Tratto dal libro Il Paese della memoria
( Testi a cura del prof. Ermanno Grassi e del prof. Pino Coscetta )
L’ anno 845 riveste particolare importanza per la storia della Contea di Celano e, conseguentemente, per San Sebastiano dei Marsi. Risale all’anno 845, infatti, la prima dinastia dei Conti Marsi “de sanguine Francorum” rappresentata dai Berardi. Il “sanguine Francorum”, per la verità, appare alquanto annacquato, essendo stato acquisito attraverso il matrimonio di un Berardo Marso con una principessa carolingia, figlia del pronipote di Carlomagno Ugo di Provenza.
Ciò non toglie merito ai Berardi che riuscirono a mettere insieme uno dei più importanti principati d’Abruzzo con Celano come capitale di numerose terre che si estendevano da Carsoli alle porte di Rieti e che, ad Oriente, arrivavano fino ai confini di Sulmona. La dinastia dei Berardi, tra alti e bassi, accordi e tradimenti, governò fino al primo ventennio del 1200 quando decadde per mano di Federico II il quale, volendo vendicare la scelta di campo fatta dai Conti di Celano a favore del partito Guelfo di Ottone di Brunswick, devasta la città, azzera i Berardi e mise a ferro e fuoco l’abitato. Per un anno i celanesi sperarono di veder tornare il Conte Tommaso, fuggito durante l’assedio e al sicuro a Roma, e con lui ricostruire Celano.
Ma le cose non andarono cosi. Non contento dello scempio fatto, Federico II radunò i celanesi e li fece deportare. Più che di un esilio si trattà di una crudele diaspora che vide intere famiglie smembrate e disperse tra la Sicilia e l’isola di Malta. Dopo tre anni Papa Onorio III, che aveva accolto a Roma il conte Tommaso in fuga, riusci ad ottenere clemenza per gli esiliati ai quali, Federico, concesse anche di riedificare la città a patto che questa non sorgesse nello stesso posto dove precedentemente si trovava. L’epoca d’oro dei Berardi, dunque, si protrasse dall’anno 845 al 1200 quando cominciò a decadere. Poi, superata la tragica parentesi federiciana, dopo la Battaglia di Tagliacozzo i Berardi tornarono in possesso del feudo.
Ed è durante il primo periodo del loro dominio che troviamo la prima notizia certa dell’esistenza di San Sebastiano. I matrimoni combinati per favorire alleanze e le relative doti delle spose, portavano le contee medievali ad avere possedimenti lontani dal proprio feudo. Il più delle volte si trattava di paesi e terre che, data la lontananza, sfuggivano al controllo e non fruttavano a dovere. Per ovviare a questo problema era pratica comune tra i feudatari interessati, scambiarsi le piccole enclavi con i paesi che racchiudevano. C’erano poi le donazioni agli ordini religiosi e gli scambi di territori con quest’ultimi che servivano essenzialmente per sgravare dalle tasse le contee. Il tutto contribuì a rendere più visibile e controllabile il patrimonio delle contee e, indirettamente, forni alla storia le prime carte, i primi documenti che certificavano l’esistenza anche di molti piccoli villaggi che altrimenti non avrebbero trovato modo di apparire sulle pagine della storia. Questo è il caso di San Sebastiano dei Marsi che appare per la prima volta tra il 928 e il 929, quando Papa Leone VI assegna al Conte Berardo dei Marsi i feudi fucinensi. Un anno dopo, nel 930, Doda contessa dei Marsi, dona all’Abbazia di Montecassino seicento moggi di terra e la chiesa di Santa Maria in Luco.
Venti anni dopo, nel 950, l’abate cassinese Aligerno assegna eguali terre in enfiteusi al figlio della contessa Doda, Rainaldo. Lo scritto ufficiale che certifica il concambio del 950 viene perà redatto dal nipote di Doda, Rainaldo II, nel 1005. In questa carta si certifica che Doda e Rainaldo “causa concambii” diedero a Montecassino la “curtis” di Santo Stefano in Alife, nell’attuale provincia di Caserta, con quattrocento “modia” di terra, e un’altra a Teano in località “Campus” con cinquecento “modia” di terra ottenendo uno “scriptum de Sancta Maria in Luco et de Sancto Sebastiano”. Il documento riportato sul “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Meedio Evo”, viene infatti definito come il rinnovo del “libellum” che lo stesso Rainaldo si era visto concedere dall’abate cassinese Aligerno nel 950; tutto cià fa pensare che il paese facesse già parte di quei beni assegnati tra il 928 e il 929 da Papa Leone VI al Conte Berardo.
