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Don Gaetano Tantalo: un sacerdote esemplare della Marsica, alpinista e apostolo della Carità tra Villavallelonga e Tagliacozzo

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I brani citati tra virgolette sono tratti da “Don Gaetano Tantalo Un sacerdote amico, umile, eroico, esemplare” di Nicolino Sarale, Edizioni San Paolo, 1995.

Don Gaetano Tantalo amico, seminarista, sacerdote, vice rettore di seminario, professore, parroco, amante della santità, alpinista, venerabile, forse beato e santo.

Mi colpisce don Gaetano alpinista. Questo certamente mi avvicina a lui, essendo anch’io alpinista, benché non sia più un rocciatore. Come può dirsi che egli fosse alpinista dal momento che non scalava pendii verticali con corde, chiodi e moschettoni? È semplice. Per lui l’alpinismo era ‘l’andare per monti’, secondo le proprie inclinazioni e capacità. Che bella questa semplicità. 

Don Augusto Orlandi, parroco a Magliano dei Marsi fino al 1973, di don Gaetano raccontava: “Amava la natura e si esaltava nella contemplazione dei suoi aspetti migliori. Captava con avidità le voci, le armonie, i richiami della creazione. Dal suo paese nativo, Villavallelonga, faceva spesso escursioni sulle montagne boscose, immergendosi nel silenzio profondo delle convalli, delle balze, delle vette dove impera sovrana la foresta vergine. Il Parco Nazionale d’Abruzzo lo conosceva nei dettagli e nei rischi, volendo sentirsi fratello ai ruscelli, ai torrenti, alle aquile, alle lepri, alle volpi, agli scaltri lupi, agli orsi possenti. Ma nessun infortunio e nessuna dispersione ha provvidenzialmente turbato mai il suo istinto di fraternità con le creature.”. “Mi aveva detto che lo tenessi avvisato quando ci fosse stata l’occasione di andare sulla cima del Monte Velino. Questa occasione si presentò… L’ascensione fu una gioia per gli amici, ma una sofferenza continua per lui. Incominciava a rendersi conto di non essere più l’alpinista di una volta. Io gli dicevo che ciò dipendeva dalle molteplici e ininterrotte penitenze che faceva, ma egli si scusava, minimizzando… Incominciò a offrire anche questa imprevista sofferenza: il sacrificio degli itinerari e delle ascensioni. Seguitava a farli, ma portando la croce e per portare la croce”. Nella vita di don Gaetano tutto era unito con sapienza al suo sacerdozio come le perle lo sono a una collana, le vette a una catena montuosa.

Il Monte Velino, dunque. In un giorno lontano anch’io ero lassù, ad aspettare l’alba con uno dei miei figli. Ero affacciato sulla Marsica, la Vallelonga a sinistra, Tagliacozzo di fronte che scendeva come una cascata dal ‘taglio nella roccia’ e simile a un albero di Natale addobbato per le feste. Vertiginosamente più in basso, sulla sinistra, comparivano i villaggi di Corona e Massa d’Albe, i quali, assieme, assumevano l’immagine caratteristica della clessidra. Corona e Massa d’Albe, in tal modo, mi facevano rammentare il tempo, il tempo che fugge e che nondimeno è generoso, affinché si possano compiere le cose che abbiamo scelte. La Marsica nella sua grande estensione era lo spazio in cui il tempo scorre, la vita si dipana. Laggiù a sinistra dunque c’era Villavallelonga, dove il 3 febbraio 1905 nacque Don Gaetano; di fronte, Tagliacozzo, ove il sacerdote morì il 13 novembre 1947. Avevo al di sotto di me tutto lo spazio a cui quel presbitero dedicò tutto il suo tempo. La salita che avevo compiuta di notte fin lassù, se da un lato non mi aiutò a capire cosa sia il tempo, mi diede la possibilità di cogliere e gustare la dimensione emotiva e spirituale di esso. Don Gaetano svolse tutto il suo ministero in quello spazio ristretto laggiù, tra Villavallelonga e Tagliacozzo, sicuramente amando il tempo come dono, gustandolo nella sua dimensione religiosa, professando e diffondendo un messaggio universale al di là di qualsivoglia confine. Il sacerdote Nicolino Sarale di lui ha scritto: “Il suo amore alla natura lo portava a gustare particolarmente il Pascoli e a compiere faticose ascensioni sui monti, simbolo delle ascensioni spirituali: Per aspera itur ad astra!”. Don Pasquale Tantalo ha intessuto a sua volta un bell’elogio del fratello don Gaetano alpinista: “Camminatore instancabile, scalatore indomabile, alpinista scelto, più volte li aveva visitati (i monti), aggirati in ogni senso, tanto da conoscerli a uno a uno con la dettagliata perfezione di una guida provetta…”. Osservare da lassù lo spazio in cui visse e operò don Gaetano, nel tempo che gli fu concesso, riflettere sulla sua vocazione tra i suoi amatissimi monti, sul senso del suo andare in montagna, mi ha restituito un don Gaetano più vicino, più comprensibile, più imitabile. Ho abbracciato tutto il suo mondo con uno sguardo, avevo poggiato i piedi dove egli li fece riposare, osservato il creato e i suoi villaggi come egli fece. Frequentò il Gran Sasso, la Maiella, il Sirente, ma amò oltre misura le montagne tra le quali era nato. Ora scendiamo lungo il sentiero da lui stesso percorso. Le sue tracce non ci sono più, ormai cancellate dal vento. Il suo Per aspera itur ad astra però rimane, lo possiamo udire interiormente mentre discendiamo verso Villavallelonga per affacciarci più da vicino a quello che è stato il suo mondo.

