Il vescovo dei Marsi mons.Benedetto Mattei, con un Editto del 1761, vietava ai chierici e agli uomini di chiesa di andar cantando la notte, sotto minaccia di gravi sanzioni. Dallo stesso Editto possiamo conoscere, proprio attraverso le proibizioni o le raccomandazioni fatte al clero, quali fossero i divertimenti abituali delle popolazioni abruzzesi in mancanza di cinema, televisione e discoteche:
«Proibiamo che nessun Sacerdote possa giocare a’ giochi proibiti e non proibiti di mattina e di giorno nelle publiche piazze e botteghe, con persone civili et incivili che siano, permettendo soltanto di divertirsi alle carte nel secondo piano e con persone uguali a loro, oppure con persone civili, durante il giorno. Proibiamo, sotto la stessa pena, che niun prete o chierico che sia, possa portare armi proibite, o andare a caccia con schioppo lungo.
Che non vadano in tempo di Carnovale, né in altro tempo, di giorno o di notte, mascarati. Che non vadano alle osterie, bettole e cantine, a bere o mangiare, se non in occasione di viaggio, e fuggano le crapule sotto pena di ducati sei».
Un documento interessante, questo del vescovo Benedetto Mattei, specialmente se si integrano le poche informazioni che esso ci offre con le numerose altre che ci provengono da vari manoscritti inediti dei tempi passati.
Il gioco delle carte, ad esempio, era molto frequente: ricorre spesso il termine «briscola», ma anche quello di «tressette». E, soprattutto, le carte si mescolavano quasi sempre con quel particolare gioco locale che attualmente viene chiamato «la passatella», e che in quei documenti è indicato o con il nome di «tocco», o con l’espressione, molto frequente, di «giocare al vino».
Ma vi era anche il gioco dei dadi e — dulcis in fundo — perfino quello della «morra». Accanto ai giochi ordinari, quelli cioè di tutti i giorni, vi erano poi i grandi divertimenti connessi con alcune solenni ricorrenze religiose o profane: ad esempio, il «palio della ruzeca», quello della «scoppetta», quello della «sorte» o della «ventura»; la gara del solco dritto; e, in modo particolare, le mascherate di Carnevale, cui giá abbiamo accennato nel capitolo sulle «feste calendariali»:
«lo colli miei proprj occhi non ho veduto cosa alcuna di quanto Vostra Signoria mi domanda, poiché in tempo di Carnovale ordinariamente dimoro nel mio Casale in tenimento di Celano. Ho inteso peró dalla publica voce e fama, che don Tommaso Marinacci del Colle Armele si sia benissimo mascarato e vestito a Carnovale, e che in simil guisa si sia fatto in publico vedere in detta nostra Terra di Ovindoli in compagnia di tre persone anche mascarate; che si sia portato nelle case de’ particolari a ballare e cantare; e ho inteso che di tal cosa se n’è parlato molto da tutti i nostri nazionali, specialmente peró da donne; e che ne apprendevano motivo di cattivo esempio, e fortemente ne mormoravano».
Chi parla cosí è Giampiero Colabianchi, pubblico delegato di Ovindoli nel 1796, il quale riferisce sulle ribalderie di un giovane prete di Collarmele, don Tommaso Marinacci, il quale non solo si era mascherato da «giardiniero» nel carnevale del 1794, ma era solito giocare al «tocco» nelle bettole, cantare, ballare, vestire in modo estroso, giocare a carte nella bottega del «calzolaro» di Ovindoli, ed entrare in chiesa con il pugnale alla cintura, «con fazzoletto in collo, senza collaro», e con «ramaglietti di fiori» sulle spalle.
Comunque, anche se non sempre si arrivava a questi abusi, spesso il divertimento si poteva ricavare benissimo perfino da una semplice e devota processione: «Nel lunedì di Resurrezione doppo pranzo le dette Confraternite sogliono fare una Processione di quasi tre miglia, alla quale intervengono quasi tutti ubbriachi, et in ogni anno ne nascono gran disordini. Senza nemmeno togliersi i sacchi da confratelli, si fanno leciti andare all’osteria et alle case, e bestemmiano ancora». Non siamo noi a dire queste cose, ma è il Prevosto della Chiesa parrocchiale di S.Lucia, in Magliano dei Marsi, che circa due secoli fa si lamentava con il vescovo di Pescina per gli «abusi introdotti nella parrocchia di Magliano», abusi che consistevano soprattutto nel far terminare le processioni non in chiesa, bensì nelle numerose osterie del paese.
Ma se escludiamo l’osteria (che resiste, nonostante i tempi e le trasformazioni), tutto il resto o si è modificato, o è ormai definitivamente scomparso, vivendo solo nel ricordo degli anziani e dei nostalgici: come, ad esempio, il carnevale di Avezzano, così ricordato da un «informatore» orale:
«Dottó, éreno altri tempi, altri tempi. Ci steva piú spensieratezza, che i’ me ricordo, tenevo ‘n’amico mio, un parento mio, che ci émmo…, facémmo queste combriccole, che andammo a ballare e a giocare, dottore, che ci divertivamo insieme…: e “carnevale perché scì mmorte?”. Che po’ ci ricordémme pure ji carnevale che ficémme aji tempi de Mussolini, dottore, di quando moriva il Negus, di questi canti di guerre che…, ji tempi passati! E queste facémme noi! E po’ facémme le combriccole, andammo alle case delle vajóle, no?, delle signorine, jémmo qua…, e ci offrinno ciambellette, biscotti, vino…, e po’ facémme…, come si chiamano questi balli in comune, dice: “Changez la femme?”. Facémme tutte le cose. “Changez la femme?”, in francese! Ci stava ‘n’amico mio, tanto bravo, díce: “Danzé?”; e po’: “Taratira tatira tazám…”; e po’ facémme: “Changez la femme?”, “Ognuno co’ la femme sé?”. E: “carnevale perché scì morte?”». (Ellegí, 1982).
