Dopo l’incontro di Teano con Garibaldi, Vittorio Emanuele II° tornò a Torino per inaugurare il primo Parlamento Italiano, nel febbraio 1861, con senatori e deputati di tutte le regioni italiane meno il Veneto, ancora austriaco, ed il Lazio sotto il governo del papa. Nei territori del Sud dilagava il brigantaggio, fomentato dai borbonici e appoggiato dalle autorità pontificie nella speranza di riportare Francesco II° sul trono di Napoli.
Si capì subito la necessità di dare al paese, da poco riunificato, un valido sistema di comunicazioni (strade e ferrovie) per risolvere problemi di carattere politico, militare, economico, finanziario e sociale. Roma non era ancora italiana, così lo studio delle nuove strade ferrate aveva come riferimento obbligatorio Napoli ed altre località a sud di Roma tipo Ceprano. Si studiò una linea Pescara- Sulmona-Avezzano-Sora-Ceprano, oltre a quella Terni-Rieti-Avezzano- Roccasecca-Ceprano; tutti percorsi che correvano paralleli al confine pontificio, utili a schierare le truppe in caso di conflitto con quello stato. Ma il 20 settembre 1870, mutate le condizioni politiche e con Roma capitale del regno, cambiarono radicalmente anche i presupposti per la costruzione delle ferrovie. La carta geografica denunciava il grande vuoto ferroviario dell’Italia Centrale. Validi collegamenti c’erano per tutte le direzioni, meno che per l’Abruzzo, in questa direzione non un chilometro di ferrovia. Questa terra, vicinissima alla capitale, sembrava irraggiungibile.
La regione Abruzzo era in quegli anni isolatissima; qualsiasi attività economica veniva frustrata dalla mancanza di strade e ferrovie. I suoi abitanti impiegavano le proprie energie nell’Agro Romano in veste di coloni, affittuari, o di semplici lavoratori della terra. Erano per lo più utilizzati nei lavori stagionali della semina e dei raccolti. Scendevano dai loro monti a piedi, con mogli e figli, attraversando i pochi ponti in muratura e giungendo stanchi, dopo tre o quatto giorni di cammino, nella Campagna Romana. Altre volte era il belato delle pecore, frammisto al suono dei campanacci che sotto le finestre dei tiburtini, annunciava, nelle lunghe notti di au- tunno, l’inizio della transumanza delle greggi verso i pascoli invernali. La nuova ferrovia permetteva ai lavoratori stagionali di scendere a Roma in condizioni fisiche migliori e di tornare a casa con più facilità. Cereali, vino, prodotti della pastorizia, ortaggi e frutta avrebbero preso la via di Roma in modo spedito. Per Avezzano si apriva una via per lo smercio dei prodotti coltivati sul fondo dell’ex lago. Questi furono gli argomenti degli interventi in Parlamento.
Prima l’onorevole Marco Minghetti poi Zanardelli, ministro dei lavori pubblici, appoggiarono senza riserve la congiunzione della costa adriatica con quella tirrenica. Il 29 luglio 1879 fu approvata la legge n° 5002, la linea ferroviaria Roma-Sulmona era diventata una realtà. Ci si attenne in gran parte al progetto dell’ingegner Coriolano Monti che per primo aveva sostenuto quel tracciato. L’ingegner Giovanni Battista Salvini ebbe l’incarico degli studi al dettaglio che iniziarono nel novembre 1879. La linea, lunga 171 km, avrebbe contato 39 gallerie, 44 viadotti, 7 ponti e 542 opere minori; attraversato 29 comuni, di cui 10 in provincia di Roma e 19 in provincia di L’Aquila. I lavori furono divisi in 11 lotti e la tratta Mandela – Colli di Monte Bove venne assegnata alla ditta Sesto Maggiorani.
Le attività in questo tratto furono rallentate dalla natura del terreno e dal maltempo, solo il 15 giugno 1888 fu ultimata la posa dei binari. Dalla stazione di Cineto fino a quella di Colli di Montebove l’andamento della ferrovia è molto tortuoso, con numerose curve di 300 ml di raggio, sempre in salita fino alla fermata del Cavaliere, segue una leggera discesa fino alla stazione di Carsoli, poi il binario torna a salire fino alla stazione di Colli con una pendenza del 31 per mille.
LA GALLERIA DI COLLI DI MONTE BOVE.
Fra le stazioni di Colli di Monte Bove e di Sante Marie s’incontra il monte Bove che si supera grazie ad una galleria di 3943,13 ml, la più lunga di tutta la linea. La galleria fu scavata nella roccia cretacica con lavori durati quattro anni, dieci mesi e nove giorni, fra grandi difficoltà per le continue infiltrazioni provocate da sorgenti con portate di 260 l al secondo, all’imbocco ovest, e 80 l all’imbocco est. Durante l’attività di scavo alle sorgenti del fiume Turano (o Telone) si mescolarono rigagnoli di petrolio e un forte odore di idrocarburi si diffuse nell’aria, tanto che gli abitanti del pittoresco paese, arroccato sulla sovrastante cresta rocciosa, erano preoccupati per la possibilità di un incendio. Vennero trovate pietre di rara bellezza e fossili a 1500 m di profondità, probabilmente denti di plesiosauro e ittiosauro, animali marini vissuti milioni di anni fa.
ARRIVA LA VAPORIERA.
