Il caso Silone è chiuso? Verrebbe da sperare, finalmente, di sì, mentre ci apprestiamo a ricordare i 46 anni dalla sua morte, avvenuta in una clinica di Ginevra il 22 agosto 1978. Ma poi si pensa che proprio quello spegnersi in Svizzera, lontano dall’Italia, di Ignazio Silone, sembra quasi voler fissare, come in una sorta di montaggio cinematografico divenuto ormai definitivo e immodificabile rispetto ad una vita, quello che è stato il tormentato destino, insieme umano e politico, di uno scrittore, un intellettuale, che continua ad interrogarci e sul quale continuiamo anche noi, a vario titolo, ad interrogarci.
Si diceva, appunto, di un “caso Silone” che ci ha accompagnato si può dire da sempre. All’inizio il “caso” -seppur già condizionato dalla coraggiosa dissociazione di Silone dal PCI- ha riguardato il piano squisitamente letterario, quando fior di critici ne hanno senza mezzi termini stroncato l’opera, ravvisando nella sua scrittura una asciuttezza, un controllo, che andava in direzione del tutto opposta alla ben consolidata tradizione crociana del bello stile che imperversava nel canone letterario italico. Era accaduto, del resto, lo stesso anche ad Italo Svevo, altro autore fuori dagli schemi e accusato anch’egli di scrivere male… Tornando a Silone, basti l’esempio di come Carlo Salinari, critico letterario di chiara fama, recensendo “Una manciata di more”, ravvisasse come “caratteristica fondamentale di Silone scrittore l’impotenza. Egli è incapace, attraverso la parola, di creare un sentimento, un personaggio, un ambiente”. Erano, quelli, gli anni in cui Silone soffrì dolorosamente un isolamento pressochè totale, messo all’indice da apparati di partito incapaci di cogliere la vena autenticamente libertaria di un uomo che aveva sì vissuto come un lutto -lui stesso lo sottolineò- l’uscita dal PCI, ma che pure aveva saputo scrivere, in “Uscita di sicurezza”, come “il comunismo, sorto dalle più profonde contraddizioni della società moderna, le riproduceva tutte nel suo seno”.
Venne però il tempo di un Silone finalmente collocato nella sua autentica veste di intellettuale capace, con la sua opera letteraria e il suo impegno politico condotto fuori da ogni appartenenza o ideologia, di dare vita alle istanze di giustizia provenienti dagli ultimi, dai ‘vinti’. Dirà Geno Pampaloni, uno dei critici che più ha amato e studiato Silone, che “Silone è stato il poeta del dissenso, in nome di un personalissimo socialismo cristiano (…) Il nostro debito con lui è incalcolabile, poiché la sua parola, o per meglio dire la sua lezione di vita ha lasciato un segno profondo nella nostra vita”. Considerazioni che appaiono senz’altro condivisibili, ad onta di quello che tornò a riproporsi come “caso Silone” quando, nella seconda metà degli anni ’90, gli storici Biocca e Canali ipotizzarono, a seguito di loro ricerche confluite in un libro, come Silone fosse stato informatore della polizia fascista, in particolare nel periodo, particolarmente angoscioso per lo scrittore, della detenzione del fratello Romolo nelle carceri del regime, dove poi sarebbe morto. Non è difficile immaginare come queste tesi, poi fortemente ridimensionate e di fatto azzerate, punto per punto, grazie all’apporto di valenti studiosi di Silone (tra questi lo storico Giuseppe Tamburrano e l’indimenticato intellettuale marsicano Vittoriano Esposito) finissero per produrre un autentico terremoto nel mondo intellettuale e tra gli addetti ai lavori, tra i quali si scatenò, per più di un quindicennio, un più che acceso dibattito tra innocentisti e colpevolisti, senza che però, da parte di questi ultimi, si riuscisse a contestualizzare nei giusti termini la posizione di un Ignazio Silone che, del resto, proprio con le sue opere, in primis “Fontamara”, (conosciuta ed apprezzata all’estero molto prima che in Italia) aveva dimostrato la sua avversione al Fascismo. Ma era evidentemente destino che anche da morto Silone dovesse rappresentare un “caso”… A noi, oggi, basta semplicemente rifarci alla sua più lampante e conosciuta considerazione, di sentirsi cioè “un cristiano senza Chiesa e un socialista senza partito”, per riaffermare, in nome della libertà, il debito e la gratitudine che gli dobbiamo.
(maurizio cichetti)