(Parte prima)
Dopo accaniti dibattiti al Senato della Repubblica, dove il gruppo dei «social comunisti si opposero al pagamento del prezzo di esproprio e senza discriminazione condannò tutte le proprietà terriere come usurpate o ereditate per nepotismo», alcuni parlamentari intervennero a favore dei senatori Menghi, Sacco e Pezzini. L’intervento di Giuