Tratto dal libro Storia di Ortucchio dalle origini alla fine del medioevo-Ed. Urbe
(Testi a cura del Prof. Giuseppe Grossi)
Dall’alto-medioevo fino alla prima metà del trecento, Ortucchio si identificava con la storia della sua chiesa di Sanctae Mariae in Ortucla di fondazione farfense e successivamente passata alla Diocesi dei Marsi. Le descrizioni dei documenti, precedentemente esaminati, ci parlano di un piccolo abitato addossato alla chiesa e circondato da modesti campi coltivati. Questa situazione di precarietà e povertà economica, ampiamente documentata anche nei Sussidi Caritatioi della Diocesi dei 3farsi del secolo XIV, era dovuta ad una ideologia economico-religiosa legata a limitati bisogni, alle elemosine, al celibato che portà, insieme a guerre ed epidemie, alla diminuzione della popolazione e quindi delle braccia lavorative. Una economia da sussistenza che portava alla produzione del solo prodotto necessario alla sopravvivenza della comunità della pieve; che non concepiva una economia di scambio ed anche una accumulazione di prodotto di riserva che avrebbe permesso di superare le crisi stagionali, le epidemie, le guerre ecc. (156) .
Questa condizione economica, fortemente aiutata dalla forma-mentis religiosa medioevale, portò con il sistema curtense e con i grandi possedimenti monastici ad un impoverimento del territorio e della popolazione che in esso viveva. Insieme alla documentazione dei Sussidi Caritativi, databili entro il primo ventennio del trecento, un altro documento serve a chiarirci la situazione di Ortucchio, con particolare riferimento al clero della chiesa di S. Maria de Ortucla. Nell’opera del Sella, Rationes decimarum Italiae, vengono descritte le condizioni della gestione delle decime da parte del clero, riferibili nel loro complesso alla decima dell’anno 1324. Al numero 565, il rettore e i clerici sono dichiarati insolventi nel versamento della decima: “… 565 Rectores et clerici de Ortucla… “. Più oltre, al numero 637 è registrato: “…Die V’ mensis praedicti dompnus Nicolaus canonicus / S. Marie de Ortuclis solvit dictis subcollectoribus pro / decimu huius anni VII’ indictionis pro ipsa ecclesia et / cappellis sibi immediate subiectis in urgento carlenis / duobas per tarenum computatis tar. decem… ” (trad. ital.: “… Il giorno 5 del mese predetto, il Signor Nicola, canonico di S. Maria di Ortucchio pagà a detti incaricati della riscossione della decima di quell’anno, dopo la settima intimazione, per quella chiesa e per le cappelle ad essa immediatamente soggette, due carlini in argento del valore di 10 tarini “) (156bis).
L’isolamento e la caratteristica tutta rurale di Ortucchio viene a rompersi verso la seconda metà del trecento con l’arrivo ad Ortucla di genti che provenivano dai centri rurali vicini; Cerquito, Mesula, S. Quirico, Arciprete e S. Rufino. La ragione di questo fenomeno di sinecismo, che si concluse alla metà del quattrocento con l’arrivo degli abitanti di Castulo, fu dovuto alla presenza sul colle di Ortucchio di una grande torre quadrata da poco impiantata (forse da Ruggero II di Celano) e legata ad un porto di chiara ispirazione feudale.
La sicurezza offerta dalla gran de torre, poi riutilizzata come mastio nel castello Piccolomini, e la nuova realtà economica attestata dalla presenza , del porto, influì sulla fase di abbandono degli insediamenti rurali viciniori al colle-isola di Ortucchio. Questa nuova fase dell’insediamento di Ortucchio viene confermata anche dalla chiesa di S. Maria, che subisce i primi rifacimenti che portarono alla creazione delle tre navate che oggi vediamo ed anche alla risistemazione del portale alto-medioevale con l’inserimento del nuovo portale ad arco ogivale di stile siciliano proveniente da una delle chiese benedettine degli insediamenti rurali abbandonati (157).
