Torniamo a ribadire, con il prezioso supporto di dati archivistici alla mano, per chi ancora volesse esaltare le condizioni di «grande sviluppo di questo preteso Abruzzo Contemporaneo» e della Marsica prima e dopo l’Unità, che gia la «relazione» del Preside dell’Aquila del 1760, la «visita generale» di Giuseppe Maria Galanti (1795), il censimento statistica e «Annona» degli anni f 810-1815, l’inchiesta Franchetti (1873), quella Jacini (1882-1887) ed infine quella dello Jarach (1901), dimostrano ampiamente, al contrario, la grande arretratezza di tutta la provincia aquilana, alle prese con le solite persistenze e resistenze rispetto a quelle innovazioni necessarie per svecchiare il territorio comprendente tutto l’Appennino interno.
La documentazione non manca di testimoniare che, al di la di una minoranza di possidenti terrieri o armentizi, sia essi laici o ecclesiastici, sufficientemente autonomi di risorse proprie e pochi contadini-proprietari, la maggioranza della classe rurale o «basso ceto», era costretta per sopravvivere ad emigrare per parecchi mesi, come ormai da secoli faceva, sui vasti e insalubri fondi dell’Agro Pontino, oppure a seguire la massacrante ed ormai «morente» transumanza verso le terre di Puglia. Nel caso della Marsica, anche la casta dei pescatori del lago di Fucino, non certamente «libera» o privilegiata, come molti ancora affermano con enfasi romantica, si trovo sempre rigidamente sottoposta a servitù di «Antico regime», durante i secoli passati che vanno dal medioevo e fino al Novecento, periodo caratterizzato dal dispotismo «dell’Eccellentissima Casa Torlonia» che, dopo il prosciugamento, si innalzo ad ultima potente «casta» zonale, esercitando notevoli soprusi, come da vecchia e retrograda consuetudine.
Il regime di riformismo murattiano, messo in atto nel cosiddetto «Decennio francese», seppur travagliato da forte crisi interna e brigantaggio latente in quasi tutte le provincie del regno, tuttavia, aveva trovato il suo appoggio nella borghesia dei villaggi, delle città e dei piccoli borghi dell’Aquilano. Il rapporto centro-periferia per il controllo delle amministrazioni locali era stato affidato ai consiglieri provinciali e distrettuali, scelti tra un ristretto numero di notabili fedeli al regime francese, pronti ad assicurare allo Stato un regolare prelievo fiscale. Il contesto socio-economico nel quale si svolse l’inchiesta, condotta con zelo da questi organi pero solo consultivi, rivelera, alla fine, un chiaro meccanismo di «conoscenza-controllo» messo in atto dai Napoleonidi in tutto il territorio preso in esame.
I luoghi di verifica della statistica murattiana del 1811 rimangono le nostre povere contrade marsicane, smembrate in quel periodo dall’amministrazione napole.onica, proprio nella loro antica configurazione: Pescina, capoluogo di circondario appartenente al distretto di Sulmona, comprendeva i comuni di Collarmele, Ortona, Bisegna, S. Sebastiano; Aielli e Cerchio, invece, furono inclusi nel circondario di Celano, a sua volta dipendente dal distretto dell’Aquila, come pure Gioia, Lecce ed Ortucchio; in totale, la consistenza numerica della popolazione presa in considerazione, arrivava a 10.806 abitanti. In questa fase, il ministero dell’Interno voleva innanzitutto conoscere le condizioni dell’agricoltura per eventualmente attivare miglioramenti. Tra l’altro, era pure contemplata: la circostanza di ingrandire o rendere coltivabile i terreni; l’esigenza di risanamenti; lo stato dell’allevamento del bestiame; le effettive forze del paese nei riguardi del vettovagliamento giornaliero e quale produzione manifatturiera venisse adottata; insomma, tutto ciò che poteva essere oggetto di possibili e rapidi cambiamenti per controllare e contenere le dinamiche sociali del momento in un quadro di modernizzazione della regione.
In tal senso, a questo già complesso questionario da redigere con accuratezza, si aggiunsero altre numerose incombenze che gravarono a livello locale sugli stessi protagonisti dell’indagine, riconosciuti, per il circondario di Pescina, nei medici Matteo Porreca, Felice Nicola Jacone e Modesto Musilli. I tre dottori riuscirono infine a raccogliere ampio materiale (e le descrizioni particolareggiate lo dimostrano), portando a termine un difficile lavoro di inquadramento dei dati a riprova di ampia competenza sul proprio territorio. Sotto la voce «Sussistenza e alimentazione della popolazione. Alimenti» dell’inchiesta murattiana, che riporta i dati del circondario di Pescina, si legge: «vi è Pescina istessa, che beve I’acqua del fiume Giovenco; e cosi la Villa S. Benedetto, la quale pero usa ancora I’acqua di varie sorgenti che le lascia attorno il lago Fucino.
