Abbiamo finora cercato di illustrare i grandi conflitti zonali per spazi contesi, liti per il controllo del territorio e riconoscimenti tra fori locali e tribunali della capitale. Oltremodo: conflittualità per i beni comunali, quelli dei feudi, degli ecclesiastici e per i confini giurisdizionali, per i pascoli; contenziosi e scritture in causa, patti di fiducia, privilegi, lotte e ricomposizioni interne, beni collettivi, diritti antichi e interessi individuali. Tutto ciò accadeva nello scenario della Marsica della seconda metà del Settecento. Bisogna ammettere, però, che spesso il reintegro dei diritti sugli usi collettivi e la restituzione delle terre comunali usurpate nel tempo da feudatari e loro amministratori stentarono ad affermarsi. Il ministro borbonico Bernardo Tanucci aveva tentato invano di togliere potere ai baroni e al clero (padroni di quasi tutto il territorio in questione) che impedivano ai propri vassalli l’accesso alle proprietà demaniali, magari per raccogliere legname o per pascolare e abbeverare animali da lavoro. Gli episodi citati si muovono sulla stessa lunghezza d’onda, specialmente sull’uso collettivo e sulla lotta contro l’avanzare della proprietà privata: una pratica abusiva nel Settecento legata ai secoli del viceregno: «dogane-passi, dazi, pedaggi, mastrodattia, portolania, zecca, tributi della Colletta di S.Maria e di S.Pietro».
In ogni caso, nella Marsica d’antico regime, stentavano ad affermarsi i diritti dei cittadini e quelli dei comuni, che cercavano disperatamente di recuperare i beni del demanio statale attraverso la consultazione degli antichi catasti, oppure presentando vecchi documenti degli aventi diritto. In sostanza, se una comunità poteva dimostrare con titoli efficaci la proprietà dei pascoli e dei boschi aperti all’uso collettivo (erbaggi), i fondi appartenevano a essa per antico uso (la consuetudine) perché la legislazione del regno di Napoli considerava i beni comunali inalienabili e imprescrittibili, esenti da imposte (1).
Qualunque siano state le vicende, emergono dalle fonti, sanguinose faide locali che videro contrapposti vari soggetti del posto. Coinvolti in prima persona, in questo caso, furono Carlo e Giuseppe Tomei, implicati con le loro famiglie per affermare i diritti di caccia su tutto il territorio di Cese (1773), proprio quando una furiosa rissa scoppiò nella piazza del piccolo borgo, lasciando a terra contusi e feriti (2). Anche in altri villaggi marsicani prepotenze e vessazioni erano all’ordine del giorno. Nel marzo del 1778 gran parte dei cittadini di Rosciolo, capeggiati da Antonio Panei, Vincenzo Virgilio, Isidoro Ramelli, Domenico Di Giacomo, Filippo Francischelli e Gioacchino De Santis inviarono al «Preside» aquilano una denuncia contro gli amministratori del comune (Francesco Pascazi e Loreto De Santis) che, secondo loro, stavano dilapidando le esigue risorse economiche del municipio. Per ben sette anni, i due imbroglioni, si erano appropriati indebitamente e a scopo personale delle «Regie Collette», veri e propri testatici annuali che si esigevano dalla popolazione e che rendevano al feudatario dai venti ai trenta ducati per ogni comune della zona. Dopo una serrata indagine governativa, gli abitanti del piccolo borgo, riuscirono a sostituire i disonesti amministratori con l’elezione diretta del popolo in favore di Francesco Antonio Boccabella e Domenico Di Giacomo, anche se i libri contabili dell’Università, richiesti dal tribunale per dimostrare il dolo, non furono mai riconsegnati alla magistratura (3).
