Nel capitolo «Riforma agraria e lotta contadina nella Marsica, 3. La riconversione dell’azienda Torlonia e il problema dell’industrializzazione», lo studioso Mario Miegge afferma che i canoni di affitto erano stati peggiorati nel periodo fascista, in particolare con l’applicazione del Lodo Bottai (10 agosto 1929), poiché, tra l’altro, l’accordo aveva fissato il pagamento dell’estaglio in natura. Nelle pagine successive scrive: «Al momento della riforma fondiaria vi era nella zona fucense una sola fabbrica di notevoli dimensioni produttive: lo zuccherificio di Avezzano (SAZA), già appartenente alla Società Romana Zuccheri e ceduto ai Torlonia (oltre 90% del capitale azionario) nel periodo tra le due guerre mondiali. A partire da allora lo zuccherificio ha rappresentato uno strumento fondamentale del potere dei Torlonia nel Fucino. Con l’applicazione del lodo Bottai, i Torlonia si assicurarono l’estaglio in natura pari al 20% del prodotto lordo vendibile» (1).
Da queste sintetiche annotazioni critiche traspare, chiaramente, come conferma anche lo storico Colapietra, che: «la ruralizzazione è il prezzo sociale di costume che il Fucino deve pagare per inserirsi nel meccanismo economico di supersfruttamento capitalistico posto in essere dal lodo Bottai». Del resto, lo stesso studioso aquilano, dopo aver esaminato con attenzione le analisi fatte a suo tempo da Adriano Pizzuti, rimane convinto che si trattò di una «durissima squadratura di classe, l’assoluta inconciliabilità di posizioni, che il lodo Bottai ribadiva e sanzionava nel Fucino» (2).
Ai fini del nostro discorso è sufficiente riassumere le posizioni di Pizzuti, che ricordava in proposito il fallimento della precedente vertenza alla quale partecipò anche il ministero delle corporazioni: «presso la cui sede si riunirono varie volte i rappresentanti della proprietà, della Confederazione agricoltori, della Confederazione sindacati dell’agricoltura, delle associazioni locali e del Direttore della Cattedra ambulante dell’agricoltura de L’Aquila, come esperto nominato dal Ministero», senza però riuscire a risolvere la complicata situazione. Dopo questa fase, come riferisce ancora lo scrittore: «Le trattative in parola fallirono; riprese nel dicembre 1928, si protrassero fino al marzo dell’anno successivo, ma senza esiti conclusivi e, in conseguenza di ciò, il 17 aprile 1929 la Confederazione agricoltori proponeva di rimettere le decisioni definitive al giudizio arbitrale del Ministero, il quale si pronunciasse con ampi poteri sia in ordine all’ammontare del canone, sia in ordine alle modalità di pagamento, se in danaro oppure in natura. La proposta fu condivisa dalle altre parti e accettata dal Ministero che, nel maggio, inviava al Fucino un proprio funzionario con l’incarico di raccogliere elementi d’informazione e di valutazione» (3).
Infatti, il ministro Bottai, prima di prendere ulteriori decisioni, inviò nel Fucino un proprio funzionario, l’avvocato Francesco Rubino, con il compito di eseguire una rigorosa inchiesta, accertando le condizioni: «nelle quali si svolge presentemente l’agricoltura fucense e le possibilità del suo sviluppo avvenire». Sulla scorta di elementi raccolti successivamente, il Ministero delle Corporazioni emise un lodo arbitrale per la vertenza tra l’amministrazione Torlonia e gli affittuari del Fucino: «riguardo all’ammontare del canone d’affitto da corrispondersi per il biennio 1929-1930». Era ben noto che i principi romani avevano richiesto per due anni un aumento del 50% sugli affitti, mentre gli agricoltori, attraverso le organizzazioni sindacali fasciste, ne chiedevano invece una riduzione. Per questo fu difficile stabilire il pagamento di un equo canone di affitto, anche se i criteri dovevano essere applicati con rigore: «poiché trattandosi di ben 15 mila locazioni individuali, non era possibile accertare la produzione media di ogni singolo appezzamento e, d’altro canto, essendo diviso il latifondo in diverse categorie a seconda della qualità dei terreni, era evidente la necessità di stabilire un canone unico per ciascuna categoria» (4). Pertanto, occorreva stabilire una produzione media generale a titolo di locazione a favore di Torlonia, ma anche tener conto di una percentuale che fosse tollerabile per i piccoli fittavoli. Tutto questo per non favorire chi, avendo mezzi più appropriati, poteva coltivare razionalmente i propri fondi, ricavandone una maggiore produzione. Tra l’altro, venne accertato che l’eccessivo frazionamento del latifondo, non poteva imputarsi agli attuali proprietari: «essendo stato determinato dalle illegali, inconsulte e scomposte invasioni di terreni, avvenute all’epoca della maggior follia rossa, dal 1919 al 1921. Fu da quell’epoca che la grande e la media azienda furono definitivamente distrutte e le locazioni individuali salirono man mano, sino a divenire attualmente ben 15 mila, con 9850 affittuari su 11.109,11 ettari. Si formò quindi uno stato di cose, da cui derivò che molti affittuari attualmente possiedono due o più appezzamenti in due diverse località del latifondo, con evidente aggravio delle spese colturali, e che ciascuna quota affittata non supera, in media, l’estensione di un ettaro. Pochi sono gli affittuari che possiedono più di 4 ettari ciascuno o da 2 a 4 ettari; i più non possiedono più di mezzo ettaro e 2476 meno ancora di tal estensione. La maggior parte di questi piccoli affittuari sono braccianti e nullatenenti, privi di animali propri, per tale modo non concimano e non coltivano convenientemente le proprie terre, dalle quali ritraggono una quantità di prodotti non proporzionata alla loro fertilità».