San Sebastiano dei Marsi, dunque, in quegli anni era già una precisa entità locale alla quale veniva attribuito valore di territorio. Il documento dell’Archivio Muratoriano di Roma, fa fare un balzo indietro di oltre duecento anni alle notizie certe sull’esistenza di San Sebastiano dei Marsi fino ad ora riportate dalla storiografia ufficiale che nomina questo centro per la prima volta nel “Catalogus Baronum”. Il catalogo, uno straordinario registro fatto stilare tra il 1150 e il 1168 da Guglielmo II il Buono, servi per censire le forze disponibili nelle varie Contee del regno da mandare a combattere in Terra Santa nell’inconcludente Seconda Crociata che arrestà la sua spinta sotto le mura di Damasco.
Riordinato per la prima volta da Carlo Borrelli, dato alle stampe nel 1653, accresciuto di documenti dalla studiosa inglese Evelyn Jamison, il Catalogus riporta a pagina 215, paragrafo 1106, quanto segue: “Berardum Sancti Sebastiani sicut dixit predictus Comes ( Raynaldo di Celano n.d.r. ) tenet Sanctum Sebastianum in Marsi quod est pheudum j militis et cum augmento militum ij”. In parole povere nel 1150, un tal Berardo di San Sebastiano, feudatario del Conte Raynaldo di Celano, teneva San Sebastiano dei Marsi che, come feudo, era in grado di mandare a combattere in Terra Santa un milite e, in caso di bisogno, anche due.
In verità un altro importante documento datato 2 gennaio 990, contenuto nel “Chronicon Vulturnense” del Monaco Giovanni, nomina un “Sancto Sebastiano de Valle, et omnibus aliis ecclesiis”. Il diploma citato, conferma altri due precedenti emanati rispettivamente da Ottone I e Ottone Il ma, né l’uno né l’altro dei succitati diplomi ottoniani, menzionano il possesso di San Sebastiano de Valle. Gli studiosi ritengono che il passo riguardante San Sebastiano de Valle sia stato interpolato successivamente la data del diploma stesso. Resta il dubbio, però, che la dizione “San Sebastiano de Valle” fosse utilizzata per distinguere il centro sorto con i Benedettini, giù nella valle vicino al Giovenco, da quello situato sul colle.
Allora si potrebbe pensare che anche l’abitato antico, del quale l’Arciprete d’Arcadia ignorava il nome, si chiamasse San Sebastiano. Lo storico sulmonese Nunzio Federigo Faraglia, nel suo “Saggio di Corografia Abruzzese Medievale”, nel tracciare i confini della Diocesi dei Marsi esistenti all’anno 1115, nomina indirettamente San Sebastiano; la Diocesi infatti si estendeva dalla “Torre Ferraria o Ferrata presso Forca Caruso, al Capo di Carrito, alla via de’ Marso (Ortona dei Marsi ), alla Portella di Valle Putrida (Iacciotto di San Sebastiano dei Marsi ) seguivano poi la Serra di Feresca, l’Argatone, Serre di Campo (Campomizzo?), Formella, e discendevano poi al Mulino Vecchio ( Pescasseroli ): dippoi per le Serre de Vivo e Troia, per Pesco Canale, la Penna dell’Imperatore, Serra Corvara, San Britto…”. Nel 1187, un altra carta stabiliva che Rinaldo Conte di Celano, possedeva Celano, Pescina, Venere, Aschi, Ortona dei Marsi, Goriano Sicoli e San Sebastiano, mentre Berardo Conte di Alba era in possesso di Alba, Paterno, Trasacco Pesco Canale, Pietraquara, e Luco.
Da questo periodo in poi, le testimonianze su San Sebastiano, legate principalmente alle sue chiese, si susseguono con una certa regolarità che permette di tracciarne la storia con buona certezza. Nel 1188 papa Clemente III, al suo primo anno di pontificato, su richiesta del Vescovo dei Marsi, emanava una Bolla che stabiliva quali e quanti fossero i beni del Capitolo e sanciva che questi rimanessero perpetuamente a regati al Vescovo Marsicano e a tutti i suoi successori. ‘: elenco delle chiese, all’ottavo posto, viene nominata la Chiesa di “Sancti Pancrati in Sancto Sebastiano” la quale, come tutte le altre, dipendeva dalla chiesa Matrice di Santa Sabina San Benedetto dei Marsi che, a quel tempo, era anche sede vescovile.
