In un clima di rinnovato interesse per le tradizioni popolari in Italia e in Abruzzo e di accentuato fervore di studi antropologici e demologici, ci si deve porre alcune domande riguardanti la situazione di tali studi nella Marsica e le difficoltà di ogni ordine e tipo che si frappongono ad una ricerca seria e organica nel territorio marsicano delle manifestazioni passate e recenti di quella che comunemente vien chiamata «cultura popolare» o folklore. I problemi connessi a tale domanda iniziale sono innumerevoli e non certamente tutti di facile soluzione.
Il primo problema è quello relativo alla possibilitá di utilizzare un repertorio bibliografico che serva da strumento di lavoro per coloro che vogliano accingersi ad affrontare scientificamente l’analisi dei fenomeni folkloristici nel territorio marsicano. Molto difficile si presenta il lavoro di chi si accinga a raccogliere e analizzare i contributi scritti che, o in volume o su giornali e riviste, sono stati pubblicati in questi ultimi cento anni, da quando cioé la ricerca demologica ha cominciato ad essere definita scienza e ha provocato l’interesse degli studiosi (1).
Mentre in Abruzzo, sulla scia del Pitré, uomini di cultura come il De Nino e il Finamore si dedicavano con passione tutta romantico-positivista alla raccolta dei documenti e delle testimonianze della tradizionale vita contadina della regione, la Marsica rimaneva decisamente al di fuori dell’ambito della loro ricerca e, se vi rientrava qualche volta, ció avveniva solo sporadicamente, mai di prima mano, ma soltanto come elemento contingente e periferico (2). Tra gli studiosi di cose marsicane vissuti ed operanti nel secondo Ottocento, nessuno si occupó specificamente di tradizioni popolari. Qualche frammentaria indicazione puó venir fuori anche dalle opere di costoro, ma rimane pur sempre una aggiunta o un corollario del tutto marginale alle loro ponderose elencazioni di fatti storici e di personaggi del mondo politico ed ecclesiastico o alle loro erudite ricostruzioni di luoghi antichi e di vicende paesane (3).
Tale situazione, che è di assoluta noncuranza dei fatti e dei documenti della cultura popolare marsicana, non muta affatto nella prima metá del Novecento. È vero che cominciano ad uscire opere che si riferiscono a costumi e abitudini degli abitanti, a credenze tradizionali, a feste e sagre paesane, a leggende e a manifestazioni di religiositá o pietá popolare (4), ma quasi sempre si tratta di modestissimi contributi strapaesani, sviluppati piú in forma narrativa (come nel caso di Buccella, Falcone, Nardelli e Pennazza) o di rievocazione romantico – sentimentale dei propri ricordi di «villaggio» (Aresti, Laurenti, Scipioni, ecc.), piuttosto che di analisi o descrizione dei fenomeni. Nei casi migliori, ci si trova di fronte a superficiali rassegne di riti o feste della Marsica, non solo senza il minimo tentativo di interpretazione della realtá culturale, sociale e politica che è sottesa a quelle feste e a quei riti, ma neppure con quel minimo di informazione precisa e documentata che si riscontra invece nelle contemporanee cronache locali riguardanti altri temi e altre situazioni (5).
Se, infine, diamo uno sguardo alla miriade di pubblicazioni e di lavori apparsi nell’ultimo trentennio (dal 1950 al 1980), ci rendiamo conto che il disinteresse per la cultura popolare ha ceduto il posto ad una frenesia di passione «romantica» per il primitivo e il paesano, documentata dalle decine e decine di opuscoli e articoli e saggi e ínterventi vari sulle piú diverse e interessanti manifestazioni del folklore marsicano, della realtá dialettale, della religiositá popolare, senza peró il contributo né di una sicura metodologia, né di una visione d’insieme del fenomeno culturale, né di una effettiva ricerca fatta sul campo, come invece contemporaneamente sta avvenendo in altre regioni italiane e nello stesso Abruzzo (6).
Le poche eccezioni (7) non sono sufficienti a modificare sostanzialmente il panorama piuttosto deprimente della letteratura demologica nella Marsica; né d’altro canto gli scarsi contributi di studiosi seri e preparati su singole manifestazioni folkloristiche riescono a riempire i vuoti esistenti nel settore (8). La buona volontá degli appassionati locali trova molti limiti nella mancanza di strutture universitarie, che possano favorire la ricerca e la riflessione teorica, e deve cercare quindi il suo sbocco in modesti scritti rievocativi, privi quasi sempre del supporto metodologico e ideologico che viene offerto oggi dall’antropologia culturale e dalla demologia scientifica. Si scrive, pertanto, quasi sempre sull’onda dei ricordi personali, delle sporadiche e frammentarie testimonianze della vecchia nonna o della vecchia zia, della nostalgia per una Marsica che non esiste piú (o che, forse, non è mai esistita se non nel desiderio patetico di qualche innamorato della propria terra) e le cui labili tracce si spera di poter rintracciare in qualche vecchia foto di famiglia o in qualche ingiallito e poco leggibile documento d’archivio. Nei casi migliori si raccolgono immagini scenografiche e spettacolari di manifestazioni pittoriche, ricche di colori, ma anche di quel «pittoresco» che Antonio Gramsci aveva considerato come la morte del folklore e della cultura popolare autentica (9).
Il secondo problema nasce direttamente dal primo o, meglio, scaturisce come inevitabile conclusione da questo sconsolato o sconsolante panorama che, in maniera così sommaria, abbiamo cercato di tracciare. È possibile — questa è la domanda — rinvenire, nell’ambito di una rassegna bibliografica che raccoglie piú di 1500 voci e che va dal Settecento ad oggi, una linea di sviluppo che indichi un sia pur minimo legame o intreccio tra l’impegno degli studiosi (e i fatti folkloristici) da una parte e le vicende storico-politiche e naturali dall’altra? La storia geologico-politica della Marsica di questi ultimi due secoli (per limitarci al periodo in cui correttamente si puó parlare di attenzione alla cultura popolare) è forse quella che, meglio e piú che in qualsiasi altra zona in Abruzzo, potrebbe essere definita e caratterizzata e delimitata cronologicamente in riferimento a momenti-chiave e a nodi drammatici e focali: 1877, prosciugamento del Fucino (con conseguente trasformazione economico-sociale e di costume delle popolazioni); 1915, terremoto del 13 gennaio (tra i piú disastrosi nella storia della Penisola e tra quelli che piú hanno lasciato tracce della loro azione distruttiva e trasformatrice); 1950-52, riforma agraria (l’unica verificatasi, in Italia, in una zona fittamente popolata e con problemi di eccedenza della manodopera) (10); 1967, installazione nel Fucino dell’antenna parabolica di Telespazio (con la conseguente trasformazione perfino della tradizionale immagine oleografica dell’Abruzzo arcadico e pastorale); anni ’70, costruzione e apertura al traffico delle autostrade (con conseguente rivoluzione e rottura del secolare isolamento della Marsica e creazione di nuovi rapporti con L’Aquila, Roma e l’Adriatico). La domanda che ci si pone, dunque, è la seguente: in qual modo e in quale misura tali eventi «storici» hanno influenzato e modificato sia la cultura popolare, sia l’atteggiamento degli intellettuali e degli uomini di studio nei confronti di quella cultura? (11).
La risposta non è semplice. Tuttavia, dai dati bibliografici raccolti, si dovrebbe concludere o che una vera cultura popolare non è mai esistita nella zona, o che coloro che han voluto parlare di questa cultura in realtá non sono riusciti a cogliere nessuno dei nessi e dei significati piú genuini che tale cultura dovrebbe esprimere (12). Ed ecco, allora, che subentra un terzo problema: in tutto ció che ci è stato presentato fino ad oggi come espressione autentica delle tradizioni popolari marsicane, quanto c’è di veramente popolare? e, quindi, di veramente autentico? E quanto, di ansia e di sentimento del popolare, si puó ritrovare negli scritti di coloro che si sono arrogati il diritto di parlarne?
