LO CHALET TORLONIA (costruzione)

Il legno, favorito dalle proprie caratteristiche di lavorabilità, leggerezza e facile reperibilità, è da sempre considerato un fondamentale materiale da costruzione.
Il suo impiego in questo ambito è documentato, a ritroso, fino alla remota preistoria. Tralasciando le testimonianze più lontane, non perché prive d’interesse, possono essere citate numerose tipologie di strutture lignee di fabbricati ideate e realizzate in epoche storiche: nei primi secoli del secondo millennio, in Francia la costruzione a “pan de bois”, in Germania la “Fachwerkbau”, in Inghilterra le costruzioni rurali per granai dette “barn”, in Norvegia le chiese a pilastri chiamate “stavkirker”; più recenti sono la “gagiola” di Lisbona, la “casa baraccata” Calabrese e, infine, la “balloon frame” di Chicago nella quale la versatilità del materiale legno viene esaltata dalla semplicità concettuale della struttura costituita esclusivamente da tavole collegate con soli chiodi metallici.

Le testimonianze storiche più suggestive relative all’impiego del legno nella costruzione di edifici, ci giungono, però, dalla Cina dove alcuni fabbricati, eretti un migliaio di anni or sono, nel IX e X secolo d.C., sopravvivono ancora oggi.
La lunga durata di questi edifici può essere attribuita a diversi fattori interconnessi la cui combinazione, nel complesso, non può essere soltanto casuale ma altresì potrebbe essere la conseguenza di considerazioni puramente razionali.

Lo Chalet Torlonia, anche se non può vantare la vetustà dei succitati edifici, nondimeno possiede un proprio fascino che, lungi dall’essere esclusivamente estetico, risulta intriso di una sapiente conoscenza del materiale legno e di un’abile lavorazione. Giuseppe Valadier, titolare della cattedra di “Architettura pratica” all’Accademia di S. Luca a Roma dal 1812 al 1839, nelle sue lezioni rimanda continuamente all’esperienza pratica ed alle regole che ne derivano (Pallottino); ciò mette in evidenza, in quell’epoca, la centralità della figura del mastro e del “pratico” valente rispetto a quelle dell’architetto disegnatore il quale, “… ,tuttavia, deve conoscere praticamente, per mezzo dell’esperienza la resistenza dei legni, …., la potenza della vite, …” (Valadier). Sarebbe stato molto interessante, pertanto, che lo sforzo compiuto da chi scrive per rintracciare i progetti originali fosse andato a buon fine in quanto è soltanto attraverso di essi che si può valutare il contributo individuale del progettista e quello del costruttore nella definizione delle soluzioni tecniche adottate per il manufatto in studio, la cui epoca di costruzione, si ricorda, succede di poco quella delle lezioni del Valadier.

Analizzando il manufatto dal punto di vista costruttivo nell’intento, cioè, di apprezzare le soluzioni tecniche adottate, bisogna tenere presente che la lettura diretta sul manufatto della tipologia delle unioni realizzate, della loro precisione di realizzazione, della finitura delle superfici di lavorazione, delle tecniche di tracciatura dei pezzi, delle fasi di montaggio progettate, ecc., permette di valutare la capacità degli artigiani costruttori soltanto se posta in relazione con l’attrezzatura disponibile (macchine, utensili, strumenti, ecc.) la quale è possibile desumere dalla conoscenza dell’epoca di realizzazione del manufatto.

Stabilimento a vapore

Nello stesso numero del giornale “L’Italia Morale” già citato per avere recensito lo Chalet Torlonia, si trova anche un articolo d’elogio rivolto al sig. Tersilio Boccaccini, costruttore dello Chalet Torlonia, nel quale si legge: “… noto capo d’arte sig. Boccaccini Tersilio falegname ebanista con importante stabilimento a vapore in Roma, …”. Chi scrive, tra l’altro, ha effettuato anche un sopralluogo nel locale che, a Roma in via Calatafimi n° 47, accoglieva lo “importante stabilimento a vapore”, oggi adibito a garage pubblico; sebbene, per la diversa attività che attualmente esso ospita, sia oggi diviso da un solaio, l’ampiezza e l’altezza del locale non lasciano dubbi sulla “importanza” dello “stabilimento a vapore” lì presente nel passato né perplessità sul fatto che il luogo fosse adatto per costruirvi un manufatto alto circa 12 metri e formato con 30 metri cubi di legame.

