La parte più numerosa e attiva del fascismo marsicano (sia agrario sia sindacalista), nonostante la trasformazione in partito, continuò a muoversi per qualche tempo ancora, senza un ordine e regole precise, esprimendo inclinazioni aggressive e atteggiamenti contradditori. In quest’ambiente, dopo la visita ad Avezzano dell’onorevole Alessandro Sardi, assertore della violenza punitiva di tutti gli avversari politici, le squadre delle camice nere misero ancor più in pratica le sue provocazioni verso i nazionalisti della zona (1).
In riferimento alla problematica, gli stessi rilievi furono fatti da Massimo Rocca, un revisionista divenuto fascista di tendenza monarchico-conservatrice. Per lui c’era urgente bisogno di una stretta autoritaria da adottare «dall’alto verso il basso». Di conseguenza, tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 la situazione si fece ancor più grave e preoccupante, quando le squadre fasciste locali divennero sempre più sorde alla disciplina e a ogni richiamo delle autorità (carabinieri, magistrati, prefetti e questori) (2).
In proposito, lo studioso Salvatore Lupo scrive che: «secondariamente, la violenza pagava. Essa non valeva solo a tenere a freno gli antifascisti, ma anche, non raramente, a risolvere le ingarbugliate rivalità di gruppo e di fazione che dividevano i vincitori» (3).
Quest’aspetto si incontra anche nel dissidente fascista Giacomo Lumbroso, che mise in luce, tra l’altro, la grave congiuntura dei dirigenti provinciali: «I prefetti, i questori, i funzionari e i magistrati di ogni categoria si son ridotti a tremare dinanzi alle violenze dei caporioni fascisti. Nei centri minori la sede del Partito si è spesso trasformata in una via di mezzo fra il Tribunale, la Caserma e il Municipio, tanto che spesso il maresciallo dei carabinieri ha dovuto eseguire degli arresti per ordine del segretario fascista» (4).
Oltretutto, in periferia i fiduciari regionali, i commissari straordinari, gli ispettori di zona, le commissioni d’inchiesta, le gerarchie della milizia e delle federazioni provinciali si contrastavano tra loro, laddove la soluzione data alle varie questioni da uno di questi organismi, era invertita dall’altro. A livello burocratico delle amministrazioni locali (comuni e sottoprefetture) e di quelle provinciali (prefetti e questori), almeno in questo difficile periodo, l’immissione di elementi fascisti invischiati in beghe interne, generò rancori ovunque. D’altra parte, stiamo già narrando una lunga serie di violenze perpetrate dai capi fascisti marsicani, indocili a qualsiasi disciplina imposta dal partito. Bisogna allora tener conto anche del comportamento ambiguo delle autorità periferiche che, sotto la pressione dei fascisti locali, facevano finta di non vedere «qualunque azione essi compiano». Per evitare contrasti e abusi continuamente perpetrati dalle squadre, una circolare indirizzata ai prefetti dal generale Emilio De Bono (direttore generale della Pubblica Sicurezza), specificava: «Se i fascisti o se dicenti tali commettono azioni inconsulte o atti di provocazione e prepotenza si colpiscano senza riguardo gli autori o i ritenuti responsabili». Questi erano ordini precisi per il controllo della grave situazione e si riferivano a tutti coloro che, sotto la camicia nera, si erano resi colpevoli di azioni violente (5).
In un quadro più generale, gli esordi della politica economica del nuovo governo non portarono certo giovamenti immediati, né sotto il profilo dei prezzi né sotto quello dei salari. L’ebreo Giorgio Mortara (ex ministro della giustizia con Giolitti e poi nazionalista che aveva aderito al partito fascista), puntualizzò come delle nuove scelte economiche si avvantaggiassero solo i ceti imprenditoriali (Torlonia e altri) a spese degli operai e agricoltori, quando però il nodo principale era incentrato da un disavanzo cronico del bilancio (6).
Non v’è da stupirsi che, in questo periodo i sindacati fascisti protesi alla risoluzione del problema «Fucino» (per quanto sottoposti e concilianti verso la proprietà Torlonia), approvarono una «piattaforma rivendicativa che, per molti versi, sembrò collocarsi su una linea di capitalismo illuminato». Da queste intenzioni, accettarono un’eventuale piattaforma di contratto, che prevedeva: l’assegnazione di appezzamenti superiori all’ettaro, la durata delle concessioni per almeno nove anni, la ricostituzione delle medie aziende, l’eliminazione dai contratti dei non agricoltori e una forma di retribuzione basata sulla quantità di lavoro proporzionata al costo del grano (7).