Ma, forse, conviene capovolgere i termini della questione, e chiedersi quanto di ció che è stato fatto passare finora come folklore marsicano non sia in realtá espressione riflessa della cultura dotta, sia essa laica, sia essa religiosa e «parrocchiale» (13).
A tal proposito, si pensi a quanto materiale sia passato delle opere seicentesche o settecentesche del Febonio e del Corsignani (uomini di chiesa) dapprima nei libri del De Nino e del Finamore e successivamente negli scritti dei nostri contemporanei (14). Da questa nostra riflessione (che è piú che un semplice so-spetto) scaturisce il quarto problema: quale sia stato, cioé, il «peso» determinante dei folkloristi abruzzesi del secondo Ottocento e del primo Novecento nel processo di «falsificazione» o di mistificazione della cultura popolare marsicana, e in quale misura le loro responsabilitá si mescolino e si intreccino con quelle dei loro imitatori e dei loro «saccheggiatori» (15).
Intanto, pur essendoci nella Marsica una sterminata schiera di opere «locali» (e molte anche folkloristiche), mancano in realtá sia organiche raccolte di canti popolari autentici, sia rassegne comparate dei numerosi dialetti locali, sia serie analisi antropologiche sulla religiositá popolare (16), sia inchieste e lavori di ricerca sui rapporti tra folklore e politica, folklore e realtá storica, folklore e territorio (17). Eppure (e tale constatazione risulta alquanto sconcertante) nessun’altra zona dell’Abruzzo ha vissuto così come la Marsica le vicende passate e recenti della propria storia, riuscendo a rielaborare storiograficamente e criticamente gli avvenimenti piú significativi e piú determinanti del suo sviluppo (18).
Si tratta, quindi, di stabilire in quale rapporto siano vissuti e vivano ancor oggi gli intellettuali marsicani, chiusi spesso nella loro torre di avorio di studiosi da tavolino e da biblioteca (e taluni anche eccellenti!), ma non disposti a concedere una sia pur minima possibilitá all’altra cultura, alla cultura popolare, di presentarsi e di esprimersi in forme autonome e diverse. Anche quando, talvolta, si è posto in evidenza il ruolo sociale, morale, politico, «culturale» del cosiddetto popolo, lo si è fatto dall’alto della propria egemonia culturale e con il distacco e la freddezza (o anche con l’atteggiamento paternalistico e bonariamente sorridente) dell’uomo superiore che si affaccia dalla finestra per contemplare la «plebe», i «cafoni», ma che in realtá non entra mai in vero e quotidiano contatto «fisico» con essa. Senza togliere alcun merito di natura estetica o piú profondamente artistica, ció è accaduto perfino a quegli intellettuali che, per scelta politica o estrazione sociale, avrebbero dovuto sentirsi piú vicini al popolo e alla «cultura contadina» del Fucino e della Marsica (19).
Il nostro non vuol essere un atto d’accusa o un processo alla classe «colta» marsicana, bensì una constatazione di uno stato di fatto, le cui radici sarebbero da ricercarsi in un costume tanto antico quanto antica è la radice «feudale» di certe manifestazioni comportamentali, tuttora esistenti in gran parte del territorio di cui ci stiamo occupando, e che è proprio non soltanto della classe borghese, ma spesso anche di coloro che sono riusciti a realizzare una loro ascesa sociale (e che, molte volte, sono i piú accaniti nel respingere o rifiutare le loro origini, le loro «radici» (20).
Pertanto, per chi volesse tentare un’analisi sociologica e antropologica della societá marsicana attuale, con particolare attenzione al ruolo che non ha svolto e che invece avrebbe potuto svolgere la cosiddetta «cultura popolare», la strada si presenta irta di difficoltá notevoli. Tuttavia, qualcosa si puó fare.