L’accresciuto bisogno di proteggere la popolazione presente o anche per puri calcoli militari e strategici, portarono successivamente i Conti di Celano a creare intorno alla torre un vero e proprio castello. La tipologia del primo castello, con pianta trapezoidale ornata di torri a U, molto vicina alla cinta del castello di Celano, fa propendere per un intervento del conte Pietro di Celano e successivamente di Lionello Accrocciamura. E’ proprio con Lionello di Accrocciamura, marito di Jacovella di Celano, che il nome di Ortucchio come abitato compare nella storia feudale. Infatti in un elenco fatto compilare dal re Alfonso d’Aragona nell’anno 1445 per la riscossione delle tasse sui baroni, vediamo le terre e i castelli che Lionello possedeva: “… In Abrazzo ultra: Cupistranum, Celanam, Robus, Ominolam, S. Petitus, S. Eugenia, Agellum, Pescina, Spironasinam, Ortucchium, S. Sebastianus, Urniz iurn, Caropelle cum baronia, Civitas Mastre, Caspium, Castrum agri, S. Stephanas, Calasium, Rocca Curculum, Colle armille, Lecce, Ioa… ” (158).
Dall’elenco notiamo che non vengono più citati i feudi di Custulo e Archipetra segno evidente del loro abbandono a favore di Ortucchio ormai avviato a diventare il centro castrale più importante del Fucino orientale. Dopo la morte dell’Accrocciamura il feudo passò alla moglie Jaeovella, figlia del conte Nicolò di Celano, la quale entrò subito in conflitto col degenere figlio Ruggiero Accrocciamura detto anche Roggierotto. Il dramma familiare, che portò alla fine della serie dei Conti di Celano, ebbe come teatro più infame il castello di Ortucchio dove fu rinchiusa Jacovella e dove “…vinta e imprigionata, sofrì lungamente in queste mura e perdonò. Prigioniera ancora, scrisse pietosamente al Papa perché arrestasse i suoi che scesi in campo assalivano la Marsica per toglierla al figlio snaturato. Ma la lettera non valse per lo scaltro Pio II.
I suoi partigiani, condotti da Napoleone Orsini, assediarono il castello infamato che solo poco prima s’era schiuso alla misera madre, lo vinsero, lo distrussero; e con esso fu spento il dominio della dinastia che affogò nel sangue del suo ultimo rampollo legittimo Ruggierotto finito presso il torrente Pratola dalla spada cavalleresca del conte Alfonso Piccolomini e dal colpo di grazia del tronconiere Duca Marino… ” (159). Dopo la fine di Roggierotto il feudo di Ortucchio passò nelle mani di Antonio Piecolomini, nipote del pontefice Pio II, nell’anno 1464. Da un atto di conferma che il re aragonese Ferdinando I fece nel 1484 al Piccolomini (che nell’anno 1461 si era sposato con la figlia del re, Maria), conosciamo i feudi della contea di Celano: “…Celano, Agello, S. Eugenia, Paterno, S. Petito, Ooindoli, Robori, Cerchio, Colle Armeno, Pescina, Città marsicana, Venere, Castel oico, Ortucchio, Arciprete col piano di S. Rufina dello stesso territorio, Luco col diritto di pesca, Bisegna, S. Sebastiano, Archio, Speron d’asino, Cucullo, Licio, Baronia Subreco, Castel Gagliano, Custel vecchio, Secenari, Castel d’Ilerio, Gordiano Siculi…(160).
Fu solo sotto Antonio Piccolomini che Ortucchio assunse l’aspetto di un vero centro fortificato medioevale “… con ottima simmetria con Torrioni ben fatti con quattro Porte, e con Borghi magnifici in parte circondati dal Fucino. Il suo forte Castello, formato di pietre quadrate, e custodito da un profondo Vallone… ” (161). Elemento determinante del nucleo urbano fu il nuovo castello che il Piccolomini costnd riutilizzando in gran parte i resti murari (ancora ben evidenti) del precedente castello dei Conti di Celano.
Pur tuttavia il Piccolomini, nella iscrizione del castello, ha la presunzione di affermare di aver costruito il castello dalle fondamenta (diamo qui la trascrizione esatta dell’iscrizione posta all’ingresso del castello):
Antonias.Picholomineus. de. Aragonia. Amal fiae.dux. 3 – atq(ue) .Celani.comes.Regni. Siciliae. magister iusticiari us.Ad conservandum.in. of fitio.oppidanos.hanc. 7 – arcem.extruxit. ( – ). a. f undamentis. .M.CCC.LXXXVIII.
L’iscrizione (fig. 38), riportata erroneamente da altri autori, presenta nel terzo rigo dopo atq una 3 (e rovescia medioevale), mentre nel settimo rigo, dopo extrurit, fra due punti è il simbolo della mezzaluna dei Piccolomini.