E il famoso gioco della «ruzeca», la gara cioè che si svolgeva con dure e ben rotonde forme di cacio pecorino nostrano, oggi è ancora in uso soltanto a Magliano dei Marsi per l’entusiasmo di pochi amatori; ma altrove è scomparso, nonostante il desiderio di qualcuno di ripristinarlo nelle vecchie forme e secondo lo spirito tradizionale:
«II gioco della rúzola: a Trasacco esiste proprio ‘na via chiamata “via Caciatóra”. Ora io vorrei un po’, come trasaccano vorrei un po’ riportare…, stavo progettando questo fatto: di riportare in auge il gioco della rúzola, il vero gioco de caciatóra, cioé della rúzola col formaggio. Ora, io vedo che in altri paesi vicini, Magliano, Cappelle, hanno rievocato questa tradizione, è vero? Peró, ecco, a Trasacco esiste proprio la via Caciatóra». Sono parole di Quirino Lucarelli, di Trasacco. E, a Collelon-go, è stata riproposta, dietro le sollecitazioni dell’avv.Walter Cianciusi, una tradizione tipicamente contadina: quella della «scartocciata» o scartocciatura del granturco, che una volta aveva il suo momento piú entusiasmante nella ricerca della famosa «marzocca roscia»:
«Ora, la scartocciata è stata riproposta…, perché prima si faceva nell’aia, come la trita, su tutte le aie del paese…, diciamo, l’importanza della scartocciata, in un certo senso, era maggiore di quella della trita, perché era l’ultimo raccolto dell’anno, un raccolto di provvista alimentare, no? Poi verrá quella dell’uva, è vero, ma è anch’essa necessaria, diciamo, ma non essenziale, nel senso che se ne puó fare a meno, che si puó comprare il vino all’osteria.
Ma, ecco, allora era veramente ‘na cosa bella, perché la sera, in queste aie, si formavano dieci, quindici crocchi di donne, che scartocciavano; e lí si inseriva poi quello che non siamo riusciti ad ottenere di reinserire a Collelongo: cioè la presenza di ragazze, e del giovanotto che trova “je tútare cavalére”, il granturco rosso, il cui reperimento dava diritto d’andare a baciare la ragazza preferita». A Tagliacozzo, poi, si canta ancora, con parole di Luigi Venturini, quanto segue: «La marzocchetta roscia: è una canzone ch’é stata scritta da tagliacozzani, quindi piú tagliacozzana di cosí si muore. E parla, appunto, della solita, diciamo, adunata, quando si radunavano tutti nelle case per procedere a “smarzoccare”, si dice in dialetto, cioè a togliere l’involucro dalle pannocchie. E poi i giovani, logicamente, sempre burloni, speravano di trovare la famosa, la fantomatica “marzocca roscia”, ossia la pannocchia di color rosso, perché chi era il fortunato poteva baciare e abbracciare la ragazza che preferiva». (Direttrice del coro «Venturini», 1978).
E, come la scartocciatura del granturco, così anche la vendemmia viene oggi riproposta in forma allegra e sorridente dal gruppo «Venturini» di Tagliacozzo:
«Beh, oggi purtroppo non esiste piú. C’è poco da… Biso-gna riscoprire, ecco, tutto qua. E riscoprendo…, e noi cercheremo, stiamo cercando appunto (il nostro coro) di riscoprire anche la vendemmia: perché prima era una cosa bellissima, una cosa straordinaria. E noi cercheremo senz’altro di rimetterla ai tempi di una volta». «Si sta benissimo, anche perché, cioè, il coro nostro dá moltissime soddisfazioni: dovunque andiamo, stiamo bene, specialmente qui in mezzo alle vigne». (Registraz. dal vivo, 1979).
Dunque, tutti giochi e divertimenti — questi che abbiamo ricordato — non piú funzionali ormai rispetto alla moderna societá industrializzata; e la cui decadenza, forse, è dovuta anche alla paziente opera di moralizzazione della Chiesa cattolica, cui fa eco peró (stranamente!) un laico come il prof.Alfonso Di Nola, le cui parole ci forniscono lo spunto per una sincera e severa interpretazione di alcune manifestazioni popolari: «Vorrei concludere, dicendo: Fate il vostro carnevale, fatelo senz’altro, con tutti gli elementi che vengono dalla nostra cultura di consumismo; spendete pure per i vostri figlioli le maschere, e andate ai balli di carnevale. Ognuno di noi ha il diritto di farlo. Ma ricordatevi che non è quella la sede di una ristrutturazione della condizione umana. Carnevale è un elemento negativo, sul quale io sono perfettamente d’accordo (stranamente) con quello che è l’insegnamento della chiesa: cioè, è veramente qualcosa senza senso, che appartiene solo al consumismo». (1982).