Dalla breve nota sul giornale e dal sopralluogo effettuato, con l’ausilio della letteratura specializzata, è possibile immaginare lo stabilimento del sig. Boccaccini. Il termine utilizzato, “stabilimento” e non “bottega”, da solo evoca immediatamente la rivoluzione industriale iniziata, a cavallo dei secoli XVIII e XIX, soprattutto con l’avvento delle macchine a vapore.
La rivoluzione industriale coinvolse anche la lavorazione del legno le cui macchine utensili, però, si affermarono soltanto dopo quelle per la lavorazione del metallo. E’ all’Esposizione Universale di Parigi del 1855, infatti, che si imposero all’attenzione dei tecnici i primi tipi di macchine da legno azionate a vapore e trasmissione meccanica, con perfezionati organi di registrazione e di alimentazione del pezzo e con pesanti incastellature in ghisa per impedire la propagazione delle vibrazioni e dei rumori che ne deriverebbero.
Tutte queste macchine furono realizzate in Inghilterra e negli Stati Uniti da cui poi si diffusero, con diversi modelli, in Francia, Germania ed Austria.
In Italia il loro sviluppo fu più lento nonostante in questo paese la lavorazione del legno avesse raggiunto notevole perfezione.

Ciò fu dovuto, forse, alla carenza di materia prima e di disponibilità finanziarie; infatti soltanto dopo la riforma doganale del 1888, la quale migliorò le condizioni di produzione, lo sviluppo industriale fu favorito anche nel campo del legname e della sua lavorazione (Battaglia). In tale epoca alcuni abili ed intraprendenti mastri artigiani diventarono industriali; nelle loro botteghe sostituirono, allora, seghe circolari e torni rudimentali con macchine ben più potenti e dotate di maggiore precisione nella lavorazione; a queste ne aggiunsero, nel tempo, altre di diverso tipo che in parte ricopiavano i principi di funzionamento delle macchine per metalli da cui derivavano, in parte, invece, cominciavano ad assumere una propria fisionomia, necessaria a sfruttare meglio le proprietà tecnologiche del legno. Il “… noto capo d’arte sig. Boccaccini Tersilio …” era certamente uno di questi mastri artigiani!

Considerata l’ampiezza del locale in via Calatafimi e considerata l’importanza dei lavori ivi realizzati, tra i quali si può accennare soltanto ad alcuni in Roma come quelli del Palazzo Colonna, dell’allora Ministero della Guerra, della neonata Banca d’Italia, è verosimile ipotizzare la presenza, nello stabilimento, di un’attrezzatura completa di sega circolare, sega a nastro con carrello, pialla a filo e spessore, fresatrice toupie, macchine per tenoni e maschiettetura e, di conseguenza, macchine per forare e fare cave e mortase, macchine lucidatrici, affilatrici per lame di sega e coltelli di pialla, ecc.. La sega a nastro iniziò ad essere usata con successo verso la seconda metà dell’Ottocento; essa consisteva in una lama che girava su sé stessa, flessibile e sottile, con una serie di denti finissimi da una parte, mossa da due volani tra i quali era tenuta tesa. La forza motrice era applicata ad uno dei volani, generalmente quello inferiore, mentre l’alto girava libero trascinato dalla lama. La pialla meccanica aveva un utensile costituito da un cilindro metallico con lunghezza fino ad un metro che, ruotando molto rapidamente, fendeva il legname per mezzo di coltelli infilati di sbieco.

Per far funzionare una tale quantità di macchinari era necessario avere a disposizione molta energia. Basti pensare a quanta ne sia stata necessaria per realizzare lo Chalet Torlonia lavorando ben 30 metri cubi di legname.
La scelta del vapore come forza motrice fu quasi obbligata per il sig. Boccaccini in quanto l’energia idraulica, peraltro già in disuso, vincolava la scelta del sito dello stabilimento alla presenza di acqua mentre l’energia elettrica, anche se il motore elettromeccanico era già stato inventato fin dal 1834, ancora non era economicamente conveniente e largamente disponibile.

