TRADIZIONI E FOLCLORE NELLA MARSICA (Contadini pastori e pescatori)

Nei secoli passati, le attivitá delle popolazioni della Marsica erano quasi esclusivamente quelle della pesca nel lago Fucino, della coltivazione dei terreni situati intorno al lago, e della pastorizia legata al fenomeno della transumanza. Alcuni, poi, si recavano come braccianti nella Campagna Romana, da dove spesso tornavano gravemente ammalati, come denunciarono nel 1805 gli amministratori di Castellafiume, ad esempio, in una lettera indirizzata al Vescovo dei Marsi mons.Giovanni Camillo Rossi: «[…] de’ mietitori ritornati dall’Agro Romano, la maggior parte di essi ne sono malati, e le loro malattie si manifestano con carattere acuto». Talvolta, il ritorno dei mietitori dalla Campagna Romana era meno doloroso, come accadde a un certo Francesco Spera, di Ortona dei Marsi, il quale — secondo la testimonianza di un suo compagno di lavoro — tornato nella Marsica durante l’estate del 1741, aveva vissuto la seguente esperienza: «[…] si era dormito con Domenica, figlia di Palmantonio Grosso di detta Terra d’Ortona; e che egli aveva portato la carne; Perna, madre d’essa Domenica, gli aveva fatto li maccaroni; e, dopo aver cenato assieme, si era la notte dormito ignudo nel letto con la suddetta Domenica, ma che non l’aveva toccata».

Altre volte, il lavoro nei campi (che si faceva anche nella Marsica, e non necessariamente nell’Agro Romano) risultava un po’ meno pesante (almeno per la vicinanza della propria casa), ma non per questo meno pericoloso. Ascoltiamo un’altra testimonianza, che si riferisce ad una rissa tra mietitori avvenuta in territorio di Paterno, presso Avezzano, il 26 luglio del 1678: «Giuseppe latosti hieri stando alli metitori con un altro suo fratello, andó Stefano Lucantonio con mastro Giovan Pietro suo cognato, dove arrivati, cominciorno a maltrattare di male parole li detti metitori a causa che gli avevano fatto honore con parole, conforme l’uso della patria. Et così li detti supplicanti dissero alli detti che non si pigliassero collera; ma il cognato di Stefano gli corse addosso con dirgli male parole, et poi cavó mano a cortello alla genuésa, conforme dissero li detti metitori».

Dunque, questi mietitori che (secondo la testimonianza) avevano provocato (o, per lo meno, alimentato) la rissa con le loro «incanate», con il loro «fare honore conforme l’uso della patria», erano tutti della Valle Roveto, da dove spesso (nei secoli passati) proveniva la mano d’opera bracciantile per i proprietari agricoli della Marsica. E le «incanate» dovevano essere anch’esse d’importazione, se i marsicani reagivano in modo cosí violento, da tirar fuori perfino i «coltelli alla genovese»! Una delle attivitá connesse con l’agricoltura (e molto diffusa nella zona attorno al Fucino, quando c’era ancora il lago) era certamente la vendemmia.

Vigneti dovevano essercene in abbondanza lungo le coste del lago, stando almeno alle dichiarazioni risultanti dai documenti d’archivio e dalle memorie dei viaggiatori stranieri che venivano a visitare l’Abruzzo. Sul tema della vendemmia, c’è tutta una letteratura che offre di essa un’immagine serena e divertente:
« Tra i ricordi d’infanzia, v’è quello rappresentato dal lento e sordo mulo, con due tinozzi ai lati, che si arrestava a metá del cammino, e non voleva piú procedere verso la vigna. II giovane, il ragazzo che cavalcava quel pigro animale, doveva scendere e proseguire a piedi verso il vigneto, dove, insieme con i piú grandi, partecipava alla fatica del raccolto, fatica che non si concludeva sul campo, ma che trovava il suo naturale epilogo nella cantina di famiglia, dove i grappoli d’uva venivano pestati dai nudi piedi (ma ben lavati, ricordo!) di un robusto e tenace contadino. E, alla fine della vendemmia, vi era la festa sull’aia: tutto il vicinato partecipava alla celebrazione della gioia. Veniva perfino la vecchia zia Nannina, paralitica, ma capace anche lei di rallegrarsi e di ridere all’allegria e al divertimento degli altri.

Al suono di qualche vecchia fisarmonica, si ballava fino a notte. Erano buffi soprattutto i vecchi, lo erano almeno per noi ragazzini; ma in quel momento la loro festositá si trasmetteva a tutti noi, e ballavamo in tondo, mentre il cielo diventava sempre piú buio, e nell’oscuritá non piú si distinguevano le alte cime del Velino e della lontana Maiella. A distanza, risuonavano altri suoni di fisarmoniche e altri canti, di altre aie in cui si ballava la saltarella con la stessa ansia e lo stesso sentimento. I grandi (per noi, i «grandi» erano i ragazzotti e le signorinelle) avevano il permesso di allontanarsi. E noi li perdevamo di vista, con una certa curiositá e, soprattutto, con l’invidia di chi non poteva né seguirli né imitarli; e vivevano la loro serata d’amore, mentre gli amici ballavano, e bevevano, e cantavano. Ecco qual è il ricordo delle vendemmie dei nostri anni d’infanzia». (A.Melchiorre, 1982).