Il senso dell’iscrizione e le implicazioni politiche della presenza dei Piccolomini nella Marsica vengono ben descritte dal Melchiorre: “… E’ appunto il Piccolomini a terminare, nel 1488, la costruzione del castello “per mantenere i terrazzani all’obbedienza”, quasi contemporaneamente alla costruzione di un altro castello, quello di Avezzano, anche esso innalzato da Virgilio Orsini “a sterminio dei sediziosi”. La costruzione quasi sincrona di questi due castelli rappresenta – secondo lo storico aquilano Raffaele Colapietra – un momento fondamentale per la storia di tutta la Marsica, la quale – rimasta culturalmente omogenea per secoli e secoli (nonostante le lotte politiche e dinastiche, la segmentazione feudale, le difficoltà di comunicazione) – viene a perdere la sua unità culturale proprio in quegli anni, quando da una parte i Conti di Albe e Tagliacozzo (Orsini e Colonna) indirizzano la loro politica armentaria verso l’Agro Romano, e dall’altra i Conti di Celano si orientano decisamente per la pastorizia transumante in direzione della Puglia.
Ortucchio ed Avezzano vengono, dunque, a rappresentare i termini estremi dell’una e dell’altra politica; i “terrazzani” da mantenere nell’obbedienza e i “sediziosi” da sterminare non sono altro che gli agricoltori di Avezzano e i pescatori di Ortucchio, entrambi vittime inermi della nuova e differenziata politica armentaria dei grandi feudatari… ” (163). Il castello dunque non rappresentava una difesa dai nemici esterni ma era diretto al controllo degli oppidanos (gli abitanti del borgo-fortificato) di Ortucchio, che erano contrari alla politica armentaria dei Piccolomini-Aragonesi. Ben diversa è la situazione in due centri della valle del Giovenco, Bisegna e S. Sebastiano (geograficamente ed economicamente inseriti in una realtà pastorale) in cui moltissime iscrizioni e simboli (della mezzaluna) databili alla seconda metà del quattrocento, inneggiano ai Pîccolomini con frasi di aperta ostilità verso altre figure di feudatari locali (164).
Questa feudale ostilità verso gli Ortucchiesi è testimonianza dalla divisione operata fra il castello e l’abitato con il fossato e la presenza di molte bocche da fuoco incrociato rivolte verso l’ingresso ed il borgo; ben evidenti sono anche gli stemmi che evidenziano le proprietà acquisite per matrimonio fra Piccolomini e Aragonesi; si notano infatti le mezzelune dei Piccolomini inserite su croci (legame col papato) e le campiture con gigli e ” t. ” degli Aragonesi.
Questa difesa ad oltranza dal borgo sottostante si ricava dalla lettura dell’Antinori, che ci parla di una torre a puntone (pentagonale) posta sul lato del paese ed ora conservata solo in fondazioni: “… L’edificio [il castello] è tutto di pietre quadrate, munito di fossa profonda con propugnacoli, e coe torre angolare daoanti ad esso, per la quale si passa alla Rocca sopra ponte di legno, sospeso da catene di ferro. Per altro ponte consimile, e pure sospeso, si passa dalla Rocca al sito posteriore. Tutta l’opera è di grande robustezza e la rende inaccessibile l’escrescenza del Fucino,che lo circonda anche di là dal ponte con le acque sue, e questo per lo più, talché, collocata quasi sempre in grembo al Lago, quando se ne ritirano le acque si può senza barca, ma di nuovo passare ad essa radendo le acque quelle mura… (165).
Allo stesso Antonio Piecolomini si deve la creazione della cinta muraria munita di torri rotonde, delle porte e della nuova chiesa parrocchiale di Sanctae Mariae ad Caput aquarum. Dall’esame in pianta di ciò che ancora è leggibile della Ortucchio dei Piccolomini (vedi tav. XI) si ricava una struttura urbana di forma rettangolare che tende a restringersi in prossimità del castello che costituisce il vertice e la punta verso il lago. Le mura, nei brevi tratti ancora conservati, erano in opera incerta medioevale con scarpa di base per la difesa piombante e munite di torri ogni 45 ‘ metri. Delle torri rotonde, con scarpa alla base, due sono ancora individuabili nelle divisioni catastali su Via Piccolomini che costituiva il limite sud dell’abitato; un’altra è invece ancora visibile, in fondazione, sul Vico della Torretta.