In uno stabilimento a vapore, per qualunque lavorazione esso fosse stato, tutte le attrezzature potevano essere azionate anche contemporaneamente da una sola macchina a vapore; ad essa erano collegate per mezzo di cinghie, alberi di trasmissione, ingranaggi vari, camme e sistemi biella-manovella che permettevano di distribuire la forza motrice nell’opificio sia per un moto rotatorio che per un moto lineare a seconda delle esigenze dell’utensile da muovere.
La motrice a vapore, inoltre, offriva il vantaggio di poter sopportare uno sforzo, senza guasti nei suoi congegni, per tempi più lunghi che non quelli sopportati dai motori elettrici di contemporanea costruzione. Il combustibile della motrice per la produzione del vapore poteva essere fornito da gas, da petrolio o da altro; nello stabilimento del sig. Boccaccini, però, essendo esso adibito alla lavorazione del legno, è lecito pensare che fosse fornito da scarti di lavorazione, da trucioli della piallatura e dalla segatura; quando, poi, questi non erano sufficienti allora si poteva ricorrere alla legna da ardere o anche al carbon fossile. L’incendio dello stabilimento di via Calatafimi di cui si ha notizia, si può attribuire, pertanto, con ogni probabilità, alla presenza del focolare a legna con il quale, attraverso la caldaia, veniva prodotto il vapore.

Algoritmo costruttivo

Una volta che la scelta del materiale fu completata, il costruttore dello Chalet Torlonia iniziò la sua realizzazione. Chi scrive è certo che immediatamente si pose il problema di un primo assemblaggio presso lo stabilimento, scelta da una parte certamente consigliata per la complessità dell’opera, ma nello stesso tempo sconsigliata per le enormi dimensioni della stessa. Non essendoci documenti che svelino quale fu la soluzione adottata, né potendo assolutamente sperare di trovarne traccia sull’edificio stesso, non resta che porre il quesito a sé stessi e, nel rispondere, fingersi il costruttore. Molti sono gli elementi per una risposta affermativa: il carattere di prototipo dello Chalet; la necessità di provare almeno una membratura per ogni tipo realizzato; lo spazio sufficiente nello stabilimento per un assemblaggio in corso d’opera; la garanzia di un prodotto perfetto, per il buon nome della Ditta.

In ordine all’interpretazione costruttiva dell’opera, nel corso dei sopralluoghi effettuati da chi scrive è stata posta una particolare attenzione al rilievo, sulle membrature, dei contrassegni, detti marche o segnature, effettuati durante le operazioni di lavorazione dei pezzi che avvenivano fuori opera. Per la caratteristica di smontabilità dello Chalet Torlonia, le segnature avrebbero potuto avere, in questo caso, anche lo scopo di assegnare permanentemente a ciascuna membratura sempre la stessa posizione in opera, evitando che si scambiassero tra loro anche quelle appartenenti alla medesima tipologia. Tutto questo al fine di un riscontro, al momento della posa in opera, con l’assemblaggio di prova eseguito nello stabilimento, così da rendere sicura, precisa e spedita ogni ricomposizione del manufatto. Purtroppo i contrassegni ritrovati sono in numero troppo esiguo e pertanto non sufficienti ad alcuna interpretazione; molti contrassegni, infatti, sono stati cancellati da un utilizzo inopportuno del già deplorato “frullino” per ripulire le superfici durante i recenti interventi di restauro.

Pilastri e catene poligonali chiuse

I pilastri e le travi delle catene poligonali chiuse sono stati certamente i primi elementi realizzati ed assemblati. La macchina utensile che si è utilizzata con maggiore probabilità, è la sega a nastro con carrello. Il tronco, bloccato sul carrello, si muove verso l’utensile della sega; dopo il taglio porta evidenti i segni della lavorazione. Tra questi, quelli della lama oggi non si riscontrano affatto.
Su un lato esterno di ciascun pilastro, dove poggia il pannello chiuso, per tutta la propria altezza, si nota una scanalatura nascosta da un listello chiodato delle dimensioni di 3,5 cm. Come verrà detto in seguito, ma anche per il carattere di stabilità conferito al listello dall’uso di chiodi e non di viti, tale scanalatura certamente non può essere servita per manovrare durante il montaggio dei pannelli e delle vetrate. Per avere la certezza della sua funzione sarebbe necessario rimuovere il listello chiodato cosa, questa, da rinviare in occasione di un eventuale cantiere studio, per non rischiare danneggiamenti al manufatto. Si può in ogni caso tentare un’ipotesi: il listello copre i segni inevitabili dovuti al bloccaggio del tronco sul carrello per la lavorazione alla sega a nastro.