Tra le altre chiese citate figurano San Nicolai in Temple, la chiesetta abbattuta e in parte interrata al Templo, San Nicolai in Pecza, che come dicevamo si trovava nell’attuale Costa Rapindola, Sancti Salvatoris et Sancti Bartolomei in Bisegna, e Sanctus Salvatoris in Asclo, l’attuale Aschi. La Bolla, in pergamena con relativo sigillo in piombo, fu rinvenuta nell’Archivio Vescovile dei Marsi da Don Giuseppe Melchiorre. Copia di questa Bolla si trova anche tra le carte presentate dalla Duchessa di Amalfi in margine ad un processo sui confini della Montagna di Celano. La Bolla di Clemente III è datata in Laterano da Aloysi, Subdiacono vicario di Santa Romana Chiesa “…secundo kalenda Juni, indictione sexta, Incarnationis Dominicae anno millesimo, centesimo octuagesimo octavo. Pontificatus vero Domini Clementis Papae tertii anno primo… “.
Un’altra importante fonte di notizie è rappresentata dalle Decime papali che le chiese e quindi gli abitanti dei paesi dovevano pagare. Il pagamento da parte dei cittadini alla chiesa poteva avvenire in più maniere: chi era in grado di prestare opera doveva lavorare gratis per la chiesa e per il Comune che allora si chiamava “Università”; chi possedeva un’ascia doveva tagliare legna per l’utilità del castello e per le spese della chiesa; chi aveva una falce doveva mietere il grano per la chiesa; chi aveva un asino doveva metterlo a disposizione della chiesa per portare il grano al mulino e riportarlo molato ai sacerdoti; in occasione della Natività di Nostro Signore, chi aveva un maiale doveva dare una parte; chi aveva una giumenta doveva prestare opera nei campi. C’erano poi i pagamenti in denari, in cera, in pollame, in uova e altri beni di consumo.
In una pergamena del Duecento conservata presso l’Archivio Vescovile di Avezzano tra le decime da pagare figurano sessanta non meglio identificate “Parascidas”. La chiesa poi doveva versare parte delle decime al vescovado. Nel “Rationes Decimarum Italiae Aprutium Molisium” riguardante le decime dei secoli XIII e XIV, vengono riportate “In San Sebastiano Sant’Antoni siti in castello ipsius castri et Sancti Nicolai in Valle Rapindula”. La chiesa di Sant’Angelo di Bisegna, per esempio, doveva pagare una spalla di maiale e due pani, p’iù un cacio e due “retortolas” ( ciambelloni ) in occasione delle feste pasquali. Al punto 630 del catalogo delle Decime, nell’anno 1324, Berardus, rettore della chiesa di San Pancrazio in San Sebastiano si impegna a pagare per se e per i chierici la Decima dell’anno VII dell’Indizione che ammonta a tre Tarini in argento. Un’altra curiosità che testimonia quanto pescoso fosse il Giovenco, è data dalla descrizione di cià che doveva pagare per le Decime un tal Andrea Giovanni Urbani di Bisegna: per la festa di Natale un prosciutto di spalla e cinque pesci; per Pasqua cinque pesci e quindici uova; per la festa di Santa Maria cinque pesci e quindici uova”.
La Contea di Celano, intanto, dopo la vittoria di Carlo d’Angiò sul quindicenne Corradino di Svevia, con gli Aragonesi riacquistà tutto il suo prestigio. Leonello Acclozamora, uomo colto, legato alle vicende politiche e culturali della rinascenza, sposando Jacovella, ultima figlia del Conte Ruggero, si trovà alla guida della Contea di Celano. Il matrimonio fece scandalo perchè si sussurrava che lo sposo fosse “nipote ex frate” della sposa e l’unione, quindi, sapeva d’incesto. La cosa comunque non dovette trovare grande seguito, tanto che Leonello, molto apprezzato da Alfonso V il Magnanimo, fu da questi inviato a Roma per partecipare all’incoronazione imperiale di Federico III che aveva riconciliato la corte tedesca con la Santa Sede. Leonello e Jacovella gettarono i primi semi di quel Rinascimento che avrebbe toccato anche i centri della Valle del Giovenco. Nel 1424 troviamo la Terra di San Sebastiano tra i beni appartenenti a Jacovella.
