In una realtà come quella del Fucino, ancora una volta le affermazioni di Pizzuti rimangono a segnalare diffusi malumori «derivanti dalle modalità di corrisposta dell’estaglio in bietole e dalla prassi amministrativa adottata dall’Azienda agraria congiuntamente alla S.A.Z.A». Si trattava di molteplici lagnanze scaturite da intense trattative con i sindacati: «oppure di rappresentanza degli affittuari alle bascule e nei contraddittori ufficiali per la tara e per la scelta dei campioni o per la definizione del grado di polarizzazione», proprio quando ormai dal 1937 al 1939 la situazione debitoria dei coltivatori aveva raggiunto proporzioni notevoli. Oltretutto, durante il corso dell’anno scadeva anche il vecchio capitolato provinciale risalente al 1933, che fu infatti rinnovato il 20 giugno 1939, con nuova stipulazione firmata all’Aquila.
In definitiva, ci riferisce ancora Pizzuti: «Nel dettaglio le modifiche di qualche articolo o di qualche comma, rispetto al vecchio capitolato, non indurranno a fermarvi l’attenzione, poiché di nessuna importanza per il problema del Fucino: sarà infatti appreso senza interesse che la durata del contratto individuale viene sancita non inferiore ad anni quattro; che il divieto di cessione e subaffitto è mitigato dal permesso di associarsi ad altro diretto coltivatore quando l’affittuario non possa più attendere personalmente alla conduzione, e che viene introdotto un nuovo articolo per i vigneti, mentre, viceversa, è abrogato il comma concimi chimici dall’articolo concernente le norme di coltivazione» (1). Tuttavia, all’indomani della stipula del nuovo contratto provinciale, il principe Carlo Torlonia ordinò lo sbarramento degli accesi ai terreni del Fucino: «riservandone le quarantasei strade esclusivamente ai lavoratori, donde la clamorosa causa mossagli prima da Luco e poi dagli altri comuni ripuari, protagonista Francesco Volpe, in nome della servitù pubblica e del richiamo ai vari diritti di comunicazione e di pesca», riportando così in auge le vecchie dispute ottocentesche contro i Torlonia per affermare i diritti demaniali dei comuni ripuari e quant’altro, in contrapposizione con il persistere del fermo atteggiamento padronale che ribadiva la proprietà di diritto (2).
Oltremodo, in questo scenario locale pieno di tensioni, pesava l’aspetto principale della situazione internazionale, certamente molto più complessa da risolvere per Mussolini, laddove il famoso «patto a quattro» presto non avrebbe avuto più senso. La relazione tenuta dal duce nella notte tra il 4 e 5 febbraio 1939, che rimase serbata agli atti del Gran Consiglio, produsse un documento «orientatore della politica estera italiana a breve, a lunga, a lunghissima scadenza». In sostanza, leggendo i diari di Ciano, Bottai e De Bono, si rileva che la sicurezza per l’Italia sul Mediterraneo centrale e occidentale, dipendeva dalla Tunisia e dalla Corsica, visto che «le sentinelle di questa prigione erano Gibilterra e Suez». Per questo e tante altre cause concatenanti, occorreva rivendicare subito Gibuti e annettere l’Albania altrimenti, come affermò Mussolini «La nostra posizione in questo mare chiuso è pessima» (3). Di conseguenza, dal 26 marzo in poi nei discorsi del duce ai gerarchi fascisti si evidenziarono problemi di una prossima e inevitabile mobilitazione: «Bisogna armarsi quando si è forti si è cari agli amici e si è temuti dai nemici»; oppure: «La parola d’ordine del Fascismo rimane oggi come allora, come sempre: credere, obbedire, combattere!». Tutto ciò dopo la conferenza di Monaco dell’anno precedente (29-30 settembre) dove, grazie alla moderazione del governo italiano, al momento si evitò il pericolo della guerra, entrando però in una nuova fase politica (4).
L’alleanza italo-tedesca avrebbe messo in piedi (secondo i tecnici militari internazionali) un esercito di ben quindici milioni di uomini «in linea allo scoppio di una eventuale conflagrazione». A dimostrazione di tali intenzioni «Una colonna interminabile di 20 mila uomini, 300 cannoni, 700 mitragliatrici, 1000 automezzi», caratterizzò entusiastiche dimostrazioni di potenza militare davanti al Quirinale e Piazza Venezia (5).