Un nuovo e inquietante caso interessò i paesi di Magliano dei Marsi e Rosciolo. Al centro della vicenda si trovò invischiato il padre guardiano del convento di «S.Martino di Tours» (località Carce). Il religioso Filippo dell’Aquila venne accusato dai due municipi interessati, di cattiva amministrazione dei beni appartenenti al monastero e, soprattutto, di deteriorare «una Selva assegnata dalle Università per uso di detto convento, con farvi recidere gran quantità di alberi per venderne i legnami». Inoltre, altre maligne segnalazioni inviate al «Preside Carrascosa» rivelarono, con dovizia di particolari che il frate, con il ricavato delle vendite, organizzava continui festini invitando persone di ogni risma, tanto è vero: «che quel convento non sembra più abitato da religiosi, bensì sembra una pubblica taverna, ed in queste crapule, e banchetti si consumano le sostanze del convento ed anco l’elemosine». Con effetto immediato, il capo della provincia mise alle strette i monaci, costringendo il monaco disonesto a recarsi nel tribunale aquilano per rispondere di tutte le accuse. Il padre guardiano, non potendo più usufruire dell’immunità ecclesiastica, fuggì, mettendosi al riparo nel palazzo del ricco Don Giuseppe Mena di Magliano. Gli avvenimenti precipitarono quando in una dura contrapposizione di forze avverse (laiche ed ecclesiastiche), Don Giuseppe Tomassetti (ufficiale di Celano), inviò a prelevare l’imputato da cinque militari del reggimento Lucania, capitanati dal padre priore Domenico di Barisciano. Infatti, su ordine del Preside (gennaio 1781) il drappello irruppe nella casa del signorotto di Magliano e, senza troppi indugi, prelevò con forza l’ecclesiastico, trascinandolo nelle carceri dell’Udienza aquilana in attesa di giudizio. Anche in questo clamoroso processo i libri contabili del convento non furono mai consegnati alla pubblica accusa (4). Tuttavia, alla luce dei fatti, il 18 giugno del 1783 l’organico degli «Osservanti Riformati di S.Francesco nel Convento di S.Martino di Magliano» fu completamente rinnovato dal rettore teologo fra Gaetano di L’Aquila, su ordine del vicario provinciale frate Vincenzo con: «Atto Pubblico per la lettura della Tavola della nuova famiglia dei religiosi di detto Convento e del Presidente» (5). La questione tra Stato e Chiesa era stata già sollecitata dal ministro Tanucci e investì anche le istituzioni marsicane, con un clima ostile verso il clero secolare e regolare, divulgandosi presso le corti civili e baronali di prima istanza, per porre in vista l’incremento esagerato degli ecclesiastici (pletora), le cui esenzioni fiscali, avevano determinato il tracollo finanziario delle comunità regnicole ed «essendosi gli ecclesiastici appropriati tutti i beni stabili e mobili, sicché l’imposta che andava ripartita tra molti» aveva finito con il pesare sulle Università e i cittadini indigenti. Infatti, nei primi anni del Settecento, le patenti fornite agli ecclesiastici zonali, consentivano ai titolari non solo di portare le armi ma garantivano a essi anche il foro particolare delle immunità. Di qui la grave menomazione della giurisdizione degli stessi governatori laici, che chiedevano perciò interventi urgenti per porre fine al dilagare degli abusi connessi a tale condizione di privilegio (6).
NOTE
- Per tutta la complessa questione si veda: S.Bulgarelli Lukacs, I beni comuni dell’Italia meridionale: le istituzioni per il loro management, in «Glocale», Rivista Molisana di Storia e Scienze, soc.9-10, 2015; G.P.Cassandro, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia meridionale, Napoli, 1924; G.Raffaglio, Diritti promiscui, demani comunali e usi civici, Milano, 1939; R.Trifone, Feudi e demani. Eversione della Feudalità nelle Provincie Napoletane, Società Editrice Libraria, Milano, 1909; M.Palumbo, I Comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità, voll.2, Montecorvino Rovella,1910; Storia degli abusi feudali di Davide Winspeare, Già Procurator Generale presso la Commissione Feudale dedicata al Re, Tomo I, In Napoli, Presso A.Trani, 1811, p.27 sgg.
- Archivio Diocesano dei Marsi, Fondo C, b.44, fasc.1001, Cese 1773.
- Archivio di Stato di L’Aquila, Fondo del Preside, Affari Generali, Iª Serie, cat.27, b.16, fasc.422.
- Ivi, b.16, fasc.423.
- U.Speranza, Segnalazioni di Fonti Notarili inedite per la Storia della Marsica anni 1506-1810, in «Bullettino della Deputazione Abruzzese di Storia Patria», Ser.3, vol 60/62 (1970-72), Notaio Pietro Crisogno Antoniani di Celano, p. 19.
- Biblioteca Nazionale di Napoli, Ms.XLV.8.12. Privilegi e Capitoli con altre grazie concesse alla fedelissima Città di Napoli et Regno. T.II, f.50. Cfr., Archivio di Stato di Napoli, Collaterale, Notamenti, vol.151, f.85r-85v.