Il difficile riordino delle giurisdizioni nella Marsica tra conflittualità e poteri forti (1750)

Particolare pianta della Marsica
Particolare pianta della Marsica

Nella sua premessa lo studioso Giuseppe Orlandi scrive: «Dopo il 1734 le cose cambiano, si profila un Settecento diverso, sia in campo politico che religioso». A supporto delle sue tesi, cita il saggio di Franco Venturi (1969) e quello di Raffaele Ajello (1991), due autorevoli storici che si occuparono dell’argomento in modo specifico (1). Oltretutto, anche altri importanti personalità nel campo della ricerca, rilevarono l’importanza dell’avvento del Borbone. Giustamente, Aurelio Lepre, aggiunge che l’anno 1734 fu: «uno spartiacque nella storia del Mezzogiorno. La nascita di uno stato autonomo o, perlomeno, in via di autonomizzazione, rendeva possibile una completa frattura con il passato» (2).

Tuttavia, le tensioni interne della società meridionale non furono completamente diminuite: baroni e vescovi, immersi nella loro visione arcaica, tentavano ancora di legittimare l’antico regime. D’altronde, come ben afferma lo storico Gabriele De Rosa: «I tempi dell’evoluzione di una spiritualità, di una mentalità, di un costume popolare sono molto più lunghi di quelli relativi agli eventi politici» e alle nuove leggi, nel nostro caso, imposte dal ministro Bernardo Tanucci (3).

Infatti, il giurisdizionalismo, l’anticurialismo e il regalismo maturati negli ambienti amministrativi borbonici, continuarono ad animare nel XVIII secolo il dibattito degli anni venti intorno alla figura dello storico Pietro Giannone altresì negli anni quaranta con la conclusione del Concordato e la soppressione del S. Ufficio (inquisizione romana); negli anni sessanta con l’espulsione dei Gesuiti; negli anni ottanta con l’eliminazione dell’omaggio della «Chinea e del diritto d’asilo». Battaglie che videro la Chiesa arroccarsi su posizioni di mera difesa, impegnata attivamente in una vera e propria controffensiva scatenata contro tutti, rifiutando a priori un rinnovamento interno e di relativa apertura al confronto con le nuove leggi emanate dal Borbone. 

In questo periodo, una ennesima lite tra il vescovo dei Marsi e il sacerdote «ribelle» don Domenico Pietrantonio, tirò in ballo anche il presule di Valva e Sulmona. Come di consueto, nominando un successore per «vacazione della Cappellania» di S. Antonio presso Villa S. Sebastiano, si erano scatenate dure reazioni, quando il monsignore assegnò il beneficio a suo nipote don Giuseppe Brizi. La posta in gioco era sicuramente alta: ventiquattro ducati d’oro annui. Pietrantonio ricorse immediatamente alla «Dataria», appoggiato dal vescovo di Valva e Sulmona, dopo che il tribunale della «Nunziatura di Napoli» aveva sospeso e sequestrato i beni della «Cappellania». La lunga diatriba che ne seguì, provocò, di conseguenza, cause e ricorsi, appelli e lunghi verbali inoltrati all’autorità superiore. L’intera vicenda è racchiusa in un voluminoso fascicolo intitolato: «D.Dominico Pietrantonii contra D.Josephum Britii» e dimostra ancora una volta conflittualità zonali caratterizzate da lungaggini, denunce e insabbiamenti della vertenza (4).

Identica questione accadde per l’assegnazione della «Badia di S.Quirico della Torre d’Ortucchio», una dura contesa per la successione alle rendite del 1750, scoppiata tra il reverendo Giorgio Saturnini e il sacerdote Gaetano Antonio De Benedictis (5).

Nel 1754 si riattivò, invece, una controversia per lo «Juspatronato» di altri benefici ecclesiastici che vide protagonisti il solito vescovo dei Marsi contro il duca Don Filippo Sforza-Cesarini. Stavolta prevalsero le ragioni del feudatario, ben sostenuto nei tribunali romani e napoletani, poiché tutti i documenti vidimati dal presule, che a dispetto del signore aveva nominato al beneficio i suoi accoliti, furono annullati (6).

Resta inteso, comunque, che il «Preside, e Comandante Militare della provincia di Apruzzo Ultra», marchese di Torreblanca chiamato a ristabilire ordine tra tutte le legislazioni e i privilegi ancora in auge nei territori, inviò severi dispacci di monito alle Università, alle corti baronali e ai cancellieri di ogni paese marsicano affinché non provocassero tumulti di piazza, aizzati spesso dalle parti in causa. Successivamente, con un «Ordine spedito dal Sig. Marchese Don Antonio Torreblanca», lo stesso ministro Tanucci (23 febbraio 1750) fece rilevare che la prepotenza baronale in atto, cui erano soggetti molti sudditi, favorita da «altrui malignità, e insidie», imperversava ancora in tutta la Marsica e nell’Aquilano, opprimendo le classi meno agiate. Tanto è vero che: «molti veggenti carcerati come supposti Rei», non avendo maniera di difendersi «né di mantenersi dentro le carceri, paventati dalla lunghezza del litigio» languivano prigionieri in condizioni deplorevoli. Oltretutto, in una situazione di grave degrado zonale, il capo della provincia fu costretto a richiedere un dettagliato resoconto da tutti i comuni del comprensorio, sul «numero de’ vagabondi e l’elenco dei soldati provinciali delle suddette Università che dal giorno della formazione del Reggimento erano disertati» (7).

