affermano anche che A.F. venne decorato di medaglia d’argento e promosso sergente sul campo. Dai documenti in possesso dell’autore risultano la condanna, la revisione del processo e la dichiarazione che egli non venne premiato con l’attestazione di aver servito la Patria con fedeltà ed onore appunto perchè recluso per fatto d’armi. A.F. era considerato un selvatico anche dai commilitoni perchè poco socievole di natura e l’essere malvisto dal diretto superiore lo rendeva ancora di più scontroso ed ostinato. Ed un giorno in cui la fucileria austriaca era più frenetica del solito e le feritoie della postazione italiana venivano centrate in modo millimetrico, A.F. decise all’improvviso di fare una sortita, armato soltanto di baionetta, per aggredire i soldati nemici.
Fu trattenuto in malomodo dal sottotenente e lui, per reazione, getto il fucile per terra e scappo dalla trincea. Era il 26 marzo 1916 e, dietro rapporto del diretto superiore, fu rinchiuso nella prigione del corpo con l’accusa infamante di abbandono di posto in faccia al nemico. Nella cella, di dimensioni molto ridotte, era il solo inquilino. Li dentro A.F. trascorreva il tempo con le mani appoggiate alle sbarre o sdraiato sul nudo, duro e polveroso tavolaccio consunto dalle tarme. Una scarsa razione di pane ed acqua era il suo cibo giornaliero. Inizialmente si sentiva frastornato, poi, man mano, fu invaso dallo sconforto ed infine dalla ribellione. Imprecando e bestemmiando in continuazione faceva propositi di stragi e carneficine. Il 2 maggio 1916 venne condannato ad anni venti di reclusione dal Tribunale Militare di Guerra del 13’ Corpo d’Armata. Egli era presente alla lettura della sentenza e non batte ciglio.
Nella requisitoria il procuratore militare aveva chiesto la condanna alla pena di morte mediante fucilazione. Ciò indusse il suo difensore d’ufficio – un giovane capitano laureato in legge – a battergli una mano sulla spalla e a dire: – Ti e andata molto bene! Rischiavi la pena di morte o il carcere a vita e a quarantasei anni potrai rifarti una vita! Ma A.F. non si rassegno alla tremenda sventura che gli era capitata cosi repentinamente. Chiedeva in continuazione, implorava di essere ascoltato da qualche superiore perchè non si riteneva un codardo, un vigliacco. Il suo era stato un gesto di reazione alla prepotenza di un superiore che lo teneva d’occhio soltanto perchè mostrava doti di ardimento, seppure incontrollato.
Ed allorché queste ragioni le espresse al colonnello comandante del reggimento, il quale era andato a fargli una visita, l’alto ufficiale, dopo averlo attentamente ascoltato e resosi conto che il recluso altri non era che un sempliciotto, fornito di tanto coraggio, esclamo: Va bene, sarai accontentato! Sarai ingruppato clandestinamente e sotto la mia personale responsabilità in un reparto di arditi. Qualche tempo dopo A.F. venne prelevato dal carcere da un tenente della specialità e condotto al reparto. Fu rifornito di un pugnale e di bombe a mano e dopo due giorni era di nuovo al fronte. Il suo comandante gli disse: – Hai ampia liberta di fare cio che ritieni più opportuno! Dimostra, pero, che ci sai fare e non deludere il colonnello! Di fronte alla trincea italiana c’era un fortino nemico dal quale partivano continuamente scariche di fucileria che stavano mettendo a dura prova la nostra linea difensiva. A.F., profondo conoscitore della montagna per aver sempre fatto, da ragazzo, il pastore ed il taglialegna, strisciando sul terreno silenzioso e guardingo come un serpente, riuscì ad aggirare la postazione nemica e a lanciare nei pressi una bomba a mano.
Dopo un’ora egli si ripresento nella trincea italiana con quattro prigionieri, disarmati ed ancora tremanti. Nei giorni che seguirono e fino al termine del conflitto, dopo aver ottenuto la liberta vigilata, continuo a ”lavorare” armato di solo pugnale. Fu congedato il 21 agosto 1919, ma non gli venne rilasciata la dichiarazione, usuale per tutti i combattenti, di aver servito la Patria con fedeltà ed onore. Con provvedimento del Tribunale Supremo di Guerra emesso in data 12 maggio 1922 la pena di anni venti di reclusione militare inflittagli dal Tribunale di Guerra del 13’ Corpo d’Armata per il reato di abbandono di posto in faccia al nemico con sentenza in data 2 maggio 1916, gli venne ridotta a cinque anni con la commutazione della condanna in condizionale.