Erigere i pilastri lignei, anche se di notevoli dimensione, non deve aver costituito operazione così difficile come muoverli, dopo averli eretti, al fine di centrare i fori per le chiavarde a vite di collegamento con le catene poligonali chiuse.
Già in questa prima fase del montaggio, quindi, non si è potuto rinunciare ad impalcature ed argani, fissi e mobili, di cui i carpentieri della fine dell’Ottocento erano ben esperti (Scavizzi). Eretti i pilastri e bloccate le catene poligonali chiuse, la struttura dello Chalet iniziava ad assumere una fisionomia di solidità.

Pannelli laterali

I pannelli laterali chiudono sei facce del prisma ottagonale (due facce hanno i portoni d’ingresso) dalla catena poligonale chiusa bassa a quella intermedia, poggiando su una trave (20 cm x 10 cm) con funzioni di soglia. Essi appaiono esternamente divisi in quattro sezioni per mezzo di un montante verticale posto al centro della larghezza e di una traversa orizzontale posta a circa ¼ dell’altezza. Ciascuna sezione tra due montanti e due traverse, tamponata dall’interno con tavolato, porta una Croce di S. Andrea costituita da due saette inclinate in senso opposto che si incrociano nel mezzo. Le due sezioni inferiori, insieme, costituiscono un unico telaio rettangolare indipendente, mentre quelle superiori ne hanno solamente l’aspetto. Montanti e traverse dei telai rettangolari inferiori, infatti, sono assemblati con perni di legno nelle unioni ad angolo prima che i telai stessi siano fissati nelle apposite sedi tra i pilastri attraverso due robuste chiavarde a vite per ogni lato.

Ciò non avviene, invece, per le membrature superiori del pannello chiuso dove i montanti sono fissati ai pilastri senza essere resi precedentemente solidali con le corrispondenti traverse. Dopo aver assemblata tra due pilastri l’intelaiatura completa del pannello, è possibile, dall’interno dello Chalet, porre in opera le Croci di S. Andrea le quali, avendo tutti incastri a “mezzo legno” non richiedono alcuna forzatura per essere collocate nelle proprie sedi recavate nelle membrature dell’intelaiatura.

Tamponando l’intero pannello con un tavolato avvitato, sempre dall’interno, le Croci si S. Andrea restano bloccate nella struttura appena completata.
Le tavole per la tamponatura, tutte delle medesime dimensioni, si uniscono tra loro per la larghezza, attraverso un incastro del quale sia la scanalatura da una parte che la linguetta dall’altra si sono facilmente realizzati con l’uso della sola sega circolare oppure, più rapidamente, con la fresatrice toupie.

La soluzione costruttiva adottata per i pannelli laterali chiusi concilia la semplicità costruttiva con la semplicità d’assemblaggio senza trascurare, però, l’efficacia nella funzione strutturale di controventatura del fabbricato.
Quanto appena detto non lascia dubbi sulla facilità di montaggio, tra l’altro reso ancor più agevole dalle dimensioni mai eccessive delle singole membrature da maneggiare. La semplicità costruttiva, inoltre, appare evidente nella considerazione della tipologia degli incastri per unioni prescelti, tutti a “mezzo legno”. Questi, infatti, possono essere realizzati generalmente con la sega circolare; in alcuni casi soltanto è preferibile la sega a nastro e raramente si richiede l’uso manuale dello scalpello. Gli incastri a “mezzo legno”, oltre che semplici, sono anche rapidi da eseguire, molto più di ogni altro tipo.
Le membrature delle Croci di S. Andrea poste nelle sezioni inferiori dei pannelli, appartengono a quattro tipologie differenti: quelle che nell’incrocio centrale appaiono continue perché si trovano in primo piano e quelle che, invece, appaiono interrotte perché dietro in secondo piano; quelle destre e quelle sinistre.

