Hernici dicti a saxis quae Marsi ‘herna dicunt”.
Taglia corto il glossografo Festo (89,24) compendiando la vasta opera “Il significato delle parole”(De verborum significatione) di Marco Verrio Flacco, maestro di grammatica, precettore dei nipoti dell’imperatore Augusto, Gaio e Lucio e contemporaneo di Aulo Virgio Marso, tribuno della quarta coorte dei pretoriani, corpo scelto a guardia dell’imperatore, gli odierni corazzieri, se è lecito il paragone. Si saranno incontrati, i due, poiché frequentavano lo stesso palazzo e Ovidio, il poeta di Sulmona, li avrà conosciuti entrambi. Si saranno salutati, il braccio alzato e il consueto ave, incontrandosi all’ombra della quercia che stava fra due lauri davanti all’ingresso del palazzo imperiale. E’ lo stesso poeta a parlarne nel suo ‘perpetuum carmen’, Le Metamorfosi.
Cupido, curioso come tutti i piccoli che stravedono per le cose dei grandi, viene sorpreso da Apollo ad armeggiare con il suo arco. Il dio lo apostrofa pesantemente. Mortificato per essersi sentito chiamare lascivus puer, più per fanciullo che per lascivo, il figlio di Venere protesta:- Vedremo chi è più grande, ti farò vedere io!- All’istante vola in cima al boscoso Parnaso ed estrae dalla faretra due frecce dall’effetto opposto; l’una mette in fuga l’amore, l’altra lo provoca; con la prima ferisce la bellissima ninfa Dafne ; con la seconda, d’oro e con la punta lucente, colpisce Apollo e lo trafigge fino alle midolla. Accade così che come il dio indovino musicista cacciatore sterminatore di nemici guaritore lover ( stona, ma si potrebbe scrivere oggi un articolo senza arricchirlo?! di smart working, spending review, jobs act, family day, stepchild adoption, spread bail in?… E poi chi capirebbe se si dicesse ‘opprimente’ invece di nagging, ‘stridulo’ invece di shrill , ‘sgadevole’ invece di grating? Sì, nessuno capirebbe…), come il dio, dicevo, vede la ninfa, arde d’amore per lei e non desidera altro che starle accanto; ma quella fugge appena lo vede. Inizia un lungo inseguimento. Alla fanciulla sale il cuore in gola, si sente svenire quando avverte il fiato dell’inseguitore, più forte e più veloce di lei, sfiorarle i capelli sul collo; si prega la morte, implora la Terra che le si spalanchi sotto i piedi e inghiotta lei e la sua bellezza; prega Giove di aiutarla, di cambiarle quell’aspetto che è piaciuto a troppi e che è causa delle sue disgrazie. Ha appena finito di rivolgere la supplica al dio tonante che si sente intorpidire tutta e fissare al terreno. Giove ha esaudito la sua preghiera e Apollo, che stava per acciuffarla, si trova all’istante di fronte a un albero; ne è invaghito lo stesso; appoggia la mano destra sul tronco e sente che il cuore batte ancora flebilmente sotto la tenera corteccia; accarezza e bacia le foglie e i rami, come se fossero parti del corpo della ninfa; ma anche da pianta Dafne evita i baci. Il dio allora le dice: – Poiché non puoi diventare la mia consorte, sarai il mio albero; sarai di ornamento alla mia chioma, alla mia cetra e alla mia faretra. Accompagnerai i duci latini quando celebreranno i trionfi in Campidoglio, farai da fidatissimo custode ai lati del portale di Augusto e vigilerai sulla quercia che sta nel mezzo; e come il mio giovane capo porta i capelli lunghi anche tu avrai l’onore di una chioma sempre verde. Postibus Augustis eadem fidissima custos- ante fores stabis mediamque tuebere quercum- utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,- tu quoque perpetuos semper gere frondis honores-. L’alloro annuisce con i rami e muove la cima come se facesse cenno di sì con il capo”. (Metamorfosi I, 452-567 ).