Le porte erano quattro, come precedentemente descritto dal Corsignani, e sono ancora rintracciabili e conservate nella viabilità moderna (vedi tav. XI) : sul versante nord si aprivano due porte lungo l’asse delle attuali Via di Porta Nuova e Largo Porta Nuova. La porta più vecchia, che precedette la ” Porta Nuova ” conservata nel toponimo urbano, è riconoscibile sul margine nord dell’attuale Piazzale del Castello (tav. XI lettera A); si conserva il lato ovest dell’ingresso a doppia chiusura con mensola e breve attacco dell’arco sovrastante. Sul margine sud dello stesso piazzale era ubicata la porta sud, non più riscontrabile (B) ma posizionabile grazie ad un disegno del Lear del 5 settembre del 1843 (tav. XXXI) in cui si nota una torre avanzata con porta alla base. Un elemento di grande interesse è stato il rinvenimento nel sottosuolo del Piazzale, in scavi recenti (166), di ben due resti di cinte murarie, di cui una certamente relativa ai Piccolomini, mentre l’altra è sicuramente riferibile ad una recinzione precedente.
Questo fatto ci induce a pensare che le due porte (A e B) e parte dell’area interna compresa fra le vie Campana, Italia e Vico Torretta, facessero parte di una prima recinzione del borgo dovuta ai Conti di Celano e che conferiva all’abitato l’aspetto di un castellorecinto. Quindi probabilmente già verso la seconda metà del trecento Ortucchio era dotato di una modesta cinta muraria con al vertice il castello. L’opera del Piccolomini dovette quindi apportare delle modifiche sostanziali soprattutto nell’ingrandimento del borgo raddoppiato nella sua estensione e compreso fra le attuali strade di Via Piccolomini, Largo Porta Nuova e Via Aia che costituiva il limite est dell’abitato. Sulla nuova recinzione furono aperte due nuove porte: la ” Porta nuova ” sul lato nord, sul Largo di Porta Nuova (tav. XI, C) e la porta sud in vicinanza di Via Piccolomini; entrambe collegate dall’asse viario dell’attuale Via Italia che costituiva la strada principale del borgo. Pur tuttavia questa opera di estensione verso est dell’abitato compreso nella nuova recinzione muraria, portò a conseguenze fatali per la Ortucchio dei Piccolomini.
Infatti il nuovo feudatario aveva progettato e ridisegnato i nuovi limiti dell’abitato, castello compreso, tenendo conto dei livelli piuttosto bassi che le acque del Fucino ebbero nella seconda metà del quattrocento. Ma, a partire dal secolo XVII, con le nuove escrescenze del Lago, metà del paese si trovò ad essere bagnata dalle acque fucensi che nel 1816 raggiunsero il limite massimo fino ad occupare l’attuale Via Italia e la scomparsa chiesa di S. Rocco (167). Questa imprevidenza e mancanza di analisi delle variazioni dei livelli del lago, è osservabile nello stesso ingresso lacustre del castello: si può notare infatti che l’apertura, per l’ingresso dal lago con le barche, del vecchio castello dei Conti di Celano era notevolmente più alta di quella dei Piccolomini e che quindi teneva conto di eventuali innalzamenti delle incostanti acque del Fucino.
Notevolmente più bassa e stretta risulta la successiva, firmata sul lato sinistro dalla mezzaluna dei Piccolomini, realizzata dopo un parziale tamponamento della prima apertura e dotata di un sistema di scorrimento verticale relativo ad una saracinesca metallica. L’opera maggiore di Antonio Piccolomini fu soprattutto il potenziamento delle difese avanzate del castello che creavano un cuscinetto fra questo, il lago ed il borgo sottostante. Il castello era infatti dotato, oltre alla ” peschiera ” interna, di una darsena realizzata tramite lo scavo dei profondi fossati, completamente racchiusa fra due cortine murarie, con ingresso ad ovest e due grandi ali di fabbricati (tav. XI, E-F) sui versanti nord e sud che costituivano probabilmente le scuderie e gli alloggi per la truppa. Di questi due fabbricati laterali, il solo ancora ben ricostruibile, è quello sud (F) con pianta rettangolare allungata e con bastione a puntone finale che permetteva di controllare il canale esterno che portava nella darsena interna (fig. 40). Sul lato nord la difesa dell’ingresso che immetteva nella darsena era rafforzata dalla grande torre (ora conservata nelle fondazioni) angolare nord, che permetteva il tiro diretto e di fianco sul primo ingresso ed anche sul secondo che immetteva nella ” peschiera ” interna del mastio.
