LA QUESTIONE DEL FUCINO (cenni)

Lionardo Rosati, luogotenente di Ortucchio, scriveva il 27 marzo 1807 all’intendente dell’Aquila: «Nello scorso mese di Febbraio partecipai a V.E., che per una insorta orribile tempesta, restarono vittime delle acque di questo Lago Fucino sei individui, quattro dei quali furono rigettati nel Lido, e rinvenuti il giorno seguente, come nell’altra mia comunicazione riferii all’E.V. In adempimento ora di un mio dovere le partecipò, che nel giorno tre del corrente mese di Marzo si e rinvenuto un altro cadavere e propriamente quello di Pasquale Cerone di Collelongo. Ai nove anche del corrente mese si rinvenne finalmente l’ultimo cadavere e propriamente quello di Maria Carolina, moglie di Antonio Fiore anche di Collelongo.

Non mancai di ordinare ai Professori di Medicina, e Chirurgia acciò divenissero alla ricognizione, e sezione di essi, i quali dopo di aver fatta l’oculare ispezione han deposto, che si l’uno, che l’altro cadavere erano sfacelati e disfatti in maniera, che erano affatto incapaci di ricognizione, e sezione, atteso il gran tempo, che detti cadaveri erano stati immersi nelle acque. Tanto le debbo in adempimento di un mio dovere, e colla più alta stima devotamente mi raffermo». Morirono in quei frangenti anche i due barcaioli nel tentativo di raggiungere a nuoto la spiaggetta di Ortucchio.

L’intera comitiva, composta da due donne e quattro uomini, al momento della tempesta stava tornando dalla localita di Arciprete, dopo aver raccolto della legna, quando appena: «si videro giunti alla riva, improvvisamente vennero da una fiera tempesta assaliti, e li condusse nel Pannogrande, dove erano quasi quasi per approdare, ma le onde intenzpestive gli affogo la nave, e li sbalzo dalla medesima». Questa la narrazione ottocentesca di una delle tante disgrazie accadute sul lago di Fucino, a riprova che le sue acque diventavano spesso insidiose per i naviganti e non solo: le continue escrescenze avevano messo sempre a rischio, ed in maniera costante nei secoli, grossi lembi di terreno coltivabile di tutti i paesi rivieraschi. Dai dati raccolti nell’Archivio di Stato di L’Aquila, emerge in tutta chiarezza che proprio il povero villaggio di pescatori di Ortucchio più volte divenne «isola»; mentre Luco, Trasacco, S. Benedetto e lo stesso Avezzano, durante gli innalzamenti dal 1806 al 1816 furono quasi completamente allagati.

Quanto finora si è narrato, relativamente alla pericolosità delle acque, cozza con recenti affermazioni trionfalistiche tese ad esaltare la magnificenza di questo specchio d’acqua, visto, sicuramente con gli occhi di uno spensierato turista del 2001, ignorando le grandi sofferenze, privazioni, angherie e soprusi che il ceto rurale e gran parte delle popolazioni dovettero affrontare per secoli. Poco o nulla finora si e parlato della condizione sociale, preferendo sbandierare ai quattro venti soltanto notizie di categorie della classificazione erudita, ignorando momenti ed aspetti inscindibili che invece costituiscono una ricostruzione aperta e piena del processo socio-economico nelle sue varie componenti e dimensioni. Non dobbiamo dimenticare che la storia principalmente ha come protagonisti gli uomini, le loro azioni, le loro leggi, i comportamenti, gli atteggiamenti, i sentimenti, le emozioni e forse secondariamente anche gli oggetti preziosi, gli edifici, i castelli e le chiese ecc.

Nella prospettiva appena accennata e doveroso porsi alcuni legittimi interrogativi: siamo proprio convinti che i nostri antenati furono uomini liberi di muoversi e pescare a loro piacimento, e magari di fare delle gite in barca a caccia dei numerosi volatili di cui erano piene le sponde del Fucino? In contrapposizione a questa restrittiva accezione, fortunatamente, nuove indagini sulla Marsica, stanno portando alla luce i reali processi della vita sociale del passato, che pongono la «questione» del Fucino non certo in termini di fanatismo campanilista di quei tristi periodi. Per ottenere un quadro più esauriente, dovremmo tener sempre conto che il lago, in forza a diritti regolari o usurpati nel tempo non apparteneva affatto ai marsicani, ma poteva bensì dirsi diviso fra tre litigiosi proprietari: i Colonna, i conti di Celano e gli abbati di S. Maria della Vittoria di Scurcola. XIentre, una linea immaginaria tracciata sulle acque, divideva lo Stato di Celano da quello di Ai ezzanoTagliacozzo, precisamente guardando una torretta ad est di Paterno fino ad individuare una località punta verso Ortucchio chiamata S. Nicola; per i monaci dell’abbazia cistercense, invece, come da concessione imperiale di Carlo I d’Angiò, ossia per tutta l’estensione del lago.

