Non vi è dubbio che le quarantaquattro pagine dattiloscritte, ritrovate recentemente dallo storico Duilio Susmel (Archivio del Ministero degli esteri tedesco), contribuiscono a chiarire le cause della caduta del regime fascista. Considerando gli sviluppi sorprendenti delle vicende è possibile leggere in un’analisi lucidissima, che cosa pensavano i tedeschi degli italiani subito dopo il disfacimento del governo fascista.
Si tratta di un importante «Ragguaglio sulla situazione politica italiana (1935-1941)», scritto da Rudolf Likus (consigliere speciale del ministro degli Esteri Von Ribbentrop), che mise in luce le cause della rovina di Mussolini. Il documento indaga sulle gerarchie fasciste favorevoli ai tedeschi: «soprattutto a quelle ostili alla corrente di potere di cui Ciano era capo». Le tesi essenziali, nella formulazione complessiva del rapporto, anticiparono quello che sarebbe accaduto di lì a poco, indicando i motivi e i mali peggiori del fascismo: «dovuti proprio a Ciano e all’oligarchia da lui creata; e che proprio il genero del Duce fosse stato a minare la forza politica dell’Asse e che per salvare il fascismo fosse indispensabile togliergli potere e rafforzare l’unione italo-tedesca». In realtà, l’estrema gravità dei problemi fu caratterizzata principalmente dall’inefficienza dei «seicento componenti della Camera», scelti a suo tempo secondo concetti di opportunità politica imposta dal partito. Oltretutto, si riscontrò una impreparazione di fondo presso le università, dove i piccoli borghesi delle città e delle provincie erano stati spinti a inviare agli studi i loro figli, studenti sprovveduti e svogliati. Molto più netta e articolata (secondo Likus) fu la posizione degli italiani verso la Chiesa e la monarchia, che rappresentavano da sempre «il vincolo morale della famiglia»; mentre, l’esercito, rimase essenzialmente legato al re. L’analisi finale, espressa dallo stesso in conformità a dati concreti, presagì con precisione prossime sventure, considerando che la classe dirigente fascista era stata sempre mediocre e disonesta. Oltretutto, in questa nuova fase, la popolazione italiana già nutriva «i sentimenti di vendetta, contro i capi fascisti, che facevano veramente paura». Visto l’andamento dei fatti, tutte le analisi di Rudolf Likus si avverarono in modo puntuale e violento proprio nel periodo trattato (1).
Nonostante lo sbarco della settima armata a Napoli (15 settembre del 1943), Mussolini da Berlino emanò cinque ordini del giorno e la costituzione del partito fascista repubblicano. Ormai, certo dell’appoggio di Hitler, scrisse: «Ai fedeli Camerati in tutta Italia. Da oggi, assumo nuovamente la suprema direzione del Fascismo in Italia. Nomino Alessandro Pavolini alla carica provvisoria del Partito Nazionale fascista […] Ordino che tutte le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche riprendano immediatamente i loro posti e i loro uffici» (2).
In seguito, giunse il noto annuncio trasmesso dalla radio e rivolto principalmente alle «Camicie Nere, Italiani ed Italiane», in cui lo stesso duce affermò che, dopo un lungo silenzio e un periodo d’isolamento, era necessario riprendere ora il contatto con gli italiani: «Da Roma fui condotto a Ponza […] Poi alla Maddalena e dalla Maddalena al Gran Sasso […] erano le 14 del 12 settembre quando vidi atterrare il primo aliante. Poi successivamente altri: quindi squadre di uomini avanzarono verso il rifugio decisi a spezzare qualsiasi resistenza». Mussolini accusò l’esercito di vergognosa capitolazione, specialmente per tutti quegli ufficiali e soldati che si erano battuti all’inizio del conflitto da valorosi accanto ai loro camerati tedeschi (3).
Nei giorni seguenti, furono emanati altri messaggi e ordini che invitavano a riprendere le armi a fianco della Germania per eliminare i traditori e «Annientare le plutocrazie parassitarie».
Una delle misure adottate drasticamente dai tedeschi fu l’ordinanza del feldmaresciallo Albert Kesselring, che impose la consegna di tutte le armi con la minaccia di pene severe per chi si sarebbe macchiato di: «Atti di violenza contro appartenenti alle truppe tedesche e chi danneggia gli interessi germanici»; mentre, nel processo di Verona, il Tribunale Speciale straordinario, emise diciotto condanne alla pena capitale nei confronti di noti gerarchi fascisti considerati traditori. Alle ore 9,30 del 12 gennaio 1944 furono tutti fucilati alla schiena nel «Carcere degli Scalzi» (4).
A questo punto, come specifica lo studioso Battaglia: «s’instaura una contraddittoria diarchia fra il principio di continuità del vecchio Stato fascista e quello del processo epurativo delle responsabilità, fra i principi della rivoluzione democratica e quella situazione di tregua istituzionale che non fu potuta modificare nemmeno dopo la liberazione di Roma, malgrado gli sforzi del Partito d’Azione, il grande sconfitto sul piano politico» (5).
Stando ai dati attuali, siamo in grado di conoscere, attraverso il carteggio del fondo Ministero della Difesa (ufficio del servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani), lo scenario completo della lotta partigiana e fratricida che si svolse nella Marsica in un quadro sconcertante della «guerra di liberazione», tra azioni di guerriglia campale, rappresaglie tedesche, fucilazioni, bombardamenti delle forze anglo-americane, razzie, banditismo e sabotaggi.