Il poeta peligno sarà stato pure in rapporti di amicizia con il tribuno Marso, almeno fino a quando stette a Roma, che a un certo punto della sua vita, per un grave errore commesso, dovette lasciare per l’esilio ai confini dell’impero, a Tomi sul Mar Nero, l’odierna Costanza in Romania. I due erano quasi conterranei, l’uno della fredda Sulmona come definita dal poeta stesso, il militare era nato nelle vicinanze di Marruvio. Tra Marsi e Peligni sono corsi sempre buoni rapporti, come dimostrano ancora oggi i pellegrinaggi ai santuari di Cocullo e di Pratola Peligna. A primavera i Romani dopo aver celebrati i giochi in onore di Cerere, tra il 12 e il 19 di aprile, a pochi giorni di distanza, dal 28 aprile al 3 maggio, celebravano i ludi in onore di Flora, dea della fioritura. E’ a questi secondi spettacoli che il poeta e il tribuno assistevano poiché negli stessi giorni, anche nei loro paesi d’origine, c’erano festeggiamenti in onore della stessa dea, Anaceta per Peligni, Angizia per i Marsi. Era la loro Flora.
Lontani dalla propria terra d’origine, l’usanza di frequentarsi fra conterranei c’è sempre stata. Avviene oggi fra gl’Italiani del Canada, degli Stati Uniti, dell’Australia; delle altre parti del mondo. Negli anni della ricostruzione, del cosiddetto miracolo economico, i tanti compaesani che avevano trovata un’occupazione nella Capitale, la domenica si davano convegno alla stazione Termini per sentirsi un po’ a casa loro.
Il comandante dei pretoriani era di La Vëcennë (Vicus Anninus), a circa quindicimila passi a oriente di Marruvio e a poco più di un migliaio di passi da Tarote, luogo di origine dell’autore di questo articolo. Negli anni quaranta del secolo scorso Tarote contava ben 235 abitanti e ci si conosceva tutti, uno per uno; ora sono ridotti a una mezza dozzina.
Mi sono lasciato andare a questo riferimento personale per un semplice motivo; essendo lo scopo dell’articolo quello di risalire alla forma più antica dei nomi delle località citate nel ‘Catasto’ di cui al precedente scritto ‘C’è anche del gotico nella Marsica’ e di illustrarne il significato, oso affermare che parlerò di esse con cognizione di causa; le ho praticate tutte assiduamente sia perché, eccetto tre, vi si trovano uno o due di quei modesti appezzamenti di terreno di proprietà della famiglia che caratterizzano i possedimenti nella Marsica e che frequentavo al tempo della semina, dei raccolti e della vendemmia, sia perché noi ragazzi, allora numerosi, vivevamo all’aria aperta; non stavamo mai in casa; andavamo a raccogliere le prime violette da portare a scuola al signor maestro, andavamo in cerca di nidi, di bacche, di frutta da cogliere dopo arrampicate quasi impossibili su qualsiasi albero; anche su quei ciliegi, che alla biforcazione portavano legato un fascio di spine che scoraggiasse ogni tentativo di ‘razzia’. Il povero proprietario si sarebbe risparmiata la fatica di fissare quelle spine alla diramazione della sua ceraša, se solo avesse saputo dell’ “ Origine dell’uomo” di Darwin… Nulla scoraggiava i ragazzi di quel tempo.
Festo di cui alla citazione iniziale visse nel secondo secolo della nostra era, un secolo dopo Flacco, Aulo e Ovidio, quindi. Con l’accenno a tali personalità abbiamo fatto insieme un salto di due millenni; risaliamo di qualche secolo ancora e fermiamo l’attenzione al territorio dei Marsi ai secoli IV-V a.C.
Il lago è una conca, lo si troverà anche scritto sulle carte geografiche millenni dopo; è una grande distesa d’acqua che, guardata dall’alto delle cime dei monti che la coronano, appare come un immenso sprofondo. E’ noto che la società agricola, il popolo in genere, è legato al modo di pensare visivo e conseguente, come quello infantile.
Le comunità di pastori e agricoltori stanziate sulle alture intorno al lago, dall’alto dei loro insediamenti, avranno vista questa conca come una grande bocca d’acqua.