Purtroppo, il più basso gradino della scala sociale era occupato proprio dai pescatori, sottoposti al peso del pescato nelle varie stanghe baronali e colpiti da numerose vessazioni ed angherie. Oltretutto, come ben evidenzia l’indagine dello studioso Sergio Raimondo: «… l’estrema deperibilità della merce esigeva che l’industria della pesca mantenesse stringenti rapporti con mercanti e trasportatori. La disponibilità di capitale da parte dei mercanti li metteva in condizione di gestire un ruolo preminente nei confronti dei pescatori, che non erano in grado di anticipare i fondi necessari alle attrezzature ed alla conservazione del pescato. In queste cause va individuata la ragione della miseria che di norma affliggeva i pescatori, in quanto essi finivano per dipendere pressoché totalmente dal ceto mercantile».

Quanto all’impostazione generale del problema che vide contrapporsi posizioni sociali e concettuali in un dibattito secolare a favore del prosciugamento o contro, si può rilevare altra giusta osservazione del Raimondo, che con dati alla mano oggettivi, scrive in proposito: «Il nullo o ridottissimo peso pubblico dei pescatori fucensi costituì una delle basi concrete della sottovalutazione del valore economico della risorsa pesca, il che sicuramente favori l’opzione del prosciugamento totale su quella del restringimento, cioè di una misura in cui l’esercizio della pesca sarebbe risultato definitivamente cancellato».
La complessa vicenda del lago Fucino, divenne il nodo cruciale anche della Commissione feudale chiamata a risolvere le infinite discussioni giudiziarie poste sul banco dei commissari ripartitori al momento dell’abolizione della feudalità.

Dal 26 settembre 1809 al 25 ottobre 1813, dopo quattro anni di lunghi dibattiti che videro coinvolti nella diatriba eminenti personalità del governo napoleonico, come il ministro dell’interno Giuseppe Zurlo, il procuratore generale Davide Winspeare, il relatore al Consiglio di Stato e commissario del re Giuseppe De Thomasis, l’intendente Colonna De Leca ed il sottintendente di Avezzano Antonio Sardi, si giunse finalmente ad un compromesso tra le parti e nacque cosi «una questione relativa all’oltreuso», regolata al momento, solo dai giudici di Pace ma con estrema fatica.

Dopo tumulti e scontri avvenuti in tutti i paesi rivieraschi, dove gli ex feudatari, comunque, avevano «stabilito una specie di sorveglianti sulle frontiere del lago, ed oltre a questi una seconda linea di vigili ne’ luoghi di tappa, coll’incarico di visitare i pescivendoli, farsi esibire le cartelle di spedizione, e confrontarle, se occorre, col pesce che esportano», l’avvocato dei comuni interessati alla pesca inoltro al ministro dell’Interno un’ennesima istanza, nella quale si poneva il dilemma se «le acque siano pubbliche, ovvero se si abbiano a dichiarare demaniali e quindi come tali dovrebbero essere incamerate, automaticamente, nell’Amministrazione delle Acque e Foreste».

Peraltro Winspeare venti1è una proposta momentanea e sicuramente bonaria, affermando da vero illuso che: «se la Duchessa Sforza Bovadilla divide col Contestabile Colonna e colla Scurcola il prodotto della pesca, dividera pur colle popolazioni che vi hanno il primo diritto». Ma poi, visto che le cose stavano prendendo una brutta piega, emano successivamente ordine perentorio rivolto alla schiera degli sgherri baronali «che gli ex baroni con più rigore di prima avevano messo sulle rive del lago», di arretrare immediatamente al di la «della linea del territorio de’ quattordici paesi» aventi diritto alla pesca. Finalmente il 9 ottobre 1813, dopo infiniti dibattimenti, scontri e contrasti tra le parti in promiscuità, Winspeare controfirmo la sentenza finale emanata dalla Commissione feudale che decreto in merito:

1. Gli ex feudatari principe Giuseppe Colonna e duca Francesco Sforza Cabrera Bovadilla, per l’oltreuso della pesca del lago Fucino accordatagli colla sentenza della Commissione feudale esigeranno la sesta parte della pesca medesima invece del terzo che riscuotevano prima del giudicato.
2. Sara esente da ogni prestazione tutta la pesca che si fa colle canne, cannucce, reti e retelle. 3. Sara esente egualmente da ogni prestazione tutta la pesca con qualunque ordegno sia fatta, quando non ecceda le venti libre. Beninteso che l’estraente sia obbligato di far controllare una tal quantita alla pubblica bilancia o sia stanga». A questo punto ci si domanda: fu una vera vittoria per i pescatori? Sicuramente no. Le conclusioni di Sergio Raimondo, aiutano ancora una volta il lettore a districarsi in questa ingarbugliata matassa. Egli afferma, con cognizione di causa, che gli ex baroni «avevano perso buona parte dei loro diritti, ma continuavano a mantenere un forte peso sociale nella vita quotidiana locale, con tanto di guardiani legittimamente autorizzati a difendere i loro interessi», costringendo i poveri pescatori del Fucino a trasgredire le nuove norme, per evitare di sottrarsi all’odiosa «pubblica bilancia».

Gli stessi Borboni, dopo la restaurazione, per mezzo dell’Intendente aquilano, furono costretti più volte ad ordinare ai pescatori di «conformarsi al tenore della enunciata convenzione», con editto del 1818, 1835 e del 1860. Nel quadro complessivo delle vicende emergono, tuttavia, dati estremamente negativi, registrati anche dopo l’eversione della feudalità, proprio per «l’assoluta mancanza di approcci diversi allo sfruttamento di quelle risorse cosi contese. La confusione della nuova situazione ed i lacci dal sapore ancora feudale che continuarono y gravare sulla liberta della pesca concorsero ad impedire la liberazione di energie imprenditoriali capaci di introdurre innovazioni nell’industria ittica. Certo, ammesso che nell’asfittica società marsicana del tempo avessero potuto trovare spazio attitudini economiche improntate ad un maggiore dinamismo».

L’enorme documentazione al riguardo, conservata in parte nell’Archivio di Stato di L’Aquila, completandosi con quella esistente nell’Archivio di Stato di Napoli e nella Biblioteca Statale Monumento Nazionale S. Scolastica di Subiaco, non manca di testimoniare altri innumerevoli dispute fino all’avvento dei «sedicenti principi Torlonia» che, come ben specifico Ignazio Silone, riuscirono ad impadronirsi «a poco prezzo di una societa finanziaria napoletana – franco spagnola» lanciata nell’impresa di prosciugamento. E cosi, «in cambio dell’appoggio politico che offri alla debole dinastia piemontese, Torlogne ricevette le terre in proprietà perpetua», fu poi decorato con il titolo di duca ed in seguito con quello di principe diventando, aggiungiamo noi, il nuovo feudatario della Marsica. Impropriamente: «La dinastia piemontese gli regalo insomma una cosa che non le apparteneva», facendo scatenare negli anni a divenire altri tumulti di piazza, diatribe giudiziarie e scioperi, fino al 27 febbraio 1951, quando, con la legge stralcio del 21 ottobre 1950, finalmente Torlonia venne espropriato.

NOTA DELL’AUTORE

Gli spunti da noi suggeriti in questo breve saggio, sono stati tratti da: Archivio di Stato di L’Aquila, Intendenza, Serie I, Affari Generali, Cat. 27, Anni 1807-1808, b. 4817 A; Supplimento del Bullettino della Commissione Feudale n. 13, Comuni circondanti il Lago Fucino (Provincia di Secondo Abruzzo Ulteriore), 28 marzo 1810, Ministeriale per parere; S. RAIMONDO, La risorsa che non c’e più. II Lago del Fucino dal XVI al XIX secolo, Mandria – Bari – Roma 2000, pp. 113-139-208; I. SILONE, Fontamara, Arnoldo Mondadori Milano 1988, pp.8-9. Il discorso, seppur ancora scottante, rimane aperto ed esigerebbe un’analisi capillare, molto estesa, affrontabile in luogo opportuno e non certo in questa sede.

Al momento basti soltanto rilevare che, analizzare la complessa questione, senza i dovuti criteri storici ma con parametri semplicistici e convenzioni terminologiche purtroppo largamente diffuse, porta all’imprecisione ed a porre il problema non correttamente, lasciando intravedere alle future generazioni, e non solo, una visione della «questione» del lago di Fucino, in termini pericolosamente inesatti.

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