Ardite imprese di danneggiamento di mezzi tedeschi con binari delle ferrovie divelti e diverse altre azioni cruente, furono eseguite dalla «Banda La Duchessa» che in seguito furono descritte nel dettaglio dalla «relazione Marrone». Le operazioni della «Banda Liberty e della Banda Tufo di Carsoli», formazioni partigiane comandate da Renzo Gulizia e Clorinda D’Andrea di Carsoli, vennero realizzate grazie all’aiuto di ex prigionieri alleati e di altri elementi forestieri. Tra queste comitive armate si distinsero: Angela Angelini, partigiana di Carsoli e Maria Cappelli di Tufo; Cesare Dall’Oglio di Roma e Lidia Di Marco di Tufo. Nella zona di Tagliacozzo, invece, agiva la banda Gaetano Di Salvatore (ottobre 1943-giugno 1944); mentre, la comitiva della «Vittoria» si era costituita dopo l’8 settembre a Scurcola Marsicana per opera dei fratelli Alvise e Garibaldi Nuccitelli. La banda «Monte Velino» era formata prevalentemente da giovani renitenti alla leva, molto attivi nel territorio di Massa d’Albe con a capo Tullio Carattoli e il comandante Fileno Blasetti. Tra l’altro, il temibile drappello agì contro il «Comando della X Armata Tedesca» diretto dal generale Heinrich von Vietingoff-Scheel, che rimase nel presidio fino alla metà del maggio 1944, fuggendo dopo la rottura del fronte di Cassino. Nel prezioso carteggio si legge che, nelle intenzioni dei tedeschi, era contemplata la fucilazione di almeno venti patrioti di Massa d’Albe e dei marsicani più noti che lì si erano rifugiati. Cosa che fortunatamente non avvenne poiché il comando tedesco fu completamente distrutto dopo il bombardamento del 12 maggio 1944 (450 bombe quasi tutte da dieci quintali, rasero al suolo il presidio ma anche tre quarti del paese di Massa d’Albe, cagionando un gran numero di morti e feriti tra i tedeschi e ben quarantacinque morti e oltre cento feriti tra la popolazione civile). Spesso, l’attivissima banda armata «Monte Velino», si riuniva con quella di Forme. Tra gli episodi più cruenti, vanno segnalati quelli del 20, 25 e 29 maggio quando, per impedire che un drappello di SS. razziasse il bestiame nelle masserie circostanti, i partigiani combatterono senza tregua. Gli stessi erano collegati con la banda di Magliano dei Marsi, per promuovere altre azioni di disturbo contro la guarnigione tedesca.
La banda di Ovindoli, denominata «Ombrone» fu attiva nel territorio di Celano, comandata dal tenente Loreto Di Renzo, coadiuvato dai figli Ercole ed Evasio (erano in tutto quarantacinque partigiani), ritenuta da Bruno Corbi e dai corresponsabili militari De Feo e Salvadori come parte integrante della «Patrioti Marsicani».
Tuttavia, nel bel mezzo della feroce guerriglia armata, non mancarono le dure rappresaglie tedesche dirette contro persone sospette: infatti, furono arrestati tra i civili centoventi celanesi, trasportati con forza nelle carceri aquilane (spesso torturati), altri furono diretti al campo di concentramento ad Ascoli Piceno e dopo nelle prigioni di «Regina Coeli» di Roma.
Durante un’incursione alla caserma dei paracadutisti tedeschi situata ad Aielli Alto, nello scontro a fuoco che seguì all’attacco, Antonio Milone fu ferito all’arto inferiore da colpi di mitraglia rimanendo a terra. Fatto prigioniero dai tedeschi e dai soldati italiani repubblicani, venne trascinato sotto il ponte di Cerchio (sulla Tiburtina) e lì fu freddato con un colpo di pistola alla fronte (2 giugno 1944); stessa sorte quella di Gino Vicaretti che, catturato mentre stava tentando di rubare una cassa di munizioni da un mezzo tedesco, condotto in località «Ponte Negroni», venne ucciso barbaramente con una raffica di mitragliatore. Suo padre, Domenico Vicaretti, per vendicarne la morte, attaccò con altri partigiani una pattuglia tedesca di retroguardia, facendo strage di soldati.
Invece, Giuseppe Angeloni di Cerchio, fu vittima di una pattuglia tedesca in ritirata che l’uccise sparando all’impazzata sulla popolazione.
NOTE
- F.Venturoli, Che cosa pensavano i tedeschi di noi? In un documento segreto redatto dal ministero degli Esteri tedesco tra la fine del ’40 e l’inizio del ’41, in «Conoscere la Storia», Bimestrale, N.74, pp.10-15.
- Il Messaggero, Anno 65° – N. 221, Giovedì 16 Settembre 1943. Cinque ordini del giorno di Mussolini.
- Ivi, Anno 65° – N. 224, Domenica 19 Settembre 1943. Il radiodiscorso di Mussolini.
- Ivi, Anno 65° – NN. 228-265, settembre-novembre 1943; Anno 66°- N.10, Mercoledì 12 Gennaio 1944.
- R.Battaglia, La storiografia della Resistenza. Dalla memorialistica al saggio storico, in «Il Movimento di Liberazione in Italia», Rassegna di Studi e Documenti, N. 57, Ottobre-Dicembre 1959, Fasc.IV, Atti del Convegno sulla Storiografia della resistenza, Relazioni, p. 118.