Eccoci dunque a Villavallelonga. Subito pensiamo, come si conviene, alla madre e al padre di don Gaetano, Luciano Tantalo e Maria Coccia, ai suoi tre fratelli e alle sue due sorelle. Di Gaetano la madre diceva “È nato proprio buono. È meraviglioso tutto quello che fa!”. Nel suo villaggio era amato da tutti, già da piccolo frequentava con devozione la chiesa, a scuola imparava con grande facilità quello che gli veniva insegnato. Amava la lettura, leggeva in disparte. Non per questo non aveva amici e con essi anzi condivideva molte cose. Da ragazzo desiderava gareggiare e primeggiare con lo scopo di mettersi alla prova. Montava a regola d’arte i cavalli, quelli vivaci e veloci, lanciandosi al galoppo persino lungo discese ripide e percorsi accidentati. Saliva sulle cime degli alberi più alti, stava in equilibrio perfetto sulle rovine del terremoto del 1915 e su di esse correva. Tutte queste abilità le portò con sé sulle montagne. Quando aveva cinque anni cadde in una fossa di calce viva; ne uscì incolume. Sopravvisse al terremoto della Marsica. Seppellito dalle macerie e in condizioni gravissime, venne salvato dalla nonna e curato in ospedale, dove rimase per molti mesi su di un letto in una camera oscurata. Nel 1915, il padre partì per affrontare la Grande Guerra. Tornò inabile al lavoro. La madre seppe far fronte alle difficoltà che ne derivarono; fede e amore le permisero di far sbocciare quel miracolo che fu don Gaetano. Questi, da piccolo, ricevette una forte impressione dalla condizione funesta del padre. Divenuto sacerdote, durante la Seconda Guerra Mondiale offerse le sue penitenze per i soldati al fronte. Eccolo dunque seminarista nel 1923 e presbitero nel 1930, vice rettore e professore nel Seminario di Avezzano nel 1931, vice parroco nella chiesa di San Giovanni Decollato in Avezzano nel 1933. In seminario “…ci raccontava delle storie meravigliose: ma soprattutto ci parlava dei suoi monti e dei suoi boschi, delle praterie piene di fiori e fragole, dei suoi compaesani pastori e contadini, forti, laboriosi, che spesso nei boschi si incontravano con i lupi e con gli orsi.”; questa la testimonianza di Ennio Giuseppe Colussi, condiscepolo di don Gaetano. Straordinariamente intelligente, colto, nella sua pedagogia seminaristica non scoraggiava nessuno pur essendo esigente. Dotato di un carattere dolce, coltivava sempre la comprensione con coloro che aveva di fronte a sé, non mortificava e non umiliava alcuno; come professore infatti, introdusse nell’insegnamento le prime importanti innovazioni fondate sulla pedagogia della disponibilità. Accanto a lui ci si sentiva calmi e sereni. La sua vita fu un’offerta continua di sé a Dio e al prossimo. Tradusse le Egloghe e l’Eneide di Virgilio, conosceva il greco alla perfezione e lo insegnava, amava l’arte, avrebbe fatto il pittore se non avesse avuto la vocazione, suonava il pianoforte, ammirava e studiava i grandi personaggi della storia e aveva un hobby nel conoscere la figura di Napoleone Bonaparte;  tuttavia, don Gaetano confessò che in seminario si serviva di certe letture per evitare, nel tempo della ricreazione, che si parlasse male del prossimo e dei suoi superiori. Nel 1935 gli venne affidata ‘pro tempore’ la cura della parrocchia di Antrosano e, in fine, nel 1936, venne nominato parroco di San Pietro in Tagliacozzo, allontanandosi ancor più dalla sua amata Villavallelonga. Egli era a servizio di tutti, dai fanciulli ai vecchi, sia nella cura pastorale che nelle difficoltà personali di ogni genere. Una bambina di quinta elementare, al tempo in cui il nostro presbitero era vice parroco in San Giovanni, considerava incontrare don Gaetano un fatto straordinario, e che i suoi occhi fissavano l’infinito. La vita di questi era povera, umile, nascosta anche a lui medesimo. I poveri erano i suoi preferiti e ad essi dava tutto ciò che possedeva. Il suo scopo era unicamente quello di permanere nel suo  stato sacerdotale e nel suo incarico di parroco, e questo per lui voleva dire guardare alla Verità, all’Eucarestia e alla salvezza delle anime. 