Altra opera sicuramente ascrivibile al nuovo feudatario fu la edificazione della chiesa parrocchiale di S. Maria di Capodacqua, situata sul margine est del borgo e che venne ormai a sostituire la vecchia Sanctae AIariae de Ortuclu, posta fuori le mura (extra moenia) sulla sommità del Colle ed utilizzata come chiesa sepolcrale. La paternità del Piccolomini sulla nascita della panocchiale è confermata dalla descrizione della chiesa fatta dal Corsignani, che evidenzia la presenza dello stemma dei Piccolomini sul portale ed anche alcune iscrizioni relative alla costruzione del monumento “… Ma passando a favellare del Templo di San Rocco [nel settecento la chiesa fu ricostruita e si chiamò S. Rocco], abbiamo eziandio l’Arma de’ Piccolomini nella sua Porta, dove sta scritto alla buona: Mastro Gio. Francisco de Mattiis de Sulmona fecit hoc opus; e nell’altra banda vi è quella del Comune colla Scrittura non meno incolta in tal modo: Hoc opus fecit fare Donatello Florentino. Matio Gattus Procurator.
Ma perché la detta Chiesa minacciava rovina, perciò anni sono si giva rifabbricando con nobile disegno. In essa anche a maggior comodo conservasi il Venerabile, e si fanno le Sacre funzioni del Preposto e del Clero, ritenendo bensì il primo per suo Titolo quello di Santa Maria a capo d’acqua…(168) .
La chiesa, posizionata sul sito dell’attuale edificio comunale (tav. XI, G), fu poi successivamente demolita, per ragioni igieniche, dopo che era stata utilizzata come fossa comune per seppellirvi i cadaveri degli appestati della grande epidemia che colpi la Marsica e Ortucchio nel 1656. Successivamente ricostruita nuovamente ma col nome di S. Rocco, titolo che mantenne fino al terremoto del 1915 che la danneggiò irreparabilmente (169).
Da questa chiesa viene il pregevole tabernacolo in legno dipinto a tempera, firmato Museo Civico di Sulmona, di cui abbiamo una precisa descrizione del Piccirilli (170).
Dalla osservazione di ciò che rimane dell’Ortucchio del secolo XV, soprattutto delle viuzze interne (tav. XI), si ha l’impressione di essere di fronte ad un impianto urbanistico ben organizzato, quasi moderno, con stradine parallele ed isolati regolarizzati. Purtroppo il terremoto del 1915 ha cancellato i caratteri architettonici del borgo che ci vengono conservati da una immagine fotografica dell’Agostinoni e dalla sua poetica descrizione: “… Le stradette partono quasi tutte a guisa di raggi, dal castello diffidente, spiate in tutta la lunghezza; e sono sempre d’apparenza simile, di forme irregolarissime. Basta presentarne una: nera, in salita, con le mura inclinate a scarpa, di grandezza varia per ogni casa, illuminata qualche ora soltanto per privilegio.
In alto una passerella coperta congiunge spesso due case forse un di nemiche; in basso, sulle pietre che fanno da scalino e intorno alle piccole porte, s’indugia la famigliola pigra che vi brulica intorno la giornata intera…(171).
Dentro questo borgo dovevano essere compresi verso la metà del quattrocento circa 370 abitanti; tutto ciò è deducibile dallo studio del Liber focorum Regni Neapolis redatto sotto Alfonso I d’Aragona ed utilizzato per scopi fiscali e censimento di nuclei familiari denominati fuochi.
Di esso dice il Palozzi: “… La prima e più antica statistica, relativa al Regno di Napoli, fu ordinata nel 1443 da Alfonso I d’Aragona e si basò sul computo, per scopi fiscali, dei nuclei familiari denominati fuochi che sostituivano le collette gravanti sulla rendita. La numerazione dei fuochi era un vero e proprio censimento dei beni e delle persone con la descrizione nominativa del capofuoco (capofamiglia) e di ogni altro convivente, di cui si segnalavano l’età, lo stato civile, il mestiere.