Il 27 febbraio del 1431 un’ecclisse totale di sole viene cosi ricordata dal Necrologium Atriense: “…all’ora decima il sole s’oscura e per un’ora si fa notte per tutti i mortali”. Al di la dei presagi di sventura, legati a quei tempi all’ecclissi, sia di luna che di sole, per la Contea di Celano sembrano invece aprirsi tempi migliori. Dopo i Berardi e l’Acclozamora un altro nobile nome lega San Sebastiano dei Marsi alla storia della contea di Celano: quello della famiglia Piccolomini. Antonio, nipote di Enea Silvio Piccolomini che sali al soglio di Pietro con il nome di Pio II, ebbe in sposa la figlia del Re di Napoli Ferdinando I, la quale oltre alla cospicua dote, fruttà al Piccolomini il Ducato di Amalfi. Con il matrimonio, ma anche per le sue indiscusse qualità di uomo d’armi e di cultura, Antonio Piccolomini, Conte di Celano, divenne anche Gran Giustiziere del Regno di Napoli, Duca d’Amalfi, Generale delle Milizie, Governatore degli Abruzzi e acquisi il diritto di aggiungere al proprio cognome la dizione “d’Aragona”.
Alla morte di Antonio, la Contea di Celano passò ad Alfonso II Duca d’Amalfi, quindi ad Alfonso III Duca d’Amalfi, ad Innico IV Duca d’Amalfi ed infine a Costanza, Duchessa d’Amalfi, figlia di quest’ultimo. Un’intera dinastia, culturalmente illuminata, che importà in questa parte d’Abruzzo lo stile di vita della natia Siena. Con i Piccolomini gli arcigni castelli si trasformarono in piccole regge, le chiese cadenti vennero riparate e ingentilite da affreschi e preziosi interventi, il territorio stesso trovà l’ordine che troppo spesso era mancato. Per prima cosa vennero marcati i confini e ancora oggi, proprio nel territorio di San Sebastiano, a Terraegna, si puà vedere la “Pietra del Principe”, un termine di confine con su scolpito l’emblema dei Piccolomini: la mezzaluna.
La stessa mezzaluna che troviamo in tante case di San Sebastiano, sulla porta murata della “pecera”, in un concio d’angolo della chiesa di Santa Gemma, allora dedicata a Santa Maria delle Grazie, sui camini delle case quattrocentesche e in tante altre costruzioni fatte realizzare o restaurare dai Piccolomini nell’arco dei circa centocinquant’anni di loro dominio. La Contea dei Piccolomini di Celano fini con Costanza la quale vendette i beni a Camilla Peretti, sorella di papa Sisto V. Il feudo, poi, in duecento anni passà dai Peretti ai Savelli, per varie successioni ai Cesarini Sforza fino a Francesco Sforza Bovadilla, ultimo conte al momento dell’abolizione dei feudi avvenuta nel 1806. Ma andiamo con ordine e torniamo indietro, al tempo dei Piccolomini che al cospetto delle successive famiglie si dimostrarono dei giganti. Il mecenatismo toscano trovò in Antonio e nei suoi discendenti, sia maschili che femminili, dei veri paladini.
I Piccolomini governarono la Contea di Celano prestando grande attenzione sia alle cose che alle persone. Certo anche loro facevano i propri interessi, ma riuscivano a farlo al meglio curandosi anche di quelli della gente comune. Come si vedrà, Conti e Contesse della casata interverranno in prima persona nella vita sociale della Terra di San Sebastiano e nella cura dei suoi beni che, ovviamente, erano di sostanziale proprietà dei Piccolomini stessi, come d’altronde lo erano stati dei loro predecessori i quali, però, li avevano lasciati andare in rovina senza curarsene affatto.
Ferdinando I Re di Napoli, per ricompensare Antonio Piccolomini dei servigi prestati nella guerra contro Giovanni d’Angià, dopo avergli dato in sposa Maria, figlia naturale legittimata, nel 1464 gli concesse il contado di Celano, i feudi di Balsorano e Carapelle, il marchesato di Capestrano e quello della Terra di Scafati. A quel momento, come riporta il Corsignani nella “Regia Marsicana”, il contado di Celano era cosi composto: “Celano, Agello, Sant’Eugenia, Paterno, San Petito, Ovindoli, Robori, Cerchio, Colle Armeno, Pescina, Città Marsicana ( San Benedetto dei Marsi ), Venere, Castel Vivo, Ortucchio, Arciprete col piano di Santa Rufina dello stesso territorio, Luco col diritto di pesca, Bisegna, San Sebastiano, Aschio, Speron d’Asino, Cucullo, Licio, Baronia Subreco, Castel Gagliano, Castel Vecchio, Secenari, Castel d’Ilerio, Gordiano Sicoli. Mentre la baronia di Balsorano comprendeva oltre alla stessa Balsorano, Morreno e Castel Nuovo; quella di Carapelle, Carapelle colle sue dipendenze; nel Principato Citra, Scafati colle sue dipendenze”.
