Il rito extra-liturgico della Sacra Famiglia che veniva portata in giro, tra «acclamazioni poco decenti», nella chiesa del Carmine di Celano (un rito denunciato, nel lontano 1907, dal prevosto don Gaetano Bonanni), da molto tempo ormai non si celebra piú: «Mi risulta, per averne sentito parlare da mio padre, che a quell’epoca era priore di una chiesa, e precisamente quella di S.Rocco (qualche volta hanno accennato anche lí ad iniziare questa manifestazione rappresentativa della Befana, reincarnando, diciamo, S.Giuseppe, la Madonna e il Bambino), che fu proprio il Vescovo dei Marsi, con suo decreto, a proporre alla autoritá amministrativa la soppressione di questa manifestazione. Perché queste manifestazioni davano — specialmente quelle che si facevano alla Madonna del Carmine, che dá sulla piazza di Celano — davano la possibilitá, la stura a sicuri incidenti. Spesso ci scappavano le botte; non ci scappavano i morti, ma le botte senz’altro.
Anche perché questa manifestazione era preceduta da abbondanti libagioni, sicché molti di quelli che vi partecipavano erano giá in stato di grazia, stato di grazia che poi si sarebbe aggravato nel corso della stessa manifestazione, e ulteriormente si sarebbe aggravato alla fine della manifestazione, quando la gente si riversava in piazza, e lì si ballava, si danzava, e — perché no? — spesso si faceva a botte, come ho giá detto […]»(E.Di Renzo, 1982).
E come è scomparsa questa originale Sacra Rappresentazione del 6 gennaio, così sono scomparsi altri riti ed altre manifestazioni proprie della cultura contadina dei paesi del nostro Abruzzo.
A Collelongo, ad esempio, la notte di S.Silvestro (alla vigilia del Capodanno) si usava cantare, davanti al portone delle case, la cosiddetta «majtenata», di cui ci parla lo scrittore Walter Cianciusi: «La mezzanotte è prossima o è passata da poco. La via è chiusa dalla neve di ieri o da quella piú nuova della notte di S.Silvestro, ma i nostri cantori «tracciano», aprono la traccia… Per la via non si odono voci e, del resto, c’è poco da dire… Poi, tutti intorno alla porta di zi’ Frangische, di zi’ ‘Ndonie o di za’ Paoluccia. E Costantino dá il via…». (W.CIANCIUSI, Collelongo, Teramo 1972).
Questa «majtenata» era un canto di questua che caratterizzava, come in tante altre occasioni stagionali, la notte tra la fine dell’anno vecchio e l’inizio dell’anno nuovo. Oggi, anche la «majtenata» non si usa piú. Ma vediamo qualche rito piú antico o, per lo meno, qualche rito di cui esistono testimonianze piú antiche.
Nel 1728, ad esempio, il parroco della chiesa della SS.ma Trinitá di Aielli cosí scriveva, nella sua relazione al vescovo dei Marsi, a Pescina: «Nel giorno della festa della SS.ma Trinitá, qui ad Aielli, c’è questo, che talvolta alcuni vanno publicamente in qualche vico della Terra e vengono chiamati “suonatori” dai Procuratori della chiesa, per suonare in chiesa e per la Terra, a spese d’essa Chiesa… E ancora, un agricoltore di questa Terra, nell’atto che porta l’offerta del grano, va spargendo questo per la chiesa, nel modo che si fa seminando un campo…».
Un altro costume, che sta ormai scomparendo dappertutto, è quello dell’«asta dei santi»: l’asta che veniva fatta (e, in al-cuni paesi, si fa tuttora, pur se in forma ridotta e con l’irreversibile tendenza a scomparire) per poter ottenere il privilegio di portare in processione le statue dei santi. A proposito di «aste», ecco il racconto, divertente e divertito, fatto da un caratteristico personaggio avezzanese, il quale ricorda un episodio di alcuni anni fa: recatosi con alcuni amici in un paesino della Marsica, proprio mentre si stava svolgendo l’«asta per la pupazza» o «pantàsima», ebbe l’idea di partecipare anche lui alla «gara»:
«E andando là, io mi feci quattro risate, perché io cominciatti a dire: duemila lire. Ci stàveno certi givinotti del posto: Come, quiste è un furastiere, mette duemila lire? Allora quisti si misero d’accordo: tremila! E io: quattromila! Dottore, ci stéa da ríde…! Cinquemila! Seimila! Ci feci una specie di pingo-pongo, facèmmo, di ballottaggio: che tu questo cinquemila, io settemila, quello ottomila… Si stèvane pure a incagná, questi, parlando cosí…! Ca quando a un certo punto io ero arrivato a quattordicimila lire, che questa pupazza nei secoli non era mai, a questo paeso, arrivata a quattordicimila lire! che meno male, poi, intervenne, come si dice, il parroco, e disse: Fátti i fatti tuoi, mi disse a me, che tu vuoi togliere questa soddisfazione?…, non so se ho reso l’idea!». (Ellegì, 1982).