La stessa cosa dicasi per le membrature delle Croci di S. Andrea poste nelle sezioni superiori dei pannelli, con in più, però, anche la complicazione di avere un unico verso di messa in opera. Tutto ciò, di per sé, non costituisce una vera difficoltà tecnica per la costruzione e il montaggio; richiede, però, una certa attenzione per evitare evidenti asimmetrie antiestetiche che comunque nulla inficiano strutturalmente.

Di fatto oggi queste asimmetrie sono presenti, limitatamente ad alcune sezioni superiori dei pannelli; si intuisce immediatamente che esse non sono dovute alla sostituzione maldestra di alcune membrature ma a mera disattenzione durante l’ultima ricostruzione del fabbricato nell’attuale collocazione. L’assenza di tali asimmetrie nelle sezioni inferiori dei pannelli è un merito tutto da attribuire all’attenzione del costruttore durante il primo assemblaggio, in quanto si ritiene che i telai rettangolari inferiori, facilmente trasportabili anche se interi, successivamente non abbiano mai subito alcuna smembratura in parti elementari. Gli incastri a “mezzo legno” delle Croci di S. Andrea dello Chalet Torlonia presentano tagli a diverse angolazioni: 64° e 116° per un tipo, 38° e 142° per l’altro.

Quando i carpentieri e falegnami del passato dovevano effettuare tagli ad angolo diversi da 90°, 30° e 60°, è noto che non ricorressero al calcolo trigonometrico ma, in modo più pragmatico, alla così detta “squadra a rami mobili” altresì chiamata “squadra zoppa” o “squadra pazza”. L’uso di questo attrezzo presuppone un modello o un disegno della membratura da realizzare che sia in misure reali. Si ritiene, pertanto, che anche per la costruzione dello Chalet Torlonia si sia fatto ricorso a questo modo d’operare.

Vetrate

Per completare la chiusura laterale del corpo centrale, dopo aver montato in basso i pannelli laterali si può provvedere a montare superiormente la vetrata perimetrale. Questa è identicamente presente su tutti gli otto lati del corpo centrale, a differenza dei pannelli laterali sottostanti i quali lasciano il posto a due portoni d’ingresso. Anche in questo caso la semplicità e l’efficienza sono le caratteristiche predominanti sia nella costruzione delle membrature sia nel loro montaggio. In ciascuno spazio compreso tra due pilastri dalla catena poligonale chiusa intermedia a quella superiore, infatti, i pezzi da assemblare sono veramente pochi: cinque ante per la vetrata di cui tre fisse e due mobili, una soglia, tre tavole orizzontali intere sotto la vetrata e cinque identiche sopra; inoltre, nessuno di questi pezzi richiede forzature di altri già in opera, durante il montaggio.

Quest’ultimo avviene sempre dall’interno del corpo centrale e inizia con le tre tavole sottostanti la vetrata le quali vengono avvitate ai pilastri dopo essere state inserite nell’apposita sede. Lo stesso dicasi per le cinque tavole soprastanti la vetrata dopo che questa è stata fissata, peraltro in modo piuttosto semplice: le tre ante fisse sono avvitate a due traverse orizzontali di cui quella inferiore svolge anche funzioni di soglia; la prima ad essere fissata è quella centrale alla quale, tramite un’unica cerniera per lato, si fermano le due mobili; infine si fissano le due ante laterali che completano anche il fissaggio di quelle mobili, sempre per mezzo di un’unica cerniera, dal loro lato ancora libero.
I vetri di ciascuna anta, divisi in quattro parti sono montati con cornici chiodate.
Si completa la tamponatura fino al tetto con tavole orizzontali intere simili alle altre di cui si è detto, con la differenza che queste sorreggono anche le cinque mensole della grondaia di ogni falda. Internamente il tutto viene rifinito con l’applicazione, sotto la vetrata, di otto pannelli lignei ciascuno recante le scritte di cui precedentemente detto e sopra con alcune pregevoli cornici.