Nel circondario di Gioia vi e Manaforno, ove la distruzione degli acquidotti di Fonlacciano, fa che si beva comunemente acqua piovana, raccolta in piccole cisterne, o quella d/ certi fossi, scai’ali per dare lo scolo a una palude. Ortucchio beve I’acqua del lago Fucino; e alcuni casali di Lecce, quella del fiume». Unici due comuni che attingevano l’acqua direttamente «alla fonte naturale e allo stesso sito ove sorge», bevendo quindi acqua purissima, risultavano essere Bisegna e San Sebastiano. Tuttavia, le acque del circondario di Pescina, formavano, «tenute a riposo ne ’ vasi, del sedimento». In parecchie fontane «costruite a guisa di abbeveratoi, cosi che per attingere I’acqua vi si tuffano le mani unitamente a ’ vasi si di legno, che di rame: vi bevono gli animali, e talvolta vi si tira l’acqua, per lavarvi li stesso al di fuori i panni lordi, cosa disgustosa e pericolosa per la salute». Ad Ortona, Collarmele e Cerchio «la vasca e male ideata, ed incomoda la posizione, specialmente nella fontana addetta alle lavandaie». La mancanza di buoni acquedotti, quindi, faceva si che in autunno ed in inverno, mesi di solito molto piovosi, l’acqua delle fontane traboccasse con una certa impetuosità fin dentro l’abitato, dove le strade si riducevano ad un ammasso di fanghiglia, rendendo quasi impossibile il transito ad uomini ed animali: «In Manaforno, gli adquedotti di Fontacciano sono pressocche distrutti: in Lecce le conserve dell’acqua meritano restauro».
Appare, ulteriormente drammatico, il capitolo dedicato al «Cibo ordinario». Le popolazioni dei piccoIi centri usavano in prevalenza alimenti misti «di animali e di vegetali» ma tendevano piu «all’erbivoro»; all’Aquila, capoluogo di provincia, ed in altri comuni dove ancora era estesa l’industria della pastorizia, come Sulmona, Tagliacozzo, Gioia, Bisegna e San Sebastiano gli abitanti erano molto più carnivori. La diligente rilevazione, precisava in proposito: «Si deve pero confessare, che I’inclinazione al vitto vegetale dipende bene spesso dall’abitudine e dalla miseria, che obbliga altrui, mal suo grado, ad appigliarsi a quel cibo che piu agevolmente puo procurarsi. Allora si cade in malattie asteniche, in languori, e simili altri patimenti». Tanto accadeva pure nella stessa Pescina, salvo alle «poche famiglie di proprietari e capitalisti». Appariva, pertanto, e assiduamente: «essi sono onnivo-i, mangiano cioè tutto quello che il proprio istinto gli detta e le proprie facoltà gli permettono di provvedersi». La notoria e diffusa povertà del ceto rurale, forni agli estensori dell’indagine, il pretesto per trarre amare considerazioni: « La classe de ’ campagnuoli geme in questa provincia nella più pertinace miseria ed avvilimento: ecco donde nasce anche il deperimento dell’agricoltura».
Passando ad esaminare l’argomento «Pane», i medici incaricati dell’investigazione, rilevarono: «Si fa, generalmente parlando, uso di pane anche presso la classe meschina; ma in pochi comuni e tutto di farina di frumento; in molte vi si mischia anche quella di frumentone, o di segala, o di orzo, e altre granaglie. Servono bensi i legumi e le castagne, non meno che la polenta, a rimpiazzare il pane in molti luoghi, finite che hanno le granaglie; senza prepararli pero a foggia di pane, ne ridurli a farina». A Gioia, Ortucchio, Lecce, Bisegna, San Sebastiano, veniva usato «il pane di solo frumento, meno che in qualche annata penuriosa, in cui vi si mischia da’ più miserabili o segala, o orzo». Nel circondario di Gioia, come in gran parte della provincia, si mangiava altresì «la polenta di frumentone. Dov’e condita di solo olio, dove di lardo, o strutto soffritto; e chi vi aggiunge del ’aglio, chi noci, chi formaggio grattato; e chi, per eccesso di miseria, non di altro la condisce, che di sale assoluto». Rare volte il pane risultava ben fatto. Ancora, dell’aria troppo elevata».