Limitiamoci, per il momento, all’indicazione sommaria di almeno tre temi di ricerca e di riflessione nell’ambito della cultura popolare marsicana: la «religiositá» popolare, il rapporto folklore-eventi storici, la rinascita dell’interesse per le tradizioni popolari in questi ultimi anni. Se per «religiositá popolare» vogliamo intendere, nella Marsica, la frequenza e l’importanza che hanno avuto e hanno tuttora le feste e le celebrazioni in onore di Santi e Madonne o quelle connesse col ciclo liturgico annuale, dovremmo dire che la Marsica vive ancora oggi in una intensa e profonda atmosfera religiosa. Le feste popolari «cattoliche» rappresentano tuttora una vivissima realtá umana, psicologica e sociale in tutti i paesi del Fucino e dei dintorni, che meriterebbe uno studio rivolto non soltanto a descrivere o ad analizzare le espressioni di pietá spirituale o di folklore, ma anche e soprattutto i significati antropologici che queste feste certamente possiedono, per comprendere i quali non è forse piú sufficiente neanche la metodologia gramsciana e marxista (21). Basti pensare non tanto alle feste patronali, che si celebrano in ogni piú sperduto villaggio della Marsica, quando alle manifestazioni collettive di pietá che sono connesse con i riti liturgici della Chiesa cattolica, dal Natale alla Pasqua (in modo particolare al Venerdí Santo, che vede processioni e sacre rappresentazioni dappertutto, con caratteristiche talvolta originali e culturalmente interessanti) (22), che sono ancora in funzione, nonostante i mutamenti strutturali, economici, sociali, e che vengono realizzate spesso con la partecipazione e la spinta organizzativa di gran parte della popolazione, indipendentemente dall’ideologia politica cui si appartiene e, talvolta, anche in modo autonomo o in contrapposizione alle richieste e alle decisioni del clero locale (23).
Tuttavia, se per «religiositá» deve intendersi qualcosa di piú profondo e di piú autentico, di piú «spirituale», l’analisi del fenomeno nella Marsica non puó essere piú così semplicistica ed esclusivamente basata su dati quantitativi (24).
Innanzi tutto, la «pietá religiosa» delle popolazioni marsicane potrebbe essere vista anche in rapporto alle radici arcaiche dei vari culti: molti studiosi hanno voluto vedere in essi tracce di riti e credenze degli antichi Marsi (25). Tale ascendenza pagana, non sempre radicalmente cancellata dall’influenza smitizzatrice della Chiesa cattolica, avrebbe determinato — secondo molti — il persistere di forme e riti che nulla avrebbero a che fare con la liturgia cattolica o con l’ortodossia, e che molto conserverebbero ancora di pagano o paganeggiante, anche se camuffato con nomi di Santi e di Madonne (26).
A tale primo «carattere» della religiositá popolare marsicana — che peró finora nessuno è riuscito a dimostrare con sufficiente credibilitá — se ne deve aggiungere un secondo, per il quale risulta molto piú facile la ricerca di una documentazione che sia abbastanza credibile: e cioé quello che potremmo definire della «conflittualitá» o «litigiositá» quasi sempre presente nelle manifestazioni collettive popolari.
Di fronte al fenomeno similare, presente in tutta la cultura popolare italiana (ed evidente, in modo particolare, nei «palii» e nelle sfide tra rione e rione), quello marsicano presenta come elementi distintivi sia l’occasione esclusivamente religiosa, sia lo «scontro» tra paesi vicini (e quasi mai tra contrade), sia la ferocia collettiva nei confronti di coloro che osino offendere il santo protettore della comunitá (27).
Un terzo «carattere» potrebbe essere quello della compresenza del momento alimentare, sentita e vissuta in forme e con intensitá maggiori di quanto non risulti in altre zone sia dell’Abruzzo sia di tutta l’Italia centro-meridionale (28).