Da questa sua natura sensibile, alta e laboriosa sono discesi inevitabilmente tutti i suoi atti, da quelli meno eclatanti a quelli più eroici: offrire la sua vita, nell’ottobre 1943, per salvare il paese di Villavallelonga dalla rappresaglia nazista; nascondere, dal 1943 per nove mesi, nella sua casa canonica di Tagliacozzo, ove era parroco, la famiglia Orvieto-Pacifici, proteggendola così dalla repressione delle leggi razziali e sottraendola alla deportazione; offrire nuovamente la sua vita, nel giugno 1944, come ostaggio volontario nelle mani dei tedeschi, per salvare cinque ragazzi di Tagliacozzo condannati alla fucilazione… sempre immerso nella sua devozione alla Madonna e con la corona in mano. Proprio a Tagliacozzo, mia moglie ed io conoscemmo una donna anziana, parente di uno dei condannati, la quale ci raccontò con trasporto e vigile memoria quanto don Gaetano aveva compiuto per salvare i suoi compaesani; ascoltarla fu coinvolgente e commovente. Quella donna ci fece visitare la canonica e la chiesa di San Pietro, vedemmo gli occhiali tondi del sacerdote, occhiali che abbiamo ritrovato in una bella frase di Sarale: “Ci accompagna il suo volto serio e severo, ma sereno; il suo sguardo fisso e profondo, dietro gli occhiali semplici e austeri, non ammette sciocchezze e superficialità e nello stesso tempo sembra esortare all’impegno e al coraggio; la compostezza del comportamento, con l’abito talare e l’alto colletto bianco, ci ispira fiducia e confidenza… In effetti, don Gaetano è un buon amico nel cammino della nostra vita…”. “Con la sua familiarità spontanea e serena, sapeva all’occorrenza ridere e sorridere di cuore, creando un clima di fraternità e di cordialità.”. Questo accadeva anche sulle sue montagne che molto amava. Egli era un uomo straordinario e allo stesso tempo assolutamente normale, così veniva descritto quanto era nel Seminario di Avezzano. Una volta divenuto sacerdote non smise di parlare di sport e di entusiasmarsi per le conquiste di Bartali e della nazionale di calcio. Sembra persino che egli, la domenica che precedette la sua morte, non mancò di seguire alla radio la partita che in quel giorno vedeva in campo l’Italia.

Così torniamo a don Gaetano alpinista, a Tagliacozzo, attingendo nuovamente da Sarale: “Un giorno… allargò… le braccia come un san Francesco ed esclamò, col cuore pieno di gioia: “Oh! I miei monti, i miei monti!”. “Nell’agosto del 1946, preavvertendo la sua non lontana dipartita, volle rivedere Monte Cornacchia, la cui vetta aveva scalato più volte; ma a piedi ormai gli era impossibile e tanto meno da solo. Così sulla giumenta di suo zio Coccia Michele, in compagnia del suo caro abate don Domenico Giancursio, montante il suo mulo, con la scorta di suo fratello don Pasquale e di altre care persone, che procedevano a piedi, la cima più alta dei suoi monti fu scalata. Ma non c’era neppure l’ombra del fantino ammirato di un tempo, e il domatore di cavalli focosi; a stento si sorreggeva sulla sella, sebbene cercasse di rassicurare tutti delle sue capacità e della sua esperienza. Questa fu davvero l’ultima ascensione che compì; nessuno può ridire ciò che egli provò e rivisse nell’estremo saluto che dalla vetta di quel gigante dava a tutti i suoi monti…”. “Il 28 ottobre, attratto dallo splendore della luce del sole e dalla mitezza dell’aria, si portò in campagna e disteso sull’erba di un prato passò la giornata. A sera in casa disse di aver trascorso delle ore indimenticabili e di sentirsi rinascere, mentre al contrario di notte il male lo assalì con una violenza indicibile. Fu l’ultima uscita, perché non si leverà più dal letto, se non per celebrare, ma tra i brividi di febbre, la santa messa nella piccola chiesa di San Pietro, vicino ai suoi parrocchiani in suffragio dei defunti.”. Quel 28 ottobre egli avrà dato certamente l’ultimo saluto ai suoi amatissimi monti, ma non un addio. Infatti, egli non li dava per perduti neanche dopo la sua morte; come ci ha ricordato Sarale, don Gaetano, anelante dell’infinito, aveva gustato la vicinanza di Dio su quelle sue cime “dalle rocce tondeggianti e luccicanti di grigio argento”. 

Don Tantalo morì di broncopolmonite. Come egli aveva desiderato, fu seppellito nella nuda terra, a Villavallelonga. Di lui si disse: “È morto il prete santo!”. Si riuscì in fine a baciargli la mano; farlo quand’era in vita non era possibile, perché attorno ad essa aveva sempre la corona del rosario da far baciare. Giovanni Paolo II lo dichiarò venerabile il 6 aprile del 1995. Concludiamo questa escursione letteraria con una sua esclamazione, capace di illuminare la sua interiorità. Un giorno così rispose a una lettera di un suo caro amico, il quale gli scrisse della inutilità della vita: “A chi consacrerò il mio entusiasmo se condanno la vita?”.
Con don Gaetano si stava bene e ci si sentiva al sicuro. 

Marco Noto

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