Oltretutto, il pane bianco e «il bruno» erano pessimi un po’ ovunque nella Marsica, specialmente a Pescina, dove i mugnai spesso e di proposito alteravano le qualità delle farine per ricavarne utili profitti. Per quanto riguardava la «Carne», notizie attendibili, a supporto di un’analisi specifica, misero in evidenza che molti braccianti e contadini del circondario di Gioia mangiavano «carne di animali infermi o morti naturalmente, non pero fresca, ma disossata, salata, e seccata al sole, o al forno, e la chiamano misischia; e se ne servono soprattutto l’inverno o bollita, o arrosto». Anche la carne di capra trovava i suoi consumatori, mentre in estate ci si sfamava con la pecora ed in inverno con il maiale. Risultavano alti i prezzi di mercato delle carni e, solo chi poteva, comprava questo cibo prelibato. Li dove si poteva, il «bove manzo, o vaccina» veniva venduto sulla piazza di Gioia a grana 12; il «maiale fresco», invece, si acquistava da grana 13 ai grana 15; il castrato, da grana 12 ai grana 16; l’agnello da grana 10 ai grana 12.
I dati relativi al consumo del pesce, rappresentavano anch’essi un lato interessante, rispecchiando una tendenza e una realta ben diversa da paese a paese: «Il più comunemente usato e il pesce del lago Fucino, che bagna i circondari di Celano, di Gioja, e Avezzano…Li pesci del lago Fucino si salano anche e si sfumano, e si adoprano, in mancanza di pesce fresco, in tutti li paesi adiacenti al lago», ad eccezione di Ortona, Bisegna, San Sebastiano e Lecce che non consumavano assolutamente il prodotto. La prevalenza dei vini cotti in tutta la Marsica rendeva la preziosa bevanda quasi imbevibile. Tale pratica, tramandata da secoli con difetti riconducibili ad antiche tradizioni, seguitava a perdurare in tutta la zona ed erano molti a mescolare «materie estranee al vino per mascherarne i difetti». I vigneti non attecchivano certo pero a Bisegna e San Sebastiano, paesi situati ad altezze rilevanti ed esposti ai «gelidi della provincia»; a Pescina, invece, i vini risultavano deboli e tendevano «all’acescenza, il che si ripete o dal non essersi bene scelto il terreno per vigna, o dal troppo sollecito vendemmiare»; mentre a Gioia «il vino si da per eccellente e senza materie estranee, eccetto l’acqua, con cui viene dimezzato. In Lecce lo stesso». Dai dati raccolti emergeva, tuttavia, che in moltissimi comuni della Marsica: «ogni classe beve del vino per tutto l’anno: le bettole sono numerose, e frequentate dal popolo, il quale vi spende bene spesso tutto quel che guadagna, contentandosi talvolta di scarsissimo cibo, purche l’inebriante liquore non manchi».
Il circondario di Pescina poteva contare anche sulla coltivazione di ulivi, laddove in altre zone «a causa della vivezza del clima» questa preziosa pianta non vi attecchiva. Ad Ortucchio: «l’eccessivo uso dell ’olio forte, unito all ’acqua e pane caftivo, all’ittiofagia e all ’impaludamento, contribuisce alla gravilita di quei abitanti ed al loro temperamento flemmatico, malinconico. Nel rimanente del circondario di Gioja, e massime in Lecce, ne usano con non minore prodigalifa, ma senza positivo nocumento, in grazia della loro situazione e del metodo di vita, che in Lecce e poco men che selvaggio». Passando a considerare i «Latticini», i relatori della statistica annotarono in generale la buona qualità dei formaggi, soprattutto quelli provenienti da paesi posti ad altezze rilevanti, anche se potevano migliorarsi quelli del circondario di Pescina; al contrario: «In Gioja e negli altri comuni di quel circondario, meno che in Ortucchio, dove vi sono pochi latticini, mangiano anche molti caci e ricotte, per cui soggiacciono spesso a verminazioni». Per ciò che concerne, più in particolare, l’argomento «Legumi», a Gioia si faceva uso di lenticchie e piselli selvatici «detti rovelli, o rubiglie, che per digerirli ci vuole buono stomaco, e che sieno stracotti»; a Pescina mangiavano fave e fagioli neri. I campagnoli ed i pastori di Gioia spesso abusavano di alcuni ortaggi come: «cavoli, o bassiche, che serbano per tutto I ’inverno ed eccitano spesso loro delle coliche violentissime».
Utili si rivelarono le nozioni sul tipo di «Frutta» compatibile con le temperature atmosferiche della Marsica orientale. Abbondavano ovunque le ghiande, usate come cibo per i maiali ed anche talvolta mangiate per necessita dai contadini «addirittura risalendo alle costumanze dell’età di Saturno, e si cibino finanche del frutto del faggio, come in Lecce, circondario di Gioja, massime in tempo d’inverno». Ma era pur vero che in estate i gioiesi ed i pescinesi potevano talvolta abusare «di ciliegie, di cerasoli, o marasche, di prugne, mele dolci e aspre, pere, fichi, uva, per cui soggiacciono a profuse diarree e fiere dissenterie, anche perché spesso accade, che tali frutta sono immature; in inverno, sorbe, pere, mele selvatiche secche, quantità di noci, mandorle, sorbe, e pere e mele selvatiche fresche e secche; in inverno, anche il frutto del faggio>>.