Altro settore di ricerca, sempre nell’ambito della cultura popolare marsicana, potrebbe essere quello riguardante il rapporto tra i miti, le leggende, i canti, i costumi, le manifestazioni popolari da una parte, e le vicende storiche, sociali e geologiche o metereologiche dall’altra. La storia politica e naturale della Marsica è certamente tra le piú ricche della regione. Posta al confine tra Regno di Napoli e Stato Pontificio, fin dal Medio evo (per non parlare dell’etá classica) essa è stata oggetto di contese e teatro di scontri, che non possono non aver lasciato tracce nella fantasia popolare (29). Accanto alle grandi gesta epiche, come ad esempio la battaglia tra Corradino e Carlo d’Angió, altre vicende dovrebbero aver influito sulla creazione di leggende e comportamenti rituali, come le lotte tra feudatari (soprattutto gli Orsini e i Colonna), gli avvenimenti stessi della storia nazionale (che videro la Marsica luogo di scontro e di rifugio e punto strategico importante in tutte le fasi della storia pre-risorgimentale); oppure, fenomeni sociali, come il brigantaggio e l’emigrazione, l’analfabetismo e la miseria, le lotte contadine e l’occupazione di terre, congiunti a sconvolgimenti geologici o atmosferici (alluvioni, terremoti, innalzamento delle acque del Fucino, mutamenti climatici conseguenti al prosciugamento del lago stesso…): tutti questi fatti non possono non aver determinato atteggiamenti e comportamenti di difesa o di reazione delle popolazioni interessate.
Eppure è difficile rintracciare, negli scritti, quanto di tutto ció sia diventato argomento «folkloristico», ossia quanto sia divenuto patrimonio della cultura popolare (30). Limitiamoci ad un solo esempio riguardante il fenomeno del brigantaggio: la figura di un «brigante-eroe» (o anti-eroe, secondo i punti di vista) come il Borjés, ucciso a Tagliacozzo nel dicembre del 1861 dalle Guardie nazionali, non ha creato nella Marsica alcun mito, alcuna leggenda, e non ha ispirato nessun cantore popolare (31). Il problema che si pone, dunque, a coloro che vogliano accingersi a questo lavoro di scavo e di ricerca delle tradizioni popolari nella Marsica è quello di cercar di scoprire come mai la cultura popolare non abbia colto e trasfigurato quasi nessuna delle vicende storiche e naturali della propria terra, limitandosi a cantare o a rappresentare nelle sue manifestazioni collettive quasi esclusivamente i temi universali della nascita, della vita dell’uomo (visto quasi sempre come individuo o, tutt’al piú, come componente di un autonomo gruppo familiare), della morte, dell’amore, dello scherzo, del divertimento, del rapporto con i Santi.
Ma c’è anche un’altra possibilitá per lo studioso: quella di esaminare che cosa sia accaduto nella Marsica, soprattutto nel campo della cultura popolare, dopo il tragico evento del terremoto del 13 gennaio 1915. Ottomila morti solo ad Avezzano, su 11.000 abitanti; 30.000 morti in tutta la Marsica; monumenti e chiese distrutti; case diroccate; paesi interi cancellati dal sisma e ricostruiti altrove; un’economia e, quindi, tutta una struttura sociale sconvolte fin nelle radici da un evento che assunse dimensioni apocalittiche (32). Il terremoto non cancelló soltanto le tracce materiali del lavoro dell’uomo, ma influì negativamente anche sui legami che avevano unito, fino a quel momento, gli uomini della Marsica al loro passato, alle loro tradizioni, ai loro comportamenti. È ancora possibile rintracciare i segni di quel che doveva essere la mentalitá (come insieme di costume e norme di vita) degli abitanti della Marsica prima del 1915? (33).
Infine, ultimo motivo di riflessione e di indagine socio-conoscitiva potrebbe essere offerto dalle motivazioni attuali della rinascita, in tutti i centri della Marsica, del culto per le tradizioni popolari, per i riti religiosi, i festeggiamenti patronali, i pellegrinaggi, le sacre rappresentazioni (34). Un’ipotesi fatta balenare in occasione di incontri e di interviste è quella secondo cui alla base del risveglio della cultura popolare nella Marsica stia il ritorno in massa degli emigrati, i quali, vissuti per anni e anni fuori della loro terra, al ritorno vorrebbero ricostruire quell’immagine che del paese e della «festa» si erano portati all’estero (35).
