Il matrimonio, nella cultura contadina del passato, era certamente un momento importante e decisivo nella vita dell’uomo e della donna, ma nient’affatto complicato e traumatizzante come, invece, lo è diventato in epoca piú recente. Viceversa, il fidanzamento rappresentava qualcosa di molto serio ed impegnativo, prima di tutto perché stava a significare un contratto con tanto di fogli scritti e firmati, e poi perché il rapporto quotidiano tra i due fidanzati era regolato da norme di comportamento così precise e inderogabili, da non consentire nemmeno la piú piccola trasgressione. E non parliamo soltanto dei fidanzamenti che avvenivano nei secoli che hanno preceduto il nostro, ma anche di quelli piú recenti, delle generazioni ante-guerra, i cui protagonisti ancor oggi potrebbero fornirci testimonianze e ricordi, proprio come dice la simpatica «Rennestina» di Collelongo, da noi intervistata una sera del 1977:
«Je fidanzate guardeva a me, e i’ guardeva a isse […]. I’ lavureve e isse leggeve, vecine ajie foche, vecine ajie geni-tore […]!».
D’altra parte, che cosa avrebbero potuto dirsi due fidanzati, se fossero rimasti soli soli, a cuore a cuore? Ed ecco che allora i colloqui tra «lui» e «lei» potevano avvenire solo attraverso le serenate notturne, con l’aiuto magari di qualche amico cantore e suonatore; oppure, attraverso gesti simbolici e offerte di fiori o di fazzoletti. Il problema era, pertanto, quello di poter entrare in diretto contatto, lui e lei, almeno per un attimo, al fine di scambiarsi clandestinamente l’oggetto simbolico o di guardarsi negli occhi senza necessariamente subire le occhiatacce di mamma o papá. Ed ecco che, allora, l’inventiva e l’astuzia delle fanciulle sopperiva ai rigori delle leggi familiari. A Magliano dei Marsi le ragazze in etá da marito erano così pervase di sentimento religioso, da recarsi la sera del Giovedí Santo alla processione che le confraternite maschili del Suffragio e del Gonfalone facevano con «pochissimi lumi», fin verso «e ore due della notte».
A Trasacco, le giovani donne del paese si portavano nella chiesa di S.Cesidio, trascinandosi da casa «molti e diversi scanni», che sistemavano in ordine sparso nella chiesa, facendo in modo che, tra l’uno e l’altro, si potesse anche inserire qualche scanno occupato da uomini.
E si potrebbe continuare a lungo, con esempi simili, se non fosse ovvio che le astuzie femminili (e maschili) non sono realtá di un tempo e di un luogo, ma di tutte le epoche e di tutte le latitudini. Quel che invece, qui, conta notare è come, nonostante i divieti e le difficoltá d’ogni genere, anche nel passato molti giovani fossero riusciti ad entrare in casa delle loro donzelle, sfidando le ire dei padri e le ritrosie delle timorose mamme. Anzi, giá nel XIX secolo tale uso era diventato così frequente, che perfino l’autoritá ecclesiastica non poté fare a meno di intervenire con un’accorata «Lettera pastorale» del Vescovo di Valva e Sulmona, in cui (in data 14 gennaio 1832) cosí si diceva:
«[…] Riserviamo in ultimo anche a Noi soli il caso in cui cadono li Innamorati, che si permettono di andare nelle abitazioni delle rispettive Innamorate, con animo o col pretesto di volerle sposare […]. Ai giovani Innamorati che si fanno lecito accedere alle case delle Innamorate, ripeto le parole di S. Girolamo: Che necessitá hai di andare in quella casa, nella quale necessariamente poi, ogni giorno, dovrai vincere o morire?». Tuttavia, nonostante gli ostacoli e il controllo dei familiari, le ragazze avevano due occasioni favorevoli, l’una e l’altra adattissime all’incontro con il loro bello: quando si recavano alla fontana a cogliere l’acqua, e quando andavano nei campi a raccoglier legna o a lavorare. Così si espresse (nel 1758) una ragazza di Capistrello (Angela Bucci), che rispondeva a coloro che l’accusavano di andarsene in giro da sola:
«Le donne di campagna del mio paese vanno per lo piú sole alli loro poderi, vigne e stalle, ed incontrandosi con uomini, discorrono con essi, né per ció sono tenute per donne cattive».