Occorre fare qui una considerazione, non di poco conto. Come nel IV secolo a.C. in tutto il bacino del Mediterraneo si parlava la koinè, una lingua basata sul dialetto dell’Attica che, pronunciato storpiato e scritto da genti molto diverse, cambiò a poco a poco ( si pensi a quanto avvenuto fra gl’Italiani di Brooklin che pronunciavano Broccolino ), come durante l’impero romano il latino era la lingua conosciuta in tutta Europa, mi scuso se ripeto quel che s’impara a scuola, che dal latino derivano: l’italiano, il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno, il ladino, i dialetti; come oggi la lingua internazionale è l’inglese, così ci fu un tempo, che va dalla fine del terzo millennio a.C. fino al IX secolo a.C., in cui lingua internazionale fu l’accadico. Questo idioma, fra le lingue antiche, ci ha lasciata la più ricca documentazione scritta; con le conquiste di Sargon ( 2340-2284) che estese i confini del suo impero fino alle sponde del Mediterraneo l’accadico si diffuse, insieme con la civiltà, in tutto il bacino; raggiunse le sponde dell’Atlantico, le Isole Britanniche, l’estrema Tule e, per le vie dell’ambra, arrivò alle rive del Baltico dove abbondava l’ambra, preziosa e agognata resina. Fatta questa considerazione ritorniamo al modo di pensare visivo e successivo al quale si è accennato. Le due piante di alloro ante fores descritteci da Ovidio stavano a bocca alla porta del palazzo, avrebbe detto un Romano incontrato per strada e al quale avresti chiesto informazioni sulla casa imperiale. Appena dopo l’ultima guerra, il mendicante che elemosinava con sulla spalla la bisaccia dove riporre, nelle due tasche, i tozzi di pane, annunciava la sua presenza recitando le giaculatorie a ‘bocca alla porta’ delle case. In una polla che gorgoglia dal terreno, in un’apertura nella roccia da cui scaturisca acqua, in una semplice pozzanghera, in una foce di fiume, tutti vedono un’apertura, una bocca d’acqua. In accadico bocca d’acqua suona pû-ini; pû ‘ bocca, apertura’ ini genitivo di inu, enu ‘ sorgente, fiume, acqua’ . Le lettere p b f , insegna la grammatica, sono labiali che con frequenza si scambiano fra di loro: b, p>f . Se p di pû-ini muta in f e fra i due termini, per eufonia, fa l’intrusione l’affricata prepalatale sorda c, non sarebbe Fucino una bocca d’acqua? Nome che coincide con l’essere stesso, ovvio per gli antichi. La parola che è fatto. Essere di parola…
Siamo dunque al V-IV sec. a. C. Sui monti attorno al lago ci sono diversi oppidi.; due sono i più in vista, quello sul Colle di Peppa, ( da accadico appu vetta, cima) sulla serra di Macrano in località Cirmë, e quello che si trova su Collëminë a ovest di monte Turchio, dove nel Medioevo sorgerà Litium. La vista di mura ciclopiche, di prima e seconda maniera, può appagare il curioso che s’incammini per la strada panoramica che le costeggia. Dalla cima di Collëminë dalle rovine appare in tutta la sua evidenza la configurazione del lago; è un bacino, una conca con un becco, con restringimento che da Archippe, oppido sul monte Praticello a occidente di Marruvio e dal promontorio di Venere, va assottigliandosi verso sud est fino a terminare con un vera e propria punta alla confluenza di due torrenti che scendono dal monte Turchio, Latavana e il Fossato, a Lecce. Gli ‘oppidani’ di Colle di Peppa, che in seguito troveremo al Vicus Anninus e quelli di Collemino, chiamano questa punta, questo margine del lago, nella loro lingua, hernu ‘ corno’.
Con il termine herna plurale di hernu, accadico qarnu, siamo tornati a Festo e ai suoi Marsi. Il glossografo nella sua concisione omette di dire che gli Ernici abitano una zona montuosa. Gli è noto però che le cime dei monti battute da venti, tempeste, bufere di neve, escursioni termiche, fulmini frane sono soggette a dilavamento ed erosione e diventano sempre più rocce appuntite. Vengono chiamate corni. L’esempio più calzante si ha proprio qui, in Abruzzo, nel Gran Sasso che i Romani chiamavano Fiscellus mons ma che, i popoli che vi abitano ai piedi gli Amiternini, i Vestini, i Pretuzi al confine con i Piceni chiamano Corni, herna, distinguendoli in Grande e Piccolo. Il significato del nome Hernici, allora, scritto alla latina con la spirante h, a cui l’evoluzione fonetica ha portato l’uvulare q di accadico qarnu è, letteralmente e nell’abbreviazione di Festo, quelli (che abitano) sulle alture, sui corni sassosi dei monti (Ernici).