La rilevazione era condotta casa per casa (ostiatim) da un numeratore, delegato dal Governo e affiancato dai deputati (eletti del popolo) dell’Università (Comune). Sulla base del numero dei fuochi si determinava la tassa da pagare (focatico), ma il fuoco non si identificava con la famiglia anagrafica di oggi che coabita e mette in comune i redditi, bensi con l’insieme di persone, unite da vincoli di diversa natura, che traevano sostentamento da un patrimonio comune e dal reddito delle attività dei singoli componenti… ” ‘ . Dallo studio del focolario aragonese del XV secolo sappiamo che Ortuchio aveva 72 fuochi nel 1443 e 74 nell 1447, mentre i centri vicini, Lecce, Licum e 1oa, castrum Ioye registrarono, 106 e 111 fuochi (Lecce) e 85 e 84 (Gioia) ‘”. In base ad un calcolo di cinque persone per ogni fuoco, verificato dagli studiosi di storia demografica, la popolazione di Ortucchio doveva avere nel 1443 circa 360 abitanti e, quattro anni dopo, circa 370. Quindi la popolazione ortucchiese era piuttosto bassa con 370 abitanti a confronto di Lecce dei Marsi che contava 555 abitanti e di Gioia con 425.
A sud del recinto murario, posta sulla sommità del colle, la chiesa di S. Maria di Ortucchio dominava il paese con la sua storia millenaria e con le sue nuove opere d’arte commissionate dal Piccolomini. Il Piccirilli ricorda alcune iscrizioni datanti gli affreschi interni (A.D. M./CCCC/IXX … III) e alla base di una statua lignea di S. Giovanni “… si legge questa iscrizione di lettera teutonica in nero su fondo d’oro:
IONE (DE S)VLMONA. ME FE CIT ANO (D)ONI MCCCCXX XX ADI VIII DE OTTRUBU.
Lo scultore, dunque, fu un sulmonese del sec. XV… ” (174).
La presenza di questi artisti sulmonesi nelle due chiese di Ortucchio è prova dei contatti che dovettero esistere fra Sulmona e Ortucchio soprattutto nell’ottica del legame di Sulmona con la politica transumante dei Piccolomini e Aragonesi. Sulmona rappresentò infatti l’unico centro vicino in grado di esercitare, per la sua struttura cittadina, una forte attrazione soprattutto economica e di mercato per la compera e lo scambio dei prodotti fucensi: nel catasto di Sulmona del 1376 vengono nominati numerosi immigrati marsicani, provenienti da Agello de Marsi (Aielli), Armele (Collarmele), Calistra (Canistro), Carcere (Magliano), Jugana (Gioia), La Citate (S. Benedetto), Marsica, iMonte Agaei (Montagnano), Murro (Morrea), Opi, Ortona amarsi (dei Marsi), Pentema (S. Giovanni di Pentoma) e Trasacho (175).
Nella stessa chiesa, durante il secolo XVI, furono sepolti alcuni personaggi legati alla custodia del castello, di cui il Corsignani ricorda la tomba di Cristofaro Muscatelli: Hic iacet Ortygiae Custos Fidissimus Arcis Cui Dux Alphonsus Maxima cura fuit Muscatella Domus nomen Chrystophorus illi Ortigyae Moriens, conditur hoc Tumulo Chrystophorus Muscatellus De Castro Plebis Obiit EI. Augusti Ai.D.XII. ‘ (176).
Successivamente la chiesa fu utilizzata anche come parrocchiale, sul finire del seicento e fra il 1813-1816, date le continue distruzioni a cui fu sottoposta (ad opera della peste e delle acque del lago) la chiesa di S. Maria Capodacqua o S. Rocco, posta nel borgo sottostante (per il periodo che fu utilizzata come parrocchiale, S. Orante ebbe naturalmente anche il titolo di S. Maria Capodacqua) (177 ). Fu soltanto nel corso del secolo XVII che la chiesa prese il nome di S. Orante, data la presenza nel suo interno dei resti del santo ortucchiese e di un altare dedicato allo stesso di cui il Corsignani ricorda l’iscrizione:
S. O. P. O.
Erectum Ex Charitate . Civium
M. DC. XCI’.
D. F. D. G P (178)
Questa difesa ad oltranza dal borgo sottostante si ricava dalla lettura dell’Antinori, che ci parla di una torre a puntone (pentagonale) posta sul lato del paese ed ora conservata solo in fondazioni: “… L’edificio [il castello] è tutto di pietre quadrate, munito di fossa profonda con propugnacoli, e coe torre angolare daoanti ad esso, per la quale si passa alla Rocca sopra ponte di legno, sospeso da catene di ferro. Per altro ponte consimile, e pure sospeso, si passa dalla Rocca al sito posteriore. Tutta l’opera è di grande robustezza e la rende inaccessibile l’escrescenza del Fucino,che lo circonda anche di là dal ponte con le acque sue, e questo per lo più, talché, collocata quasi sempre in grembo al Lago, quando se ne ritirano le acque si può senza barca, ma di nuovo passare ad essa radendo le acque quelle mura… (165).