Ma, finalmente, quando la situazione era matura, il fidanzamento si trasformava in matrimonio: lo «spusalizie». Prima abbiamo detto che esso era molto meno complicato del fidanzamento, almeno per quel che riguardava la libertá di movimento dei due sposi; ma era ugualmente soggetto a riti e promesse che, piú che impegnare direttamente «lui» e «lei», creavano una lunga serie di intrecci diplomatici, di accordi commerciali, di patti orali e scritti tra i parenti dello sposo e della sposa, patti che avevano la loro consacrazione burocratica nei famosi «capitoli matrimoniali», come questo di Trasacco, del 1637: «Promette Pietro Petrei pigliare per sua legittima moglie Prudentia figlia legittima e naturale di Giovan Paolo Tomei delle Cese, e con questa contraere il matrimonio conforme al rito di Santa Romana Chiesa e Sacro Concilio Tridentino. Et versa vice, il detto signor Giovan Paolo promette che Prudentia sua figlia piglierá per suo legittimo sposo il detto Pietro conforme il rito di Santa Romana Chiesa come di sopra, e con questo fará le nozze et consumerá il matrimonio colla grazia di Dio e commoditá dell’uno et altro. Et a contemplazione dí detto Matrimonio, acció piú facilmente si possa sostenere il peso, promette esso Giovan Paolo dare in dote, et in nome di dote, alla predetta Prudentia sua figlia, et in suo nome al detto Pietro, ducati trecento di moneta di questo Regno da pagarli in questo modo: cioè, nel giorno delle nozze ducati cento; et il restante, sino al compimento di docati trecento, ducati quaranta l’anno, franco il presente anno, e così continuare sino all’integra sodisfattione. Item, promette esso Giovan Paolo, di piú alli trecento ducati detti, di darli gratis tutta la biancaria, senza apprezzarla, conforme si usa darsi […] ».
E, finalmente, si giungeva alla vigilia delle nozze, quando tutto il paese poteva assistere alla sfilata dei carri, il famoso «carriagge», con cui la sposa faceva mostra delle sue sostanze e… della sua potenza. Un costume che, in molti paesi, si è protratto quasi fino ai giorni nostri, come ci racconta Quirino Lucarelli di Trasacco: «Quando qualche marchigiana sposava qualche trasaccano, è vero?, ebbene, c’erano questi «carriaggi», questi carri addobbati: il letto giá composto sul carro, bello, preparato, con i cuscini, come se fosse ‘na vera camera da letto, colla coperta piú bella, eccetera; e allora, questa fila di carri, mobilio, la biancheria…, sa’ allora, quando se sposava ‘na figlia, metteva in elemosina ‘na famiglia, allora, nel passato. Sposare una figlia significava veramente pagare una cambiale salata, insomma […]!».
Una volta sposata, la donna perdeva, sí, la propria libertá di «zitella honorata», ma conquistava una diversa libertá: quella, cioé, di poter agire da sola, non tanto per un generoso riconoscimento dei suoi diritti da parte del marito, quanto perché il marito, il piú delle volte, era assente mesi e mesi per motivi di lavoro.
E così, le donne, nei nostri paesi, diventavano le vere protagoniste della vita comunitaria: governavano la famiglia e i figli, accudivano alle persone anziane, pensavano alla campagna, andavano a raccoglier legna, si recavano nei pellegrinaggi e nelle feste religiose e, talvolta, univano al dovere familiare o al sentimento religioso, anche il desiderio di una vita piú gaudente e spensierata, tanto che a qualcuna poteva perfino capitare di restare «infantata per tre volte senza marito», come accadde appunto, nel 1774, ad una certa Livia Caroli di Colli di Monte Bove.
Quindi, questa libertá di cui godevano le donne sposate non era senza rischi e pericoli: il primo, e certamente il piú grave, quello di perdere la qualifica di «donna di buona vita», «di buoni costumi et honorata», e di vedersi accomunata a tutte quelle «streghe, porche e balorde» che il curato don Gennaro d’Oratijs invitava ad uscire dalla chiesa di Antrosano nel 1730. Il secondo rischio era — molto piú diffuso — quello di vedersi nascere un figlio, la cui paternitá non era certamente da attribuirsi al padre legittimo. In tal caso, peró, i parenti della donna erano tutti dalla sua parte; e spesso intervenivano in suo favore, recandosi in casa del galeotto seduttore, costringendolo con fucili spianati a porre rimedio (magari sborsando una bella somma di denaro) al misfatto.
Insomma, la vita delle spose non era poi quel po’ po’ di inferno che qualche studioso di tradizioni popolari ha voluto denunciare.
Unico impegno gravoso, per le giovani spose, era quello di recarsi, il sabato precedente il matrimonio, alla cosiddetta «Messa per la Vergine», durante la quale «se gli imprestavano la veste e corona d’argento», che la donna doveva indossare, facendo contemporaneamente accendere la lampada. E nulla piú!