Tetto

I tetti a padiglione, generalmente, hanno una struttura costituita da incavallature displuviali disposte lungo tutte le diagonali, i cui travicelli o puntoni in alto si incastrano insieme, contrastandosi, su un ometto o monaco reale fungente in qualche modo da “chiave di volta”, mentre in basso si innestano nelle travi di una solida intelaiatura poligonale che contrasta le spinte, dirette dall’interno verso l’esterno, che il tetto genera sulle pareti di sostegno.
Queste strutture, che hanno ove possibile saettoni per formare triangoli contro le deformazioni, appaiono complesse e pesanti. Nessuna complessità, invece, mostra di sé l’intelaiatura del tetto dello Chalet Torlonia visibile nelle fotografie prese nel 1978 in occasione del rifacimento del dipinto sottostante (Foto 4); anzi, è ben evidente la sua leggerezza a indicare che, anche in questo caso, le scelte costruttive sono state guidate dalla ricercata smontabilità dell’edificio.
Purtroppo tali fotografie, non essendo state prese con lo specifico scopo di documentare i particolari costruttivi di una struttura che, a breve, sarebbe stata resa invisibile per l’apposizione del nuovo controsoffitto dipinto, non permettono di aggiungere altro in merito alla interpretazione costruttiva.

Pavimento

Nulla si può dire del pavimento ligneo originale in quanto l’intervento di restauro del 1992 sembra aver mantenuto soltanto il disegno del preesistente, tralasciando invece, per disattenzione o per convenienza dell’artigiano, le caratteristiche della lavorazione: basti, per questo, indicare le numerose viti con la “testa a croce”, scelte per fare uso dell’avvitatore elettrico e infisse senza provvedere alla loro scomparsa nelle scanalature delle unioni (procedura questa che impone una precisa sequenza di montaggio e smontaggio, ma che sortisce senza dubbio un migliore effetto estetico finale).

Tipi di collegamenti

Le caratteristiche del legno rendono agevole la sua sagomatura mediante asportazione meccanica di materiale. Ciò ha dato origine alle unioni ad incastro le quali tuttavia, per quanto elaborate siano e pur rappresentando uno degli aspetti più raffinati della costruzione di un manufatto ligneo, costituiscono pur sempre una soluzione di continuità nel materiale e come tale sia un punto di relativa debolezza strutturale, sia un ricettacolo per gli agenti del degradamento biotico. Apparentemente non esistono regole per l’esecuzione delle unioni ad incastro; ciò in conseguenza del loro vasto campo d’applicazione ma soprattutto perché l’unico limite posto alla elaborazione di nuove tipologie è costituito dalla fantasia dell’artigiano. Di fatto, le condizioni di messa in opera degli elementi da unire rende quasi obbligata la realizzazione dell’incastro stesso, pena la sua quasi completa inefficienza.

Un accorgimento ricorrente, che per la sua semplicità ed intuitività è invalso da sempre, è relativo alle proporzioni tra il materiale che viene asportato dal pezzo in lavorazione e quello che invece resta. Ad esempio, è immediato che per un incastro a “mezzo legno” venga asportata una quantità di materiale pari alla metà della sezione del pezzo, così è altrettanto evidente che nel realizzare un tenone risulti proporzionato togliere, accanto a ciascuna delle sue due facce maggiori, una stessa quantità di legno come quella che resta.

Nello Chalet Torlonia le unioni ad incastro non evidenziano particolari ed originali soluzioni; invece, ciò che trasmettono immediatamente a coloro che le analizzano è la praticità di realizzazione insieme all’efficacia e alla semplicità d’assemblaggio. Aspetti, entrambi, non secondari in considerazione della desiderata smontabilità del manufatto e degli utensili per le attrezzature disponibili all’epoca della costruzione. I pannelli laterali, nella parte sottostante al porticato, racchiudono in loro l’espressione numericamente maggiore dell’utilizzo di unioni ad incastro.