Ma occupiamoci ora dell’ articolo “ C’è anche del gotico nella Marsica” perché vi si trovano elencate le seguenti località: Corno, Ospedale, Pretito, Ruano, Collicese, Frauni, Bicciuni,Montone.
Premetto: tutte queste località si trovano al Corno del Fucino che le comprende. E’ come se parlassimo dell’Italia e poi delle sue regioni.
Di Corno ho detto sopra: da accadico qarnu punta, picco; i corni del Gran Sasso, e aggiungo: corni della luna, falcetto, corni del copricapo dei sacerdoti di Mitra.
Ospedale
Località attraversata dalla scorciatoia che alle porte di Gioia, in direzione Parco Nazionale d’Abruzzo, sulla destra, consente di abbreviare per recarsi a Lecce. In posizione elevata rispetto alla zona sottostante chiamata Aquilella, può dirsi che incominci a Via Rosana, all’ingresso di Gioia ( Rosana, da accadico rešu vetta, altura e accadico enu fiume qui chiaramente con riferimento all’acqua del lago). La leggenda vuole che al terremoto del ’15 sia stato allestito un ospedale da campo in questa località , in pendio, lontana da Manafurne, quando sarebbe stato più agevole e consono alla bisogna allestirlo in località in piano, vicina alla strada nazionale, vicina all’acqua della Fonte Monumentale. Ci sarà chi considererà arbitraria questa mia considerazione; ma se pone attenzione al fatto che Ciacomo Terra “possiede una vigna di coppe 3 e puggelli 12 a Capo a Corno, confinante con l’Ospedale di Gioia” ( siamo nel 1704) si convincerà che il termine ospedale (spëdalë, in idioma) non può significare quel che suggerisce al primo impatto. Ospedale, contrada che si leva in alto; da accadico asu sorgente, che si leva, che esce da accadico appu cima, culmine, essere al culmine, e accadico alu, luogo, contrada, paese, città.
Rëvana
E’ da tener presente che il Catastiero Lorenzo Natale proveniva da Rovere e, istruito com’era, rendeva il italiano i nomi che sentiva pronunciare. Ha tradotto in Ruano il nome di Rëvana, che non viene pronunciato più perché, a Lecce, nessuno coltiva più un campo. Poca ma significativa la differenza. A Rëvana, e a Përditë, dove per alcuni anni è stata messa in funzione una discarica in barba alla raccolta di ben duecentosettantasei firme di capi famiglia in rappresentanza, quindi, di un migliaio di persone), si disperdevano anticamente le acque del torrente Latavana. Revana, da accadico rehu, scorrere ( greco reo) e accadico enu fiume. Nel termine Rëvana l’uvulare fricativa accadica h è passata a v spirante.
Colëcésë
L’incrocio alla Madonna del Pozzo non ha bisogno di descrizione per gli abitanti di Ortucchio, Aschi, Gioia e Lecce e neanche per il lontano lettore quando avrò detto che il tratto di strada che si allunga a oriente, verso Gioia, costituiva l’inizio di un faticoso cammino che portava ad Alfedena e al Sannio. Fino a qualche anno dopo la proclamazione della Repubblica a questo incrocio si teneva, il 5 di Marzo, e davanti alla chiesa , una fiera. La data e il luogo dicono più di ogni altra parola. L’acqua del lago arrivava spesso a questo incrocio. Certamente vi arrivò nel 1754 quando a Gio. Battista Gargari non venne tassato un terreno di coppe sette a l’Aquëlella ( località a nord del braccio che ho citato che guarda verso Aschi; p.430 del catasto di Lecce del 1754) perché “ ritrovasi sotto l’acqua del laco”, così testualmente. La localià di Colëcése è costituita dai terreni a sud della Chiesa, cioè il direzione di Lecce, là dove ora c’è il canile municipale. Colëcésë da accadico kalu, diga, argine e accadico asû sorgente, che esce, che sta fuori dal lago.
Përditë
Vale per Përditë quanto detto a proposito di Rëvana. Il Catastiero ha italianizzato in Pretito.