La ferrovia Manifesto per l’inaugurazione 9 lumen Roma-Sulmona costò 67.740.000 lire e venne inaugurata il 28 luglio 1888. Il treno composto da 18 carrozze, con a bordo moltissime autorità, giornalisti ed invitati, partì da Roma e fece tappa alla stazione di Tivoli tutta imbandierata. Dovunque si esultava, le bande suonavano la marcia reale, le stazioni rigurgitavano di gente e più il treno s’inoltrava, più pittoresco si faceva il paesaggio. Alla stazione di Riofreddo un merci fermo è coperto di cartelloni con scritto: “VIVA IL SENATO, VIVA LA CAMERA, VIVA L’ITALIA”. Ad attendere la vaporiera a Carsoli c’è il sindaco (il cav. Giulio Colelli) che ha indossato la sciarpa sopra la tunica, due studenti dell’università di Roma con i berretti a colori, una povera donna, il cui marito era morto nei lavori della linea lasciandola con quattro bambini, pronta a presentare una supplica alle autorità e molti curiosi.
Ad Avezzano si giunse con due ore di ritardo, ma il grande banchetto preparato si fece lo stesso nei locali del granaio dei principi Torlonia. Alle venti e trenta si era a Sulmona. Fuori la stazione stazionavano le carrozze dell’aristocrazia pronte a portare gli invitati in una città illuminata con lampioncini e ornata con archi floreali.
LE CRONACHE DEI GIORNALI.
Gli inviati dei giornali stesero le loro cronache elogiando il governo, il re e il progresso. Pochi raccontarono le condizioni di vita delle popolazioni toccate dalla ferrovia e, chi lo fece, usò parole crude ed ironiche. Da Il Messaggero, 1 agosto 1888, p. 1. Non si può comprendere il bene che la ferrovia apporta alle nostre contrade, perché non si può avere un’idea dello stato in cui esse si trovano. Qui si vive in pieno oscurantismo, qui l’ignoranza presuntuosa del dispotismo baronale preme la mano sulla incosciente schiavitù operaia -non un barlume del progresso moderno- non un raggio di civiltà.
L’egoismo è troppo forte per poter fare dei sacrifizi, l’ignoranza è troppo crassa per poter nutrire una nobile idea […]. È grande l’opera della ferrovia Roma-Sulmona […] è costata milioni di lire, ma costa anche migliaia di vittime: sono le vittime dei poveri operai schiacciati nei tunnel, soffocati negli scavi di terra sotto massi franosi, consumati dalla miseria e dalla fame […]. Poi prosegue descrivendo i luoghi. […] il paese è brutto, è tutto un luridume; migliaia di contadini abitano tane che si nominano case, tane in cui gli uomini vivono in comunione perfetta con l’arcigno maiale e col paziente e pacifico asinello, tane che putono di letame, e che sono da secoli logore, affumate e cadenti. Sono brutte queste nostre case […] bisogna occultare le nostre miserie all’occhio del forestiero […]. Si ordinano o si impongono le imbiancature delle case; i riattamenti delle vie, gli abbellimenti dei negozi […]. Il paese è rattoppato alla meglio! […] Il banchetto si fa a spese della provincia, le decorazioni a spese del comune […]. Un obolo spontaneo dei signori, dei ricchi che addimostrasse in occasione così importante esistere un barlume di sacrifizio e di abnegazione nei loro animi sarebbe inopportuno … quando v’è della gente che paga per forza.
Il banchetto è di seicento coperti, e si tratta di persone che rappresentano l’aristocrazia ufficiale e ufficiosa, tutte persone eleganti, inguantate, profumate. L’operaio è troppo sudicio per poter far parte di tanto lusso […]. I poveri morti nel lavoro non debbono neppure aver l’onore di essere ricordati per non turbar l’allegria dei banchettanti! Dal Don Chisciotte della Mancia, 24 luglio 1888, p. 1. […] Vidi, fra le notabilità, don Camillo Massimo, principe di Arsoli che, chiacchierando con l’ingegner Maggiorani, diceva d’aver preso parte a quella inaugurazione privata per non intervenire quella ufficiale che avrà luogo sabato […]. A ogni fermata del treno, i villani accorrevano in frotte, con le braccia in aria, agitando il cappello, salutando -non faccio per dire- la civiltà che passava. Ad Arsoli un’altra dimostrazione, con musica. La banda, capitanata da un suonatore con gli occhiali molto compreso della sua missione, era quella comunale, istituita dal principe Massimo, signore del luogo, il quale è stato salutato da una marcia vigorosa sì, ma sconosciuta. Allora, tutti a una voce, i viaggiatori hanno chiesto quella reale. Il corpo musicale s’è agitato un po’ incerto; poi, finalmente […] ha intonato la marcia richiesta […]. Mentre gli […] Arsolani […] si precipi e La banda di Arsoli Il ragazzo abruzzese Il ragazzo di Arsoli tano a baciar la mano al principe, noto un ragazzo il quale se ne sta davanti al treno, con le mani in tasca, e con un’aria di così profonda indifferenza verso tutto e tutti che gli domando; – Di dove sei? – Di nessun posto -risponde filosoficamente.
Si entra in Abruzzo. […] Vi presento […], un piccolo abruzzese, il quale mette tanta forza e tanta gentilezza nella sua attitudine che non posso fare a meno di esclamare entusiasmato: – Ecco di certo una giovine anima incosciente di poeta alla quale non manca che la forma. Mio Dio, se quel ragazzo avesse sette … nari! […] A Carsoli il pranzo -preparato in un vasto stanzone tutto adornato di bandiere e di festoni- è stato eccellente meno un certo Cappon di Galera registrato nel menù ma che meritava di tornare da dove era venuto […]. Alla frutta un dottore, un bel pezzo d’uomo, si è alzato -non si sa perché- per leggere una poesia: ma alla seconda strofa, improvvisamente, è caduta sul poeta e -con un crescendo spaventoso- ha dato il segnale della fine del banchetto […].