Esse sono tutte a “mezzo legno” anche se alcune uniscono più di due elementi come quella tra il montante verticale, la traversa orizzontale e un vertice di ciascuna delle quattro Croci di S. Andrea. Le unioni ad angolo, pur sempre a “mezzo legno”, sono completate ciascuna con due sPinotti o chiodi di legno. Questi si sono resi necessari a causa del particolare utilizzo fatto di tale tipo di unioni, cioè laddove, conformemente ai canoni, dovrebbero scegliersi unioni a ganasce oppure a “tenone e mortasa”. Questo utilizzo, apparentemente eccessivo, delle unioni a “mezzo legno” non è ritenuto da chi scrive un elemento di minor tono rispetto all’intero manufatto, nonostante si sia ipotizzato che nello stabilimento del costruttore non fossero mancate macchine per fare mortase né quelle per tenoni.

Si ritiene, al contrario, una scelta ben ponderata visto che il manufatto era destinato all’aperto: le unioni a “mezzo legno”, più che quelle a “mortasa e tenone”, sopportano meglio le variazioni dimensionali dovute all’umidità le quali, inevitabili in ambiente esterno, potrebbero essere anche consistenti; le unioni a “mezzo legno” raccolgono meno polvere e sporcizia e, di conseguenza, meno umidità e meno agenti del degradamento biotico; infine, le unioni a “mezzo legno” sono più semplici da realizzare anche quando si adoperano macchine utensili, sono più rapide da assemblare e, soprattutto, non richiedono di forzare altri pezzi già in opera.

Unioni con accessori metallici

Le unioni con l’ausilio di organi di collegamento metallici possono, o meno, essere realizzate con parziale asportazione di materiale dalla membratura.
Anche in questo caso, come per le unioni ad incastro, la tipologia dell’estetica non ha limiti né sono limitate le forme degli accessori. La scelta di adottare le unioni ad incastro oppure quelle con l’ausilio di accessori metallici, è imposta dal tipo di sforzo che le membrature collegate devono subire.

Per sforzi di trazione assiale sono preferite le unioni con ausilio di accessori metallici in quanto più semplici da realizzare a parità di garanzia di tenuta, rispetto alle unioni ad incastro; per sforzi di compressione assiale, invece, le unioni ad incastro, assumendo una minore complessità, sono preferite per il loro pregio estetico. Si riporta, tratta dal Breymann, una breve rassegna degli organi metallici di collegamento, con la terminologia in uso nel secolo scorso: chiodi e viti, di cui tutti sono a conoscenza; caviglie semplici, sono grossi chiodi con gambo rettangolare; caviglie composte o chiavarde, se a vite, sono dei grossi bulloni con dado, se a spina, al posto del dado c’è un cuneo o spina da battere; chiodi a ribattitura, si usano in sostituzione delle chiavarde a vite e vengono ribattuti fino a schiacciare il gambo per impedirne l’estrazione; staffe uncinate, hanno forma di U con due punte e servono soprattutto per assicurare le membrature di ferro a quelle di legno; punte da trave, costituite da una punta e da una piastrina, servono per unire membrature che si incrociano.

Inoltre: fasciature, ramponi, ferri d’angolo, scatole in ghisa, tiranti, ecc..
Tutti questi accessori generalmente sono in ferro, ma è stato molto utilizzato anche l’ottone ed il bronzo; raramente l’osso e l’avorio. La loro fabbricazione, nell’antichità esclusivamente artigianale, nella seconda metà dell’Ottocento era già largamente industrializzata; ciò è testimoniato nello Chalet Torlonia dalle numerose viti utilizzate per fissare il tavolato dei pannelli laterali e dalle altrettanto numerose chiavarde a vite adoperate per unire i pannelli lignei laterali ai pilastri, questi e le mensole della grondaia alle catene poligonali chiuse.
L’ausilio di accessori metallici è ipotizzabile anche nella struttura del tetto del corpo centrale per via della presenza, alla sommità, di un’asta di notevoli dimensioni per la cui stabilità, altrimenti, verrebbero richieste soluzioni elaborate difficilmente immaginabili.

Considerazioni relative all’umidità ed alla sporcizia simili a quelle illustrate per le unioni a incastro, hanno guidato anche la realizzazione delle unioni con accessori metallici; infatti, la testa delle chiavarde a vite ed i rispettivi dadi sono stati o meno nascosti nel legno in apposite sedi cave secondo la loro posizione all’esterno o all’interno del fabbricato.

Testi del dott. Roberto Romani

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