La località è attraversata da uno ‘stradello’, proveniente dal Pozzo di Forfora, che va a congiungersi con l’incrocio di cui ho detto a Colëcesë. Per lo stradello passavano gli abitanti di Supino ( Trasacco), di Archippe ( Arciprete) di Issa (Ortucchio) che dovevano recarsi nel Sannio e nell’Apulia dopo aver attraversato il Fiume al Bosforo. Questo è il termine che occorre vedere in Forfëra, dove è avvenuto lo scambio di labiale f<b e la rotacizzazione della sibilante r<s. Lo stradello costituiva, costituisce il confine tra le località di Colëlcésë, Rëvana Përditë stesso e il territorio sottostante, che si stende verso il lago; il confine che, a sua volta, come tale, costituisce sempre un inizio, un principio. Përdìte da accadico pe bocca, inizio e accadico itu etu confine, riva, territorio
Fraùnë
E’ la località dove si trova il cimitero di Lecce. Sentivo dire spesso da persone sfinite dalla fatica dei campi, “ Troverò un po’ di riposo solo quando sarò a Fraùnë”. Mi si presentava allora davanti agli occhi la zona pianeggiante che si stende dai piedi delle colline dei ruderi di Siérrë fino ai due torrenti, che qui, ora, hanno in comune l’ alveo. Un ponte collega le due rive. Non ponte, non letto di fiume, ben segnato, c’era al tempo di cui parliamo, ma straripamenti e allagamenti. Fraùnë, da accadico beru specchio d’acqua, stagno, pozzo e accadico enu fiume. In Fraùnë è avvenuto lo scambio di labiale f<b con metatesi ( trasposizione di due suoni ) della liquida r.
Vëcciunë
Anche per questo nome il Catastiero ha proceduto ad italianizzarlo in Bicciuni. I piccioni, evidentemente, non c’entrano affatto. Col censimento della popolazione degli anni ottanta la toponomastica cittadina subì un radicale cambiamento; tranne i pochi casi in cui vennero conservati i nomi della tradizione, si ricorse a nomi di scrittori e poeti del passato: Dante, Leopardi, Foscolo, Manzoni poco o per niente conosciuti, allora, dalla popolazione. Per un vicoletto nella frazione di Vallemora, a pochi passi dal Centro Anziani, fortunatamente venne mantenuto il termine Vëcciunë della tradizione. A pochi passi da Via Vëcciunë c’è il letto del torrente Fossato, come in basso a la Vëcennë di Tarote c’è l’alveo del temibile torrente di Lecce, Latavana. I nomi Vëcciunë e Vëcennë: da accadico (w)iku diga, argine e accadico enu fiume, con riferimento ai fianchi di monte che fanno da diga ai torrenti.
Ho detto di Latavana, temibile torrente; dico poco. Quando è in piena Latavana fa notizia; si sparge la voce, suscita curiosità e una volta, senza argini, metteva spavento: – Ména Latavana!- era l’allarme. Ancora oggi, quando è in piena, qualche curioso va sul ponte a vedere quel ‘fiume d’acqua’, quei vortici che trascinano di tutto verso la Rëtonna e Rëvana, verso Ortucchio, verso Fucino. E’ da vedere in quel ‘ ména’, il greco mainomai ‘infurio’; io vedo Menadi, le Baccanti furiose che fanno a brandelli Penteo; mi torna in mente l’ira funesta del Pelide Achille “ mènin àeide theà, Peleïàdeo Achilèus”, e in Latavana, vedo il “Leviatano il drago marino, il Leviatano serpente tortuoso ( Isaia 27,1 ; Salmi 74,14; 104,26),Tiâmat il mostro marino dell’ Enûma Eliš , il poema mesopotamico, sconfitto da Marduk; semitico tâwatu mare.