Analizzando in particolare, la situazione denunciata dai promotori dell’inchiesta, a proposito del cibo solitamente consumato dai braccianti e dai contadini, sempre alle prese con problemi di estrema contingenza, si legge: «Gli agricoltori poi, se lavorano sui poderi altrui a spese del padrone, fanno colazione di buon mattino, pranzano qualche ora avanti mezzogiorno, merendano sulle venti ore, e la sera poi, tornati a casa, cenano colle loro famiglie, prima di un ’ora di notte». In questo senso, andrà inoltre considerato che, l’operaio di Pescina spendeva: «per se solo grana ventiquattro al giorno, cioè quattro o cinque libbre di pane, una caraffa e mezza di vino, una libbra di carne, o mezza libbra di formaggio, e la minestra; restano in seguito a proporzionarsi tali cibarie agli altri quattro individui della famiglia. In Ortona a Marsi spende appena grana dieci…In Gioja, I’operaio con la sua famiglia spende circa grana sette al giorno; in Ortucchio e Lecce, grana sessanta al giorno».
furono riportate anche sul modo di vestire «del basso popolo» che indossava una giacca di lana di color turchino, corpetto e camiciola con calzoni della stessa qualita fino sotto il ginocchio: «In Pescina, vestono della stessa foggia di sopra descritta, se non che in estate il corpetto e bianco e il calzone tinto paonazzo. In Cerchio, Collarmele, Ortona a Marsi, lo tingono il loro panno di lana in rosso piuttosto che turchino», portando ai piedi scarpe di vacchetta con suole di cuoio senza concia, volgarmente dette .chiochie. Le ultime pagine della complessa e ampia inchiesta murattiana mettono ben in evidenza, ancora una volta, la catastrofica situazione delle abitazioni «del popolo di questa provincia», le precarie condizioni igienichesanitarie con relativo peggioramento della salute pubblica un po’ ovunque e lo stato delle terre incolte, completando di per se disastrato.
Tali verifiche costituiscono, secondo noi, un argomento di riflessione per determinare con una certa obiettività le notevoli difficoltà in cui si trovo ad operare l’amministrazione dei Napoleonidi, alle prese con un difficile cambiamento sotto il profilo istituzionale e socio-economico. Tanto e vero che i molteplici e variegati aspetti della società rurale del Mezzogiorno rimasero i «mali d’epoca», senza che effettivamente la spinta riformatrice francese, o se si preferisce «giacobina», potesse inserirsi con successo in una realta contadina abbrutita da secoli di sudditanza e legata ancora nel bene e nel male all’antico regime.
NOTE
Ampi riferimenti, a tal proposito, si sono rilevati dai fondi: Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell’Interno, Abruzzo Ultra Secondo, I’ inv., fasc. N. 2209, Rapporto statistico intorno alla sussistenza ed alimentazione della popolazione, redatto sulle risposte date alle dimande promulgate dal Ministero dell’Interno, Buro di Statistica, Sezione Terza, da’ professori dell’arte salutare, incombenzati per tale oggetto in questa provincia; Cfr. Archivio di Stato di L’Aquila, Intendenza, Serie I, Affari Generali, Cat. 13, Censimento Statistica e Annona, Anni 1810-1815, b. 4228 A. Analisi più critiche e dettagliate sul «Decennio» si trovano in: D. DEMARCO, La «Statistica» del regno di Napoli nel 1811, Tomo I, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1988; G. Incarnato, La maledizione della terra (1500-1848),
Per una storia, non solo agraria, dell’Italia meridionale, Loffredo Editore Napoli, febbraio 2000; R. DE LORENZO, Un regno in bilico, Uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Carrocci editore, settembre 2001. Molte segnalazioni sulle tragiche condizioni alimentari di Pescina, Ortona, Aielli, Collarmele, S. Sebastiano e Bisegna erano state gia comunicate al Ministero dai consiglieri distrettuali Clemente d’Arcadia e Giandomenico Del Papa in data 26 marzo 1808 e cozzavano nettamente con il menu giornaliero di monsignor Rossi, allora vescovo dei Marsi, al quale, oltre all’olio ed altri ottimi prodotti alimentari, veniva somministrato anche il caffe, il cacao e la cioccolata (A.S.A., Intendenza, Serie I, Affari Generali, Cat. 19, Anni 1808-1809, b. 4584 A, fasc. 1-2-3-6). Le foto di Pescina, Aielli, Ortona dei Marsi e S. Sebastiano sono state gentilmente concesse da Mauro D’Amore.