In realtá, molto spesso anche la vendemmia era un momento di fatica dolorosa e povera di soddisfazioni, specialmente quando la vigna diveniva motivo di liti e di cause davanti al giudice. Negli atti di un processo, tenutosi a Luco dei Marsi nel 1764, si leggono queste parole: «Antonio Saturnini (dopo di aver prorotto in mille varie scandalose parole) non ebbe il ritegno di lanciare uno schiaffo nel viso di Cesidio Di Renzo, che in detta vigna si trattenéa per la di lei coltura; e ave ardito di presente rubbarsi non solo tutta l’uva che pendéa nel sudetto corpo di vigna in loco detto Fossato di Ruota, ma ben’anche di vendemmiarsi furtivamente la metá dell’altra vigna che si ritiene a colonia da Cesiddio Morzillo».

È, questa, la denuncia fatta da Filippo Ercole, di Luco dei Marsi, contro un tal Domenicantonio Saturnini, suo compaesano e suo avversario nella… dolce attivitá di Bacco! Un’attivitá che, oggi, viene rappresentata come simbolo dell’allegria e del divertimento, attraverso la trasfigurazione operata da simpatici gruppi folkloristici:
«— Vieni qua…! Sei, sette, ddú, cinque…!
— Perché giocate a morra?
— Eh, per passare il tempo, per smaltire un po’…, per divertirci!
— Ma vi siete ubriacati?
— Un po’: dopo la vendemmia, si è sempre ubriachi.
— Chi v’ha ubriacato: le belle ragazze o l’uva?
— Tutt’e due: le belle ragazze e l’uva!». (Registraz. dal vivo, Coro Venturini di Tagliacozzo 1979).

Comunque, se l’agricoltura copriva il sessanta, il settanta per cento dell’attivitá economica della Marsica, alcune popolazioni attorno al Fucino vivevano quasi esclusivamente di pesca nel lago, come (ad esempio) gli abitanti di Luco dei Marsi, soggetti per la pesca o al monastero di S.Maria della Vittoria di Scurcola, o ai principi Colonna (signori di Tagliacozzo e di Albe), o all’Illustrissimo signore e principe di Celano e barone di Pescina (il magnifico duca Sforza Bovadilla). Pescatori ai quali era stato concesso il seguente «privilegio»: «Per effetto della sovrana risoluzione, fu ai pescatori di Luco permesso di portare le noccarde ai cappelli, distintivo corrispondente alle Reali Insegne, di poco dispendio a’ pescatori, e distintivo che, come publico e apparente, li ha fatti e fa conoscere e distinguere». E, inoltre, veniva concesso, agli stessi pescatori, di usare il tamburo nelle occasioni particolari e nelle feste, con la seguente motivazione:
«Si permette l’uso del tamburro a li Regi Pescatori per solennizzare le feste, che sogliono farsi nella Regia Stanga tanto in onore della Beatissima Vergine della Vittoria, quanto de’ Sovrani».

Ed infine, i pastori. Ecco come Ettore D’Orazio, nel secolo scorso, descrisse il ritorno delle greggi dalla Puglia: «II ritorno degli armenti dalla Puglia è, per i nostri villaggi di montagna, un lieto avvenimento, quasi un pubblico tripudio. La greggia è simbolo di dovizia e di abbondanza ed è quando gli armenti tornano a popolare la montagna deserta, che le giovani montanare ritrovano i loro stornelli e gli usignoli fanno riudire i loro gorgheggi». (E. D’ORAZIO, La pastorizia abruzzese, rist., Avezzano, Polla, 1982). Un quadro, se non dannunziano, della vita dei nostri pastori, pur certamente idilliaco e arcadico.

Non proprio come risulta dalla dichiarazione di un certo Domenico Santilli di Aschi, il quale, nel 1680, così testimonió intorno alla sventura capitata ad un suo compaesano, il pastore Giovanni Domenico Del Papa: «Le pecore morsero per mala invernata, e le capre morsero per essere azzeccate, ché quell’anno detta zecca fece morire una gran quantitá di dette capre, e fu generale per tutta la Puglia. Et so anco benissimo che, mentre detto Giovanni Domenico del Papa ritornava dalla Puglia con detti animali che gl’erano restati et alcuni altri delli suoi proprj, fu pigliato da’ banditi, ché per redimersi da quelli fu necessitato vendere parte di detti animali».

Testi del prof. Angelo Melchiorre

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