L’attivismo dei Piccolomini portò un fervore di fabbriche e commerci fino ad allora sconosciuto nella zona che risentiva ancora del torpore dei secoli bui appena passati. Il castello di Celano venne pressoché rifatto, quello di Ortucchio abbattuto e ricostruito cosi bene da divenire, all’epoca, un modello di architettura militare da prendere ad esempio. Mentre il ramo cadetto si interessava alla gestione politica della contea e ai castelli, le Contesse consorti dedicavano il loro tempo al miglioramento delle chiese cadenti e spesso abbandonate, facendole ricostruire, restaurare e riaprire al culto. Questo loro interessamento, come vedremo, a volte sconfinava in tentativi poco ortodossi di intromissione nella vita delle parrocchie, imponendo ora un “Chierico” ora un altro. Ma non sempre, nonostante il peso della casata, il disegno riusciva.
La Chiesa, forte della propria indipendenza, reggeva la botta e il più delle volte non sottostava alla “raccomandazione” che, vista l’insistenza, appariva imposizione. Ad essere preso di mira, più che la Parrocchia di San Pancrazio, era il monastero di San Sebastiano il quale, a differenza delle altre chiese del contado dipendeva dal monastero di San Pietro in Lago di Villalago, che faceva capo a sua volta all’Abbazia di Montecassino e, come feudo, apparteneva ai Conti di Anversa. Il voler mettere “Chierici” di fiducia nella struttura del monastero di San Sebastiano, da parte dei Piccolomini poteva significare estendere il controllo anche su quella piccola “enclave” sorta sulle rive del fiume Giovenco.
Monsignor Giuseppe Celidonio, nella sua storia della Diocesi di Valva e Sulmona ricorda che San Pietro in Lago aveva quindici “grance”, la più importante delle quali era quella di San Sebastiano tanto da scriverne “…era Prepositura importante, e se ne trovano molte collazioni”. Dalle carte valvensi, risulta infatti che, il 18 ottobre del 1469, il Vescovo Modenese, Governatore Generale dell’Abbazia di Montecassino, conferisce il monastero di San Sebastiano a Don Ruggiero di Nicola de’ Ruggeri di San Sebastiano, con Carlini 4 di pensione a Montecassino. Nel 1482, da Giovanni Cardinale d’Aragona, il monastero viene conferito a Beniamino Antonio Renaldo di San Germano. Nel 1494 è già Canonicato: “Canonicatus in Ecclesiam Sancti Sebastiani, grancie San Pietri de Lacu”, si conferisce a Don Giabuccio di Paolo di Villalago Preposito di San Pietro, “qui habebat facultatem conferendi beneficia ab Ab. Cass. “, a Don Angelo di Bisegna, vacante per morte del fu Don Nicola Canonico. Nel 1523, troveremo un documento da riferirsi a Don Amicheto Preposito. Nel 1539, Canonicato e prebenda si conferiscono da Angelo Sangrino Principe Cassinese, a Don Nicola di Paolo de’ Paulis di Castro Sperone, vacante per “resignazione del chierico Gregorio di Palmerio di detto Castro”.
Nel 1557 il sesto Canonicato, vacante per la morte del detto Don Nicola, fu conferito per Ignazio Di Napoli a Don Marco Antonio Lanario di Tramonti. Nell’inventario dei beni di San Pietro in Lago a tutto il 1523 si legge: “Sancto Sebastiano qual tene Don Amicheto Preposito rende de censo de grano tomola 2. Ad una terra qual rende quando se semina di affitto a beneplacito, tomola 2. La mola con due Valchere si affittano anno per anno o vero de triennio in triennio a ragione di Ducati 25 l’anno, quando plus quando minus”. Le quindici “Grance” e la stessa San Pietro in Laco, fruttavano in tutto circa 140 Ducati. Da ciò si deduce che il monastero di San Sebastiano era una delle “Grance” più redditizie del monastero di San Pietro. Anche questo, forse, muoveva gli appetiti dei Piccolomini che erano si mecenati illuminati, ma anche accorti gestori dei propri interessi.