Ma probabilmente c’è anche un’ansia di recupero «folkloristico» che nasce prevalentemente da esigenze turistiche, tanto piú forti quanto piú lo sviluppo agricolo e quello industriale della Marsica hanno subìto un duro contraccolpo dalla crisi energetica e dall’inflazione (36).
Quasi tutte le manifestazioni della cultura popolare oggi ancora presenti nella Marsica, infatti, risultano contaminate, se non del tutto modificate, da finalitá d’ordine turistico-commerciale. Come d’altronde si sta assistendo altrove, anche qui vi è un intenso rifiorire di sagre e riti folkloristici, spesso organizzati dalle Pro-Loco o da associazioni similari, con l’intervento decisivo sia delle parrocchie, sia degli Enti locali (Comuni, partiti, Regione). Basti pensare al S.Antonio Abate di Collelongo (una delle manifestazioni popolari piú note della zona), al rito dei serpari di Cocullo (che giá negli anni Sessanta appariva contaminato dall’intervento decisionale e organizzativo dell’Ente Provinciale per il Turismo dell’Aquila), alle processioni della Settimana Santa, ai concerti dei gruppi corali e ai raduni di costumi caratteristici, fino alle stesse celebrazioni dei Santi Patroni del paese o ai pellegrinaggi nei santuari piú celebri della re-gione, così come pure a quei riti agresti che una volta nascevano dal rapporto diretto tra il contadino e la campagna e oggi, invece, sono stati «riscoperti» dai turisti e dai villeggianti quasi esclusivamente come immagini del colore locale (come sta accadendo per la «gara del solco dritto» di Rocca di Mezzo). E non parliamo dei numerosi «presepi» viventi o delle «sacre rappresentazioni» organizzate piú a fini spettacolari che per intime esigenze di religiositá locale (37).
Tuttavia, esiste una «cultura sommersa», le cui timide espressioni possono ancora oggi rivelare un certo sforzo di creazione autonoma, di cultura «altra», che — anche se non vuol porsi in posizione antagonistica rispetto alla cultura egemone — tuttavia rivendica a sé un proprio ruolo e un proprio linguaggio. Nei nostri giri per la Marsica abbiamo avuto spesso occasione di imbatterci in manifestazioni autenticamente popolari, libere completamente da qualsiasi tentativo egemonico di approvazione o modificazione, dai pellegrinaggi a piedi attuati al di fuori delle direttive gerarchiche (Luco dei Marsi, Colli di Monte Bove) alle mostre d’arte contadina (Trasacco), dalle sacre rappresentazioni di tipo tradizionale (i «Signori dello Spirito Santo» a Luco) a un S.Antonio «privato», realizzato da gruppi autonomi (come a Cerchio, al «chiavone» di Paterno, alla «Taverna della salute» di Avezzano), dalle antiche incanate e antichi stor nelli contadini (Verrecchie) alle dolorose «n
enie funebri» di fronte alla salma di un proprio congiunto (Lecce dei Marsi), dalle riunioni serali di preghiere e canti in onore di S.Berardo (Colli di Monte Bove) ai fuochi accesi per non interrompere una secolare tradizione di famiglia o di quartiere con finalitá aggregative e di distinzione («fuochi» per la Madonna di Pietraquaria ad Avezzano), dai «pani funebri» distribuiti durante un funerale a S.Elpidio nel Cicolano al grano cotto per la festa di S.Berardo di Pescina, fino all’adesione quasi passionale alle tradizionali confraternite e alle piccole ma sentite processioni di villaggio.
Un campo di ricerca sterminata, dunque, per il quale non basta l’impegno individuale, ma occorre che si muovano anche le strutture pubbliche, prima fra tutte la Regione e, subito dopo, l’Universitá dell’Aquila (38).
NOTE