La pesca nel lago del Fucino

Con il prosciugamento del lago del Fucino, i pescatori furono costretti a cambiare attività, ma non riuscirono a liberarsi dalla, purtroppo, secolare schiavitù. I soprusi e lo sfruttamento che subirono continuamente dal principe Torlonia non furono diversi da quelli dei feudatari che si ritenevano padroni del lago.

Nel 1806, con l’abolizione dei feudi, ad opera di Giuseppe Buonaparte, e la concessione del diritto di pesca alle popolazioni dei paesi intorno al lago, sembrava che si fosse posto un freno all’ingordigia, alle prepotenze e agli abusi degli ex baroni. Ma fu solo una mera illusione. Gli ex feudatari, infatti, continuarono a dettare legge e a spadroneggiare indisturbati. Secondo gli atti della Commissione feudale, agli ex feudatari, il principe Giuseppe Colonna, il duca Francesco Sforza Bovadilla, l’Abbazia della Vittoria di Scurcola , la Commissione, il 13 aprile 1810, confermò l’oltreuso, cioè il diritto a un terzo della pesca e la facoltà di venderla fuori dal territorio, cosa negata ai pescatori. Una concessione, quella accordata dalla Commissione, che, si calcolava, fruttasse agli ex feudatari 100.000 ducati l’anno.

Muzio Febonio, nella Storia dei Marsi, pubblicata nel 1678, scrive che «ogni anno il lago Fucino fornisce ai feudatari, dalla terza parte della pesca, una rendita di 12mila scudi». Al principe Colonna andava la terza parte del pesce pescato da Trasacco e Paterno. Di quello pescato da Ortucchio a Celano, il terzo veniva riscosso dal duca Sforza Bovadilla. Inoltre gli ex feudatari, oltre a mantenere gli antichi privilegi, facevano perlustrare le rive del lago da proprie guardie armate, per controllare i pescatori e farsi esibire le cartelle di spedizione. Un abuso di potere, che creò forti tensioni tra pescatori ed ex baroni. Il commissario regio, Giuseppe De Thomasis, per evitare disordini, ordinò allora agli ex feudatari di spostare le loro guardie al di là della linea dei territorio dei paesi che avevano diritto di pesca. Febonio dice che il lago «era ricco di ottimi pesci, di cui si cibano Roma, il Lazio, l’Umbria e tutta la circostante regione, sino a oltre 60 miglia». Abbondavano le tinche, le scardole, i barbi, gli spinarelli, i gamberi e le anguille.

I sistemi di pesca erano quattro: il mucchio, le reti, la lenza e la canna. La pesca più fruttuosa era quella praticata col metodo del mucchio. Consisteva nella costruzione in acqua di argini con fascine di vimini, fissate sul fondo con numerosi pali di legno. Verso l’autunno, i pesci, sentendo avvicinarsi il rigido inverno, andavano a nascondersi in queste fascine. Quando i pescatori si accorgevano che il mucchio era pieno lo cingevano con delle bande di tela per impedirne l’uscita e gettavano la rete. Un’operazione che richiedeva l’impiego di sette barche. A disporre di un simile equipaggiamento però erano solo in pochi. Gli altri dovevano servirsi delle reti, delle lenze e della canna. Agli inizi dell’800 le barche da impiegare nella pesca erano appena 318, a fronte di una popolazione, che viveva intorno al lago, di 17.900 abitanti. I Comuni che praticavano la pesca erano Ortucchio, Luco dei Marsi, San Benedetto dei Marsi e Celano. I primi tre vivevano solo di pesca. Per alleviare le sofferenze della popolazione, il 22 aprile 1812, la Commissione feudale portò la quantità di pesce che i pescatori dovevano, come prestazione, agli ex feudatari da un terzo a un sesto. Esentata da ogni prestazione era anche la pesca con canne e retelle e il pescato che non superava le 20 libre.

Gli ex feudatari però non si dettero per vinti, come dimostra il lungo contenzioso tra il principe Colonna e i pescatori di Luco. L’ex feudatario pretendeva da ciascun pescatore 10 carlini per la pesca delle folaghe, che i pescatori però ritenevano esente da qualunque prestazione, Alla fine, nel 1839, l’Intendente dell’Aquila dette ragione ai Colonna. I pescatori dovettero così mettersi l’anima in pace e pagare.

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