Notizie a riguardo di queste schermaglie e della storia stessa del monastero di San Sebastiano ce le fornisce ancora una volta l’Arciprete Don Giambattista d’Arcadia: “Dall’appartenere la chiesa di San Sebastiano al monastero di Villa Lago che come si ha dagli scritti della vita di San Domenico di Foligno, il di cui dente miracoloso si venera in Cocullo, venne circa il fine Decimo e il principio del Undecimo secolo fondato da questo Santo Abbate puà credersi che anca essa allora da lui si fondasse, o almeno venisse compresa fra le chiese site nella Contea de’ Marsi di Valva e di Chieti, che per abitazione de’ monaci si assegnavano in quel tempo al nominato monastero di San Pietro “. Dunque, il monastero di San Sebastiano fu fondato o fatto fondare dallo stesso San Domenico. Anche questa volta l’intuizione del d’Arcadia trova riscontro in documenti ufficiali, anzi, in questo caso si tratta di “solidi” documenti rappresentati dall’iscrizione della sedicesima formella apposta sulle porte di bronzo della basilica di Montecassino, fuse nel 1066, dove è scritto: “Sanctus Petrus de Lacu cum quindecim cellis suis”. Non c’è dubbio che l’importante scritta consente di datare la costruzione della chiesa di San Sebastiano prima del 1067, ovvero, tra il 1017 anno in cui San Domenico fondà il monastero di San Pietro in Lago e il 1067 anno in cui, come vedremo appresso, i Conti Teodino, Randisio e Beraldo, lo donarono a Montecassino. L’inizio della fine per il decaduto monastero di San Sebastiano in riva al Giovenco, si concretizza con l’atto di donazione di San Pietro in Laco ai monaci di Montecassino, stilato dai Conti Teodino, Beraldo e Randisio, appunto nel 1067.
Per circa quattrocento anni i Benedettini amministrarono il monastero di San Pietro in Laco e, come vedremo, mantennero la loro giurisdizione anche sulla chiesa e l’annesso monastero di San Sebastiano. Questo fino al 1480 quando le fortune dei Monaci andarono a declinare, non solo in questa Diocesi, ma in tutto il Paese. L’illuminismo, squarciando le tenebre del medioevo, apri le menti a nuove idee, fece calare le crisi mistiche e con queste la vocazione monastica. Di contro cresceva l’altra chiesa, quella Secolare, che fu lesta a prendere il posto lasciato vacante dai monaci di ogni Ordine.
Ai Benedettini di San Pietro in Laco e del monastero di San Sebastiano subentrarono i preti Secolari i quali, con i “beni” si accollarono anche i “pesi” degli obblighi che consistevano nel servire la chiesa, corrispondere i canoni ai monasteri dai quali dipendevano, e curare le anime di quella parte della Diocesi. Con il nuovo assetto la chiesa di San Sebastiano, divenuta Collegiata di Preti Secolari, era composta da sei Canonici uno dei quali era Preposto, un altro Arciprete e i restanti Chierici. Questo, almeno, è quanto si desume dalla supplica che l’Università di San Sebastiano rivolse a Monsignor Peretti nell’anno 1627. Ma di questo parleremo più avanti. Nelle carte del processo attivato tra i Conti di Celano e i Vescovi dei Marsi per il padronato dei benefici pretesi dagli stessi Conti ( carte allora in possesso della Curia del Cappellano Maggiore di Napoli ), era conservata la prova evidente dell’esistenza di questa Collegiata con le nomine e le bolle ad essa riferite. Nel foglio 109, per esempio, figura che Giovanna, Duchessa di Amalfi e Contessa di Celano, nel 1499 presentà alla Prepositura di San Sebastiano il Chierico Berardino di Giampietro Amico de Lecta de Ajello.
La richiesta era diretta “ad Reverendum Prepositum S. Petri de Lao” al quale spettava l’istituzione dei Chierici del monastero di San Sebastiano. Nello stesso foglio si legge ancora che la stessa Duchessa il 28 luglio 1502 nominà allo stesso Preposto di San Pietro de Lao per il beneficio di San Sebastiano, un tale chiamato Francescantonio Nanni di Pietrantonio de Letta. Al foglio 112 dello stesso processo c’è la nomina con cui il Duca di Amalfi il 17 settembre 1516 presentà don Francesco di Angelo della Terra di San Sebastiano all’Abbate di Montecassino per farlo istituire in un Canonicato della chiesa di San Sebastiano.