In considerazione di queste gravi problematiche, il lodo arbitrale decise di stabilire un canone unico per ciascuna categoria di terreni, riducendo la percentuale a favore della proprietà al 20%. Un altro importante punto stabilito dal Ministero riguardò il pagamento del canone in natura: «e precisamente in bietole e non in altre derrate (grano, legumi, patate), alle quali l’agricoltore, che se ne serve per il consumo diretto, malvolentieri rinunzierebbe. Con la corrisposta in natura, si consegue il vantaggio di sottrarre l’agricoltore alle oscillazioni dei prezzi delle derrate e di assicurare la materia prima al locale Zuccherificio, che è pur degno di considerazione, dando esso lavoro a più di 1500 operai». Infine, l’accordo prevedeva alcune importanti linee direttive per una soluzione integrale del problema: riunire in un’unica parcella le varie quote del terreno di uno stesso affittuario; eliminare i locatari non agricoltori; rimuovere quelli piccoli; consentire e agevolare invece gli attuali affittuari che possedevano una buona estensione di terreni, permettendo la costruzione di baracche o ricoveri provvisori per animali e persone; promuovere nuova bonifica del Fucino con la costruzione di un secondo emissario, allo scopo di rendere asciutti alcuni appezzamenti soggetti ad allagamenti (5).
Di fronte a questo complesso e contraddittorio groviglio di norme, d’interessi, di nuove speranze e di stati d’animo negativi che caratterizzava la situazione dei coloni fucensi, le corporazioni sindacali fasciste espressero comunque la loro soddisfazione, convinte di aver evitato per sempre le «follie sovversive» in quanto: «L’interesse collettivo di migliaia e migliaia di piccoli affittuari doveva trovare appunto in Regime fascista, nella nuova atmosfera corporativa, la sua soddisfacente sistemazione». D’altronde «Guardare in alto, e cioè al superiore benessere della Patria è il dovere che le organizzazioni hanno lodevolmente assolto e che trova nel lodo Bottai la sua pratica consacrazione». Questi nuovi propositi, a detta del corrispondente che si occupò dell’inchiesta, intendevano spezzare la catena degli interessi elettorali e di «camarille, che in altri tempi, avevano sottratto agli agricoltori autentici vaste plaghe di fertilissimo terreno, a beneficio di astuti profittatori». Oltremodo: «Una nuova grande opera del Regime attesterà nella terra marsicana la fiorente rinascita economica» (6).
Tuttavia, senza negare alcune migliorie sottoscritte nelle clausole dell’accordo, permanevano nel latifondo fucense, come ben affermò Pizzuti: «le tipiche lacune del sistema e relative esigenze, ma non può non sorprendere l’evidente superficialità rilevabile negli accenni postulati e, conseguentemente, anche l’insufficienza dell’indagine espletata che ha pure trascurato di prendere in esame non pochi aspetti del problema considerato […] Inoltre appare logica in via generale la ricerca di altre zone che accolgano l’esuberanza di braccia fucensi, ma è anche da rilevare che i 6.000 ettari dei Piani Palentini su cui si proponeva di far affluire l’eccedente mano d’opera fucense, già allora risultavano occupati da almeno 3.000 lavoratori (ivi comprendendo anche mezzadri, affittuari e braccianti oltre ai piccoli proprietari), e quindi non si conciliano tra loro le formule di soluzioni indicate se si affermava che le locazioni individuali, di fatto, erano 15.000 nel Fucino, che gli affittuari non agricoltori da eliminare non sono molti, che i più (fra i quindicimila) non possiedono più di mezzo ettaro e 2.746 fittavoli meno ancora di tal estensione» (7).
NOTE
- Quaderni Rossi 6, Periodico quadrimestrale, maggio-dicembre 1965, M. Miegge, Riforma agraria e lotta contadina nella Marsica, La Nuova Italia, Tip. Giuntina, Firenze 1965, pp.153-164. Cfr. G.Dondi (già presidente dell’Ente per la valorizzazione del Fucino), La riforma del Fucino, a c. della rivista «Agricoltura» edita dall’Istituto di Tecnica e di Propaganda Agraria, Società Grafica Romana, Roma, agosto 1960.
- R.Colapietra, Fucino Ieri, 1878-1951, Ente Fucino, Stabilimento roto-litografico «Abruzzo-Press», L’Aquila ottobre 1998, pp.164-165.
- A.Pizzuti, Le affittanze agrarie nel Fucino prima della riforma fondiaria, in «I Quaderni della Maremma» I Serie, Documenti, Avezzano 1953, Stabilimento A.Staderini, Roma, pp.45-46.
- Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Anno VII – Roma, 3 Ottobre 1929, La questione fucense affrontata in pieno nel lodo arbitrale del Ministero delle Corporazioni.
- Ibidem.
- Ivi, Il Giornale d’Abruzzo e Molise, Anno VII – Roma, 6 Ottobre 1929, Dopo il Lodo Bottai. L’agricoltura fucense e i suoi sviluppi. Occorre segnalare che da questo numero cambiò il nome della testata fascista, chiamandosi Il Giornale al posto de Il Risorgimento, con il sottotitolo in grassetto «Terra proles, valida gens».
- A.Pizzuti, op. cit., pp.48-49.