Ognuna di queste soluzioni venne appoggiata dal fascista avezzanese Ciro Cicchetti (8), proprio quando, invece, Torlonia insisteva sull’aumento dell’estaglio. Nonostante le corporazioni sindacali fasciste continuavano a divulgare una demagogia reboante a base di diritti del proletariato e di borghesia sfruttatrice, di contro, i principi romani si servivano del nuovo regime come un’arma per rimuovere le migliorie concesse negli ultimi anni agli agricoltori e ai contadini.
Con l’aiuto di questi importanti rilievi, l’ennesima denuncia del Popolo d’Italia (dicembre 1922), aveva messo in evidenza l’affiancamento di un nuovo fascismo al vecchio: «in quasi tutte le località i dissensi sono determinati dalla corsa pazza alle cariche amministrative o politiche, povere e miserabili cose, quando segnano il traguardo delle ambizioni che smarriscono il senso della misura e sono proprio gli aspiranti alle candidature che mettono criminosamente gli uni contro gli altri» (9). Né i più fanatici, i rivoluzionari, potevano accettare che nei centri periferici il potere rimanesse nelle mani delle logore amministrazioni comunali. Comunque, per quanto venuti a compromessi con il partito fascista, alcuni municipi rimanevano pur sempre i simboli del vecchio regime da eliminare al più presto. Queste affermazioni trovarono il consenso dell’antifascista Gaetano Salvemini, convinto che la parentesi fascista potesse almeno servire a eliminare definitivamente dallo scenario la classe politica precedente e tutto il «vecchiume» (Giolitti, Corradini, amministrazioni provinciali e comunali) (10).
L’episodio che vide le minacce dell’assessore comunale Luigi De Simone e dell’attivissimo Enrico Panfili (già noto per le sue spedizioni punitive) nei confronti del sindaco Ercole Nardelli, offre a questo proposito utili elementi di convalida di quello che andiamo asserendo. In realtà, il terrorismo squadrista, scorgeva dietro il comportamento del primo cittadino di Avezzano «oscure manovre del partito di Corradini». I due importanti capi fascisti, si presentarono in camicia nera al municipio per intimorire l’intera giunta; poi, incontrandolo per strada pretesero le sue immediate dimissioni con aperte minacce. Dopo quest’agguato squadrista, Nardelli inviò due telegrammi ad Giacomo Acerbo e a Mussolini, rivendicando «la propria fede patriottica e antibolscevica» (11).
Quando ormai stavano passando al fascismo e al nazionalismo anche elementi socialisti e comunisti locali, nei primi mesi del 1923, dopo le grandi manifestazioni di Sulmona e Teramo, anche nella Marsica ci fu l’ennesima «Festa Fascista», organizzata dal capitano Guido Marcellitti, che condusse in corteo un manipolo di camice nere di Trasacco verso «le case coloniche del Fucino per l’inaugurazione del Gagliardetto». All’imponente marcia degli ottocento iscritti si aggiunse pure la sezione femminile «al completo guidata dalle organizzatrici signorine Elena Calabrese, Fanny Marcellitti, Annita D’Orsaneo» con la fanfara fascista diretta dal noto violinista Alberto Mascioli.
Il 17 gennaio dello stesso anno fu inaugurato il gagliardetto della sezione fascista di S.Pelino «passata alla dipendenza del Direttorio di Avezzano». La cronaca ci racconta che, alle ore quattordici, il tenente Emilio De Cesare (comandante della Marsa Coorte), Corrado Saturnini, l’ingegner Rossetti, il ragioniere Sulli e altri ancora, preceduti da un manipolo di camice nere e una squadra di «donne fasciste», entrò in paese al suono di «Giovinezza». Il gagliardetto «finemente ricamato e frangiato in oro venne donato dalla nobile signorina Nina Lanciani», che ne fu la madrina.
Con l’intervento di una rappresentanza del «Consiglio Direttivo della Sezione Nazionalista di Avezzano» s’inaugurò anche la sezione fascista di Oricola. Il sindaco Curzio Nitoglia, dopo aver rivolto il saluto agli ospiti avezzanesi, presenti nelle persone del presidente Raffaele De Simone, del segretario politico Marrama e dei consiglieri Andreini, Bonacina accompagnati dal giornalista Armando Palanza, espose con «nobili dichiarazioni quali pure idealità di concordia e di amor patrio sentano i cittadini verso le file Nazionaliste».