Il passaggio dei poteri avviene in questi anni e appare chiaro dalle decisioni di Monsignor Colli il quale, unendo tutti i benefici rurali della Diocesi al Seminario di Pescina con bolla spedita sotto il 17 agosto 1580, fra gli altri aggregà anche quello di San Sebastiano, che dava una rendita di ottanta Ducati: ” Ac in territorio S. Sebastiani, beneficium S. Sebastiani et cuius octaginta”. Probabilmente si trattava di un semplice beneficio senza Cura di Anime anche se, a quanto sembra, la Prepositura non potesse allora passare per un beneficio totalmente semplice, essendo il di lei Rettore anche Capo di quel Capitolo, e che quindi doveva tenere la Cura delle Anime, o almeno qualche diritto parrocchiale sopra la Terra di San Sebastiano che, come si vedrà più avanti, manteneva il diritto di seppellire i morti nella propria chiesa. Tutto ciò conferma che, ancora nel 1580, i due territori erano separati; in alto comandavano i sacerdoti della Parrocchia di San Pancrazio e l’Università, in basso i Secolari del monastero e della chiesa di San Sebastiano. Tanto è vero che, avendo mantenuto questi ultimi il diritto a seppellire i morti nella propria chiesa, il parroco di San Pancrazio, dopo aver officiato il rito funebre nella sua chiesa, accompagnava la salma fino ad un certo punto della strada che attualmente porta alla Ferriera, dove l’accompagno cantava la “Libera” e cedeva il feretro ai sacerdoti della chiesa di San Sebastiano i quali provvedevano alla sepoltura.
Il luogo in questione, indicato da una Croce in legno simile a quella che oggi possiamo vedere all’ingresso di San Sebastiano, si trovava ad una cinquantina di metri dal laboratorio della falegnameria di Gaetano Di Flauro. I Vescovi de’ Marsi dovettero riuscire nell’intento di sottomettere alla loro giurisdizione la chiesa di San Sebastiano, tanto che nel foglio 183 del citato processo, figura la bolla con la quale “Franciscus Michel, Dei et apostolica sedis gratia, (….) Marsicanus Alme Urbis Gubernator”, il 13 marzo 1547 conferi con autorità ordinaria a don Pompeo Piccolomini d’Aragona il beneficio di Santa Cristina Sine Cura, ed un Canonicato di San Sebastiano, anche questo senza Cura, nonostante i Conti di Celano cercavano di far valere inutilmente i loro presunti diritti. Di questa resistenza troviamo traccia nel processo del padronato chiesto al Vescovo dei Marsi da Donna Silvia Piccolomini, Duchessa di Amalfi, a favore di don Fabrizio di Orante.
Non si sa se questa nomina sia stata accettata oppure no, come non si trovano positive testimonianze per un’altra richiesta di Canonicato, avanzata sempre al Vescovo de’ Marsi dalla Duchessa Donna Costanza il 25 marzo 1573, a vantaggio di un tale Don Giacomo Mattucci. Anzi, considerando che Monsignor Giambattista Milanesio, allora Ordinario de’ Marsi, con bolla da lui spedita in “datum in Arce Avezzani nostre residentie ad presens, sub anno a Nativitate Domini 1573, indictione prima, die vero undecima mensis aprilis”, conferiva con autorità ordinaria a Don Gasparo Ubertini l’arcipretura di San Pancrazio, un Canonicato e le prebenda dalla chiesa di San Sebastiano, possiamo arguire che le pretese dei Conti di Celano sostanzialmente non erano state accolte. La preziosa opera dell’Arciprete Don Giambattista d’Arcadia conferma, indirettamente, le vicende storiche che muovevano l’Abruzzo in quegli anni di confusi ideali, di scontri tra Signorie, di lotte di confine e di casato dove la Chiesa, di volta in volta, si trovava a far la parte del pacere o quella del terzo incomodo.
Alle lotte tra i signori si aggiungevano poi quelle tra sacerdoti e monaci, dove i primi apparivano chiaramente come potere emergente e i secondi come casta avviata ad un rapido devastante declino. Anche su questo tema il d’Arcadia fornisce notizie di prima mano che contribuiscono alla scrittura della “microstoria” di San Sebastiano: “Riguardo l’Arcipretura di San Pancrazio scrive ancora il sacerdote posso assicurare di non essermi passata sotto l’occhio sua memoria più antica di quella, che si è conservata nella cennata bolla di Monsignor Milanesio ed é che il paese fosse diviso in due Parrocchie e San Pancrazio fosse la chiesa della parte del paese superiore, che nel sito dove attualmente si trova la Terra di San Sebastiano vi stesse un villaggio totalmente diverso da quello che rimaneva nel piano e Luogo in cui esiste la chiesa di questo Santo “.
