Borsellino, i cinquantasette giorni

Paolo Borsellino

Il tempo, quello che gli mancava era il tempo. Ne era ben consapevole, Paolo Borsellino, che visse con febbrile, angoscioso attivismo i cinquantasette giorni che passarono tra la strage di Capaci del 23 maggio 1992 e quella di via D’Amelio, che il 19 luglio ’92 -trentadue anni fa– sarebbe costata la vita a lui e a cinque agenti della sua scorta.

Dopo la morte di Falcone sentiva che era arrivato il suo turno. Disse un giorno alla moglie: “Faccio una corsa contro il tempo, devo lavorare, devo lavorare tantissimo e se mi fanno arrivare (…) Io ho capito tutto della morte di Giovanni”. Avendo di fatto raccolto l’eredità di Giovanni Falcone che, tra ostacoli e critiche di ogni tipo stava cercando di creare, a Roma, una Direzione Nazionale Antimafia, il lavoro di Borsellino stava procedendo, in quella estate, su terreni fino a quel momento inesplorati, zone d’ombra che conducevano, soprattutto, alla triangolazione appalti-mafia-politica, in seguito ad un dossier che era stato presentato dal Ros dei Carabinieri già nella primavera del ’91. Un esplosivo nodo di interessi che spiegava così quella che a prima vista sembrava una apparente contraddizione, cioè una mafia che colpisce in maniera così deflagrante, ad appena tre mesi da Capaci, ben sapendo che, di fronte a questa nuova strage, la risposta dello Stato sarebbe stata, come in effetti fu, durissima e non più procrastinabile. Ma evidentemente Borsellino faceva paura. Quel giudice, però, in quei cinquantasette giorni, era un uomo tormentato, solo, che avvertiva attorno alla sua figura persino il tradimento. Quando due magistrati che avevano lavorato con lui a Marsala lo andarono a trovare, a giugno del ’92, nel suo ufficio al Palazzo di Giustizia palermitano, dopo qualche convenevole lo videro sdraiarsi sul divano. Dai suoi occhi sgorgarono delle lacrime e la frase “Mi hanno tradito, qualcuno mi ha tradito. Qui è un nido di vipere”.

Una corsa contro il tempo, insomma, per cercare di chiudere il cerchio di una indagine che lo stava portando “vicino a scoprire cose tremende”, come disse alla sorella di Falcone nel trigesimo della morte del giudice. Intanto si susseguivano allarmi sul possibile attentato contro di lui, ma paradossalmente Borsellino lo seppe per caso, dall’allora ministro della Difesa Salvo Andò, incontrato a fine giugno a Fiumicino. Andò gli parlò della notizia, giunta da fonte confidenziale, di una strage organizzata per ucciderlo, pe mezzo di esplosivo, meravigliandosi del fatto che il giudice non ne fosse a conoscenza…

Il 19 luglio 1992 è domenica. Appena svoltato su via Mariano D’Amelio, l’agente che guidava la prima Croma blindata aveva fermato il suo mezzo, perplesso per il numero di auto parcheggiate nei pressi del civico 19. Un problema, del resto, quello di un posti auto sempre occupati, che era stato già da tempo sollevato, con la richiesta, rimasta però inevasa per le solite lungaggini burocratiche, di istituire in quel tratto una zona rimozione. Così l’indugio, in quell’afoso pomeriggio palermitano, è durato solo un attimo, anche perché la seconda Croma blindata, quella guidata dallo stesso giudice, Paolo Borsellino (era domenica e l’autista ministeriale riposava) supera la prima auto e si ferma davanti al civico 19, il palazzo dove viveva la madre e la sorella. Anche le altre due Croma si accodano e gli agenti (fra di loro una donna) scendono, insieme al giudice che si avvia al cancello del palazzo. Poi l’autista della prima Croma (l’unico che sopravviverà) risale sull’auto per fare manovra ed essere pronto a guidare il corteo delle tre blindate al ritorno del giudice. Sono le 16.58 quando una Fiat 126 imbottita di tritolo e parcheggiata proprio davanti il civico esplode, uccidendo Borsellino e cinque agenti della scorta…

Dovranno passare sedici anni perché, analizzando -unitamente ad altri riscontri- i resti della 126 e constatando come c’erano ganasce e sistema frenante nuovo, si darà credito a Gaspare Spatuzza, il collaboratore di giustizia che farà completamente riscrivere la storia delle indagini e dei tre processi già svolti per la strage di via D’Amelio, quello che è stato definito -con la condanna di innocenti- uno dei più clamorosi errori (nonché depistaggi) della storia giudiziaria italiana. Ma questa, appunto, è un’altra storia…                                                                        

Maurizio Cichetti

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