Il 1° settembre 1939 l’agenzia Stefani comunicò ufficialmente agli italiani che l’Italia fascista sarebbe rimasta neutrale nel conflitto tra Germania e Polonia. In ogni modo, se si vuol capire fino in fondo il senso del messaggio, occorre leggere attentamente i diari di Ciano, Grandi e Bottai, in pagine che descrivono le fasi convulse dei tentennamenti e delle indecisioni avute da Mussolini durante tutto il mese di agosto (6)
Come ben precisa lo studioso Francesco Filippi: «Quando scoppiò la Seconda Guerra Mondiale lo stato di esaurimento delle forze armate era tale che Mussolini, a malincuore, dovette rinunciare a entrare da subito in guerra accanto alla Germania. Con l’invasione della Polonia da parte della Wehrmacht, il duce fu costretto a proclamare una neutralità di facciata, definita, con un neologismo ad hoc, non belligeranza» (7).
Infatti, tutte le fonti memorialistiche relative al periodo del non intervento, fanno ben capire che: «Una parte degli italiani, i borghesi, ma non solo essi, anche dei fascisti e persino vari gerarchi di primo piano, combattenti valorosi, vecchi squadristi, rifiutavano la prospettiva della guerra». Nel frattempo, la situazione generale socio-economica peggiorava, soprattutto per i prodotti alimentari, proprio quando molti capi di famiglia venivano trattenuti alle armi e la sorveglianza si accentuava contro i «vociferanti» che diffondevano notizie allarmanti. I fautori della propaganda sovversiva imperversavano anche nella Marsica, tra essi furono arrestati e tradotti nel carcere di Regina Coeli: il professore Fernando Amiconi, Francesco Abruzzo, Antonio Capone, Bruno Corbi, Alberto Mancini, Giovanni Ricciardi, Giulio Spallone e Renato Vidimari, in attesa di essere giudicati dalla commissione istruttoria del Tribunale Speciale. I giovani attivisti: «avevano dato luogo ad una attività che non aveva riscontro in nessun’altra regione d’Italia, per il numero dei partecipanti, per l’originalità e la pericolosità del loro operato. L’intesa tra Roma ed il centro della Marsica rivelò ancora tutta la sua reale efficienza. Il resto dell’Abruzzo poteva considerarsi tagliato fuori. L’istruttoria ed il processo rivelarono attraverso espliciti riferimenti di tutti gli imputati, che ebbero un contegno esemplare, come essi avessero ripristinato clandestinamente la loro libertà di pensiero e di stampa pubblicando bollettini di critica antigovernativa e contro il fascismo». Come ribadisce l’avvocato Pietrantonio Palladini: «Tali e tanti avvenimenti, lungi dal flettere l’audacia e la fermezza degli oppositori nella Marsica, determinarono tale apprensione negli stessi uffici della milizia e della polizia da concentrare un eccezionale numero di poliziotti e di spie nella Marsica tutta, ed in Avezzano in specie, che divenne pertanto luogo di confino politico» (8).
NOTE
- A.Pizzuti, cit., pp.69-70.
- R.Colapietra, cit., p. 187.
- R.De Felice, cit., pp.320-321.
- Il Messaggero, Anno 61° – N.70-73, Lunedì 27 Marzo 1939, Giovedì 28 Aprile 1939. Vent’anni di azione rivoluzionaria: un consuntivo gigantesco. La parola d’ordine del fascismo.
- Ivi, Anno 61° – N.110, Mercoledì 10 Maggio 1939. L’alleanza Italo-Tedesca secondo i tecnici militari internazionali.
- Per capire l’intero scenario italiano ed europeo, si vedano le annotazioni dello storico Renzo De Felice (più volte citato), che analizza i colloqui di Ciano a Salisburgo e a Berchtesgaden (11-13 agosto 1939) con von Ribbentrop e Hitler, p.649 sgg.
- F.Filippi, cit., pp.93-94.
- P.Palladini, cit., pp.23-25.