Partiti i monaci, gli abitanti delle case che erano sorte attorno alla chiesa di San Sebastiano si unirono a quelli della città alta. In quel periodo, probabilmente, venne riconosciuta l’Arcipretura alla chiesa di San Pancrazio la quale, tuttavia, rimaneva di padronato dell’Università, i responsabili della quale provvedevano alla “Presentata” del nuovo Arciprete ogni qualvolta che la sede restava vacante. Quando nel 1728, in esecuzione delle decisioni prese nel Concilio Lateranense del 1725, Papa Benedetto XIII, diede disposizione che si facessero gli inventari di tutte le chiese, cappelle, e benefici della Diocesi dei Marsi, venne certificato che l’Università della Terra di San Sebastiano da centosedici e più anni era in possesso del diritto di decidere in “Pubblico Consiglio” la nomina e la “Presentata” del nuovo Arciprete.
Lo stesso d’Arcadia conferma il potere che aveva l’Università di San Sebastiano sulla chiesa di San Pancrazio e torna sulla singolare usanza dei funerali svolti in due distinti momenti: “Che la cosa sia andata cosi, e che l’anzidetta chiesa di San Pancrazio sia stata o sia dipendente da quella di San Sebastiano si rileva dal non aver avuto il diritto di seppellire i morti che dovevano portarsi alla ridetta chiesa di San Sebastiano; costumanza che si pratico anche dopo che la suddetta chiesa si lascio dai monaci, e passo ad essere chiesa Collegiata di Preti Secolari, e sta in attuale osservanza, con tutto che i Canonici che prendono possesso di quella di San Sebastiano, sono stati trasportati e facciano le loro funzioni in San Pancrazio; anzi, in comprova maggiore deve sapersi che in occasione de’ funerali vi è presentemente l’uso di fermare il cadavere quando giunge nel sito vicino al mulino, dove trovasi una croce di legno ed ivi è costume cantargli la ‘Libera’, e dargli l’assoluzione. I vecchi del paese dicono che si faccia in osservanza di quanto si costumava anticamente prima che si unissero i Canonici dalla Collegiata di San Sebastiano coll’Arciprete di San Pancrazio, giacchè il luogo di detta Croce era il termine della giurisdizione del nominato Arciprete il quale, giunto là, dopo aver cantata la detta ‘Libera’, consegnava il morto alli Canonici della Collegiata di San Sebastiano e se ne tornava indietro col suo accompagno”.
A Monsignor Milanesio che conferì con autorità ordinaria l’Arcipretura di San Pancrazio ed il Canonicato di San Sebastiano, succedette nel Governo della Diocesi de’ Marsi Monsignor Matteo Colli che ne prese possesso il 23 maggio 1579, come appare negli atti riferiti a quell’anno, del Notar Marino Migliori di Pescina. Monsignor Colli fu zelantissimo nel promuovere l’esecuzione dei decreti del Concilio di Trento, e quindi con l’unione dei benefici eresse molte chiese della Diocesi in Collegiate, e rimpinguà il Capitolo di San Sebastiano annettendovi un’altra chiesa come appare nei fogli 221 e 222 del citato processo della Curia del Cappellano Maggiore, dove si trova la lettera scritta il 18 settembre 1579 dal Duca Giovanni Piccolomini al Vescovo dei Marsi nella quale, fra l’altro, si parla di unire due chiese in San Sebastiano e fare una Collegiata composta da un Abbate, sei Canonici, e due Chierici; in quell’occasione il Duca vi acconsentiva purchè la nomina fosse restata per la sua Casa.
Non si sa se questo trattato ebbe il suo effetto, ma nutriamo forti dubbi considerando che Monsignor Colli, il 17 agosto 1780, aggregò al Seminario Diocesano il beneficio di San Sebastiano. In effetti la Collegiata di San Sebastiano venne unita a quella di San Pancrazio solo sotto il vescovado di Monsignor Peretti il quale fece trasferire il Capitolo e sopprimere la Prepositura che allora era vacante e. peraltro, mancava anche di un altro Canonico. Cosi la nutrita Collegiata si ridusse all’Arciprete e tre soli Canonici. Molto comprensibilmente, nelle sue carte, l’Arciprete Don Giambattista d’Arcadia dedica molto spazio ai