Allo stesso Antonio Piecolomini si deve la creazione della cinta muraria munita di torri rotonde, delle porte e della nuova chiesa parrocchiale di Sanctae Mariae ad Caput aquarum. Dall’esame in pianta di ciò che ancora è leggibile della Ortucchio dei Piccolomini (vedi tav. XI) si ricava una struttura urbana di forma rettangolare che tende a restringersi in prossimità del castello che costituisce il vertice e la punta verso il lago. Le mura, nei brevi tratti ancora conservati, erano in opera incerta medioevale con scarpa di base per la difesa piombante e munite di torri ogni 45 ‘ metri. Delle torri rotonde, con scarpa alla base, due sono ancora individuabili nelle divisioni catastali su Via Piccolomini che costituiva il limite sud dell’abitato; un’altra è invece ancora visibile, in fondazione, sul Vico della Torretta.
Le porte erano quattro, come precedentemente descritto dal Corsignani, e sono ancora rintracciabili e conservate nella viabilità moderna (vedi tav. XI) : sul versante nord si aprivano due porte lungo l’asse delle attuali Via di Porta Nuova e Largo Porta Nuova. La porta più vecchia, che precedette la ” Porta Nuova ” conservata nel toponimo urbano, è riconoscibile sul margine nord dell’attuale Piazzale del Castello (tav. XI lettera A); si conserva il lato ovest dell’ingresso a doppia chiusura con mensola e breve attacco dell’arco sovrastante. Sul margine sud dello stesso piazzale era ubicata la porta sud, non più riscontrabile (B) ma posizionabile grazie ad un disegno del Lear del 5 settembre del 1843 (tav. XXXI) in cui si nota una torre avanzata con porta alla base. Un elemento di grande interesse è stato il rinvenimento nel sottosuolo del Piazzale, in scavi recenti (166), di ben due resti di cinte murarie, di cui una certamente relativa ai Piccolomini, mentre l’altra è sicuramente riferibile ad una recinzione precedente.
Questo fatto ci induce a pensare che le due porte (A e B) e parte dell’area interna compresa fra le vie Campana, Italia e Vico Torretta, facessero parte di una prima recinzione del borgo dovuta ai Conti di Celano e che conferiva all’abitato l’aspetto di un castellorecinto. Quindi probabilmente già verso la seconda metà del trecento Ortucchio era dotato di una modesta cinta muraria con al vertice il castello. L’opera del Piccolomini dovette quindi apportare delle modifiche sostanziali soprattutto nell’ingrandimento del borgo raddoppiato nella sua estensione e compreso fra le attuali strade di Via Piccolomini, Largo Porta Nuova e Via Aia che costituiva il limite est dell’abitato. Sulla nuova recinzione furono aperte due nuove porte: la ” Porta nuova ” sul lato nord, sul Largo di Porta Nuova (tav. XI, C) e la porta sud in vicinanza di Via Piccolomini; entrambe collegate dall’asse viario dell’attuale Via Italia che costituiva la strada principale del borgo. Pur tuttavia questa opera di estensione verso est dell’abitato compreso nella nuova recinzione muraria, portò a conseguenze fatali per la Ortucchio dei Piccolomini.
Infatti il nuovo feudatario aveva progettato e ridisegnato i nuovi limiti dell’abitato, castello compreso, tenendo conto dei livelli piuttosto bassi che le acque del Fucino ebbero nella seconda metà del quattrocento. Ma, a partire dal secolo XVII, con le nuove escrescenze del Lago, metà del paese si trovò ad essere bagnata dalle acque fucensi che nel 1816 raggiunsero il limite massimo fino ad occupare l’attuale Via Italia e la scomparsa chiesa di S. Rocco (167). Questa imprevidenza e mancanza di analisi delle variazioni dei livelli del lago, è osservabile nello stesso ingresso lacustre del castello: si può notare infatti che l’apertura, per l’ingresso dal lago con le barche, del vecchio castello dei Conti di Celano era notevolmente più alta di quella dei Piccolomini e che quindi teneva conto di eventuali innalzamenti delle incostanti acque del Fucino.