A monte di Vëcciunë c’è Piazza d’Erbe dove di erba ce ne sarà stata sempre poca. E’ un nome diffusissimo i tutta Europa: c’è il fiume Ebro nella penisola Iberica, il fiume Ibar nel Kossovo che attraversa la città di Mitrovica , Arbil città dell’Iraq, Erbil del Kossovo, il monte Horeb su cui si ritirò il profeta Elia (Re I,19); e c’è piazza d’Erbe a Verona vicina all’Adige e la cittadina di Erba, in provincia di Como, con il nucleo originario su una riva del fiume Lambro. L’elenco potrebbe continuare. Alla nostra Piazza d’Erbe s’imbocca(va) la via che porta a Lecce Vecchio; allunga la distanza ma più agevole, alternativa a quella del Vallone; Erbe da accadico eberu traversare un fiume, accadico ebar di là, lett. all’altra riva, passo montano. Un urto da parte di un qualche automezzo ha danneggiata l’insegna che è rimasta per lungo tempo piegata a terra fino a quando sarà finita dal ferrovecchio; e così nonostante le segnalazioni, anche del passaggio montano, dell’attraversamento del torrente, del tramonto, di eberu di Piazza d’Erbe si perderà la memoria…
Montone
Mëntonë. Giacomo Terra vi possiede, lo si legge al ‘Gotico nella Marsica’, coppe quattro coltivate a vigna; altre quattro, sempre a vigna, le coltiva Domenico di Salvatore, due Filippo di Pietro d’Angelo, sei Francesco Massa, due Francesco Epifanio, tre Gervasio Gervasi, mi fermo qui. Tutti pagano un canone al R. Don Luca Corsignani di Celano. Certamente avrò messo piede anche in questa località, ma non l’ho mai sentita nominare perché scomparso con altre diverse decine di nomi dalla memoria collettiva; per certo deve trovarsi a confine con Rëvana e Përditë in direzione di Ortucchio, dove ormai la corrente di Latavana, nei tempi antichi, arrivava affievolita e dispersa. Il fiume Montone in provincia di Ravenna, e i terreni tutti coltivati a vigna, quindi di buon livello colturale tenuti in enfiteusi, con diritto reale di godimento, ci fanno scoprire in Montone accadico mû, mê acqua e accadico enu fiume.
Ma dando una ripassata all’articolo ho letto agli appunti trascritti da documenti: Partita” Chiese, Munisteri e Luoghi Pij Forestieri- Cerchio. Venerabile Conuento di S. Maria delle Grazie”: Possiede li seguenti beni […]: Possiede alla Liscia, seù( cioè) Pretito o Montone un territorio di coppe otto, g.a (= giusta,vicino) li beni di Gio. Battista Abrami e Domenico di Giovanni Terra; stimata la rendita per annui carlini dodici, sono once: quattro”. Prima della verifica il nome mi aveva già suggerito giusto! E altro se la conoscevo; l’ho attraversata centinaia di volte fin da ragazzo per recarmi in uno di quegli appezzamenti di cui ho parlato all’inizio.
Santo Chirico
Mi riservo di trattare Santë Ghìërëchë in un prossimo articolo quando parlerò di numerosi altri… santi, compreso Saint-Michel, il celebre isolotto nella Manica.
Nel frattempo il lettore può curiosare al mio precedente scritto ‘Il segreto di certi… santi’. In “C’è anche del gotico nella Marsica” nominavo Ara dei Lupi e Ara dei Merli; Sono in debito con il lettore.
Ara dei Lupi
E’ la costa della riva sinistra del Fiume di Lecce, al Pozzo di Forfora; scende alla profondità della valle. Il nome della costa montana opposta, si chiama Obbëchë ( Catasto p. 239: Domenico Cherubini vi possiede un territorio di puggelli due a confine con Giovanni di Cosimo e Sante di Marco Barile). Il nome Obbëkë è(ra) dato dai Leccesi al Vallone della Forchetta, di fronte ad Ortucchio, a ovest di Macchia, Camarinë, Siérrë, vecchi casali di Lecce distrutti dal terremoto, e lo ritroviamo, chi non lo nota?, in Ob, il grande fiume della Russia, idendico al sumero ub profondità; ab mare, accadico iku diga, argine, canale. Con queste indicazioni la località Ara dei Lupi, dove i lupi non c’entrano affatto, è da accadico aradu declivio, scoscendimento, venir giù, perpendicolare e accadico uppu cavità, sumero ub profondità.
Ara dei Merli
Aradu accadico; declivio, scoscendimento e accadico melû altura.
Bibliografia:
Publio Ovidio Nasone: -Le Metamorfosi. I, 452- 567 – Fasti: IV, 393 sgg; 943 sgg.
Giovanni Semerano: – Le Origini della Cultura Europea.
Euripide – Baccanti
Omero – Iliade