Ma anche le tradizioni che durano tuttora, tendono inevitabilmente a trasformarsi. Qualcuno protesta, ma la sua protesta è ormai considerata come quella del nostalgico vecchio di Celano, che si lamenta per le modifiche apportate in questi ultimi anni alla processione del Venerdí Santo: una protesta cui nessuno dá piú ascolto, perché nessuno ormai ci crede piú:
«Non si po’ da criticare, ché hanno levato tutta la tradizione, perché la tradizione era de matina e verso le ddú, le tre erene fenite, e oggi l’hanno cacciate fore e s’è sgregate tutto: queste nave l’hanno tutte demolite, ch’era ‘na mafia, era un lusso… Questa processione, è stata cambiata questa processione, perché Cristo…, Cristo è morto alle tre dopo pranzo il venerdí… Allora si ficeva il funerale il venerdì di matina, era ancora vivo Cristo. Oggi, po’, è stato cambiato: ché se Criste è morto il venerdì dopo pranzo, si diceva alla storia “all’ora nona”. Allora hanno cambiato, ch’i’ finerale se fa dopo pranzo. Prima facevane ji Miserere: com’era chiamato quande facevane a San Giuvanne? l’Agunia…, facevane l’Agunia, perché era de matina, la processione […]. II Miserere segue, segue ancora, sí, segue anche… N’è uscite un altre ancora! Allora quiste Miserere erano tutte professioniste, orghestre, de tutte, e ji grande cantore.
Attese che dop’ è uscite dopo pranze, non viene piú a tempo ste Miserere, a cantare nell’Agunia, e è tutto diceduto […]». (Regisfraz. dal vivo, 1979).
E nella stessa processione del Venerdì Santo di Celano (contro le cui trasformazioni abbiamo appena letto la protesta del vecchio contadino celanese) si trasportavano, un tempo, grandi barche devozionali, una per ogni Confraternita: barche che, oggi, sono quasi del tutto scomparse. Se, poi, per motivi turistici o «campanilistici», qualcosa delle antiche tradizioni continua a sopravvivere, questo qualcosa viene modificato e abbellito per opera di Comitati innovatori, come è accaduto a Collelongo, dove il canto di S.Antonio Abate non è piú quello tradizionale, bensì quello piú moderno, diffuso attraverso i ciclostilati della Pro-Loco o del Comitato dei festeggiamenti.
Ed anche quando qualche volenteroso tenta di far rinascere le feste di una volta, trova ormai indifferenza soprattutto fra i giovani e scarsa collaborazione in tutti: «Innanzi tutto debbo dire questo; sono quindici anni che sono parroco qui a Lecce, e debbo dire proprio da quindici anni si parla sempre di ripristinare queste feste del mese di agosto, perché anticamente a Lecce erano le uniche feste del paese, dove la gente si riposava un po’ dai soliti lavori dei campi, faticosi, duri, specialmente prima, in montagna, dove vivevano; e quindi erano le feste, diciamo, proprie dell’estate, dove tutti si ritrovavano e tutti vivevano insieme tre e, qualche volta, anche quattro giorni, diciamo, di festa religiosa e anche, diciamo, civile, cittadina. Da quindici anni, dicevo, si parla sempre di ripristinare queste feste. Varie iniziative pure ci sono state; peró, son cadute, un po’ anche per la paura magari di ricominciare, per le difficoltá magari che si sarebbero incontrate […]».
Era, questo, uno sfogo del parroco di Lecce dei Marsi, sfogo da noi registrato nell’agosto del 1978. Quell’anno, a Lecce, le feste si fecero con una certa solennitá; ma giá l’anno successivo qualcosa non funzionó, e ormai sono ricadute anch’esse nel limbo dei ricordi. Eppure, altrove, le feste sono sempre piú numerose. I pellegrinaggi (e, con essi, i pellegrini) aumentano sempre piú, di numero e di intensitá. A Vallepietra (secondo la testimonianza del prof. Alfonso Di Nola) nel solo 1978 si ebbero un milione e duecentomila presenze; a Cocullo (nel 1982), nonostante la pioggia, c’è stata una folla immensa. Ed ogni paese spende milioni e milioni per l’allestimento di sagre e spettacoli. La domanda che ci poniamo, dunque, è la seguente: che cosa sta succedendo nel campo delle tradizioni popolari e della cosiddetta «cultura contadina»?