Notevolmente più bassa e stretta risulta la successiva, firmata sul lato sinistro dalla mezzaluna dei Piccolomini, realizzata dopo un parziale tamponamento della prima apertura e dotata di un sistema di scorrimento verticale relativo ad una saracinesca metallica. L’opera maggiore di Antonio Piccolomini fu soprattutto il potenziamento delle difese avanzate del castello che creavano un cuscinetto fra questo, il lago ed il borgo sottostante. Il castello era infatti dotato, oltre alla ” peschiera ” interna, di una darsena realizzata tramite lo scavo dei profondi fossati, completamente racchiusa fra due cortine murarie, con ingresso ad ovest e due grandi ali di fabbricati (tav. XI, E-F) sui versanti nord e sud che costituivano probabilmente le scuderie e gli alloggi per la truppa. Di questi due fabbricati laterali, il solo ancora ben ricostruibile, è quello sud (F) con pianta rettangolare allungata e con bastione a puntone finale che permetteva di controllare il canale esterno che portava nella darsena interna (fig. 40). Sul lato nord la difesa dell’ingresso che immetteva nella darsena era rafforzata dalla grande torre (ora conservata nelle fondazioni) angolare nord, che permetteva il tiro diretto e di fianco sul primo ingresso ed anche sul secondo che immetteva nella ” peschiera ” interna del mastio.
Altra opera sicuramente ascrivibile al nuovo feudatario fu la edificazione della chiesa parrocchiale di S. Maria di Capodacqua, situata sul margine est del borgo e che venne ormai a sostituire la vecchia Sanctae AIariae de Ortuclu, posta fuori le mura (extra moenia) sulla sommità del Colle ed utilizzata come chiesa sepolcrale. La paternità del Piccolomini sulla nascita della panocchiale è confermata dalla descrizione della chiesa fatta dal Corsignani, che evidenzia la presenza dello stemma dei Piccolomini sul portale ed anche alcune iscrizioni relative alla costruzione del monumento “… Ma passando a favellare del Templo di San Rocco [nel settecento la chiesa fu ricostruita e si chiamò S. Rocco], abbiamo eziandio l’Arma de’ Piccolomini nella sua Porta, dove sta scritto alla buona: Mastro Gio. Francisco de Mattiis de Sulmona fecit hoc opus; e nell’altra banda vi è quella del Comune colla Scrittura non meno incolta in tal modo: Hoc opus fecit fare Donatello Florentino. Matio Gattus Procurator.
Ma perché la detta Chiesa minacciava rovina, perciò anni sono si giva rifabbricando con nobile disegno. In essa anche a maggior comodo conservasi il Venerabile, e si fanno le Sacre funzioni del Preposto e del Clero, ritenendo bensì il primo per suo Titolo quello di Santa Maria a capo d’acqua…(168) .
La chiesa, posizionata sul sito dell’attuale edificio comunale (tav. XI, G), fu poi successivamente demolita, per ragioni igieniche, dopo che era stata utilizzata come fossa comune per seppellirvi i cadaveri degli appestati della grande epidemia che colpi la Marsica e Ortucchio nel 1656. Successivamente ricostruita nuovamente ma col nome di S. Rocco, titolo che mantenne fino al terremoto del 1915 che la danneggiò irreparabilmente (169).
Da questa chiesa viene il pregevole tabernacolo in legno dipinto a tempera, firmato Museo Civico di Sulmona, di cui abbiamo una precisa descrizione del Piccirilli (170).
Dalla osservazione di ciò che rimane dell’Ortucchio del secolo XV, soprattutto delle viuzze interne (tav. XI), si ha l’impressione di essere di fronte ad un impianto urbanistico ben organizzato, quasi moderno, con stradine parallele ed isolati regolarizzati. Purtroppo il terremoto del 1915 ha cancellato i caratteri architettonici del borgo che ci vengono conservati da una immagine fotografica dell’Agostinoni e dalla sua poetica descrizione: “… Le stradette partono quasi tutte a guisa di raggi, dal castello diffidente, spiate in tutta la lunghezza; e sono sempre d’apparenza simile, di forme irregolarissime. Basta presentarne una: nera, in salita, con le mura inclinate a scarpa, di grandezza varia per ogni casa, illuminata qualche ora soltant