Tuttavia, l’autorità del «Preside» aquilano, era ostacolata da altre istituzioni impegnate a mantenere i propri privilegi a spada tratta. Stando ai dati in nostro possesso, di particolare rilievo appare un bando emesso nello stesso mese (febbraio) da Don Pietro Antonio Colabattista di Pescina, appena nominato governatore della «Regia Doganella» d’Abruzzo Ultra. Si trattava di un ammonimento molto minaccioso indirizzato ai «Camerlenghi, Sindaci, Priori, Eletti e Commissioni delle sottoscritte Città, Luoghi e Terre soggette al ripartimento di Pescina» finalizzato a imporre la sua importante carica cui competeva di «amministrare la Giustizia per tutti i Locati, e qualsiasi loro causa civile, criminale, e mista». A questo punto il luogotenente marsicano proibì ad altre autorità (Preside compreso) di «intromettersi in conto veruno nelle cause tanto a favore, come contro i Locati, e sudditi di essa Regia Dogana». Oltretutto, i proprietari di greggi «tanto sopra il numero di venti, quanto sotto il numero di venti» avevano l’obbligo di presentare subito le loro «patenti col nome, cognome di essi padroni, con la distinzione del numero di pecore possedute, e la quantità del denaro che ne pagano per la Fida». L’ordine tassativo doveva essere ampiamente diffuso «dai Monaci Mastrodatti, e Canonici rispettivi sotto pena di ducati cinquanta» (8).

Al tempo stesso, continuarono a essere emanate dal governo borbonico, misure limitative della proprietà baronale e delle ordinazioni ecclesiastiche (1769-1771), per cercare così di ridurre i compiti e le funzioni della potenza clericale, feudale e di altre giurisdizioni insistenti nel regno, che continuavano a erodere in maniera sostanziosa le finanze statali.

In questo groviglio di riforme strettamente legato alla situazione sociale dell’epoca, in particolare, gli studi del pensatore politico Gaetano Filangieri (Scienza della legislazione, 1780-1785) e del filosofo economista Francesco Grimaldi (Annali del Regno di Napoli, 1781) sembravano condensare alla fine del secolo il significato, insieme teorico e pragmatico, di un’operosità intellettuale e di una virtù «massonica» indirizzate alla pubblica utilità e non solo, ma anche a guidare il giovane re di Napoli verso un’azione di governo più determinata. Del resto, come specifica la studiosa Anna Maria Rao: «Di questo processo di rinnovamento e di trasformazione si sono sottolineati gli aspetti di continuità: primo fra tutti il permanere, accanto alle nuove famiglie, di un nucleo di famiglie antiche al vertice della gerarchia feudale fino al momento dell’eversione napoleonica» (9).

NOTE

  1. G.Orlandi, Il regno di Napoli nel Settecento. Il mondo di S.Alfonso Maria de Liguori, SHCSR 44, 1 (1996) 5-389, p. 6.
  2. Ibidem.
  3. G.De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli 1983, p. 13.
  4. Bibliografia Storica degli Abruzzi, Terzo Supplemento alla Biblioteca Storico-Topografica degli Abruzzi di Camillo Minieri-Riccio, composto sulla propria collezione da Giovanni Pansa, R.Carabba Editore, Lanciano 1891, p.562 sgg.
  5. Ivi, p. 379 sgg.
  6. E.Celani, Una pagina di feudalesimo. La signoria dei Peretti, Savelli, Sforza- Cesarini, sulla Contea di Celano e Baronia di Pescina (1591-1806), Città di Castello, S. Lapi 1893, pp. 177-188.
  7. Archivio Storico del Comune di Avezzano, Libro dove si registrano tutti i Dispacci Reali, e altri ordini de’ Presidi, Tesorieri, Capitani di Regia Grascia, e ogn’altro. I disertori erano soldati provinciali, sette compagnie di granatieri e fucilieri di montagna che indossavano divisa blu con  bottoni bianchi.
  8. Ivi
  9. A.M.Rao, Mezzogiorno feudale. Feudi e nobiltà da Carlo di Borbone al Decennio francese, fedOA Press, 2022, Morte e resurrezione della feudalità: un problema storiografico, p.25. In proposito, si veda soprattutto lo studio di A.Massafra, Giurisdizione feudale e rendita fondiaria nel Settecento napoletano: un contributo di ricerca, in «Quaderni storici», VII, 1972.

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