Nel mese di febbraio, l’attenzione dell’opinione pubblica fu richiamata dal caso di Carsoli, sede di capoluogo del mandamento. Si vociferava da più parti che presto la pretura sarebbe stata soppressa, poiché la sua ubicazione territoriale era ostacolata dalla difficile viabilità: «giacché dei dieci paesi del Mandamento, ve ne sono otto lontani dalla ferrovia e di essi, cinque si trovano completamente sprovvisti di strade carrozzabili». Di conseguenza, le autorità della zona si opposero fermamente all’abolizione dell’antica sede storica, sostenendo fermamente la necessità di mantenere l’importante ufficio nella Piana del Cavaliere. Dopo queste dure contrapposizioni, fu inviata al ministero competente una memoria scritta che dimostrava, invece, il proficuo rendimento della pretura di Carsoli, in quanto: «per tasse di sentenze penali, registro e bollo è superiore a quello della vicina Pretura di Arsoli»; oltretutto, a detta degli interessati, la soppressione: «si risolverebbe in un danno per l’Erario dello Stato di una maggiore epoca di circa ventimila lire per testimoni penali ed una triste sciagura per queste popolazioni, alcune delle quali, a causa dell’enorme dispendio occorrente, si vedrebbero costrette a non poter ricorrere all’opera della Giustizia, che è almeno indispensabile di civile convivenza». Questo perché nella zona erano numerose le dispute tra privati per terreni e fondi rustici: «Ora, se la Sede del mandamento viene spostata ed allontanata dai luoghi ove la presenza del Magistrato si richiede per dirimere le controversie, più difficile sarà alle parti provvedere gli eccessi civili e tanto dispendioso da costringere a rinunciare alla giusta tutela dei loro diritti, affidandosi invece alla rappresaglia privata». Oltretutto, questa continuità amministrativa e giudiziaria, poteva vantare le sue origini storiche sin dal «tempo delle Istituzioni anteriori ai Giudicati Regi esistenti sotto l’antico Reame di Napoli», come si poteva rilevare dall’ampia documentazione esistente nell’archivio mandamentale (12).
NOTE
- R.Colapietra, Fucino Ieri, 1878-1951, Ente Fucino, Stabilimento roto-litografico «Abruzzo-Press», L’Aquila, ottobre 1998, p.137.
- M.Rocca, Fascismo e paese, in «Critica Fascista» Rivista quindicinale del fascismo fondata da Giuseppe Bottai, 15 settembre 1923, p.46. L’ex anarchico, convertito al fascismo, nel 1923 fu eletto nella Commissione Esecutiva e divenne membro del Gran Consiglio. L’anno dopo, però, visti i suoi atteggiamenti polemici nei confronti del regime, fu espulso dalla Camera dei Deputati.
- S.Lupo, Il Fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli editore, Roma 2005, p. 160.
- G.Lumbroso, La crisi del fascismo, Vallecchi editore, Firenze 1925, p.80; A conferma delle sue testimonianze, si vedano i documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, Ministero Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Atti Speciali (1898-1940), b.4.
- Archivio centrale dello stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati (Circolare 31 gennaio 1923), b.47.
- G.Mortara, Prospettive economiche 1923, Città di Castello 1923, p.373 sgg. Le sue pubblicazioni annuali sono indispensabili per la comprensione dello sviluppo economico di questo periodo, soprattutto per quanto riguarda il pareggio del bilancio statale. In seguito, però, l’importante economista di origine ebraica, fu costretto a fuggire in Brasile.
- C.Felice, Azienda modello o latifondo? Il Fucino dal prosciugamento alla riforma, in «Italia Contemporanea», dicembre 1992, n.189, p. 657. Insistono sui vari problemi legati al Fucino, anche L’Agricoltore Marso di Rocco D’Alessandro e L’Aquila, ambedue pubblicati nel febbraio del 1923. In generale, si veda: cfr., G.Lumbroso, cit., p. 91.
- R.Colapietra, Fucino Ieri, 1878-1951, Ente Fucino, Stabilimento roto-litografico «Abruzzo-Press», L’Aquila, ottobre 1998, p.139.
- R.De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Giulio Einaudi editore, Torino 2019, pp.406-407.
- G.Salvemini, Scritti sul fascismo, II, pp.193-194; cfr., A.C.S., Ministero Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari generali e Riservati, Atti Diversi 1898-1943, fasc.21. Salvemini fu arrestato nel 1925, in seguito, liberato per amnistia, fuggì all’estero.
- G.Jetti, Camillo Corradini nella storia politica dei suoi tempi, Arti Grafiche Pellecchia, Atripalda (AV), settembre 2004, p.110.
- Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Anno V – Num.284, Roma, 18 Gennaio 1923, Festa fascista; Anno V – Num.286 – Roma, 25 Gennaio 1923, Corriere di S.Pelino ne’ Marsi e Corriere di Oricola, Sezione Nazionalista; Anno V – Num.293 – Roma, 18 Febbraio 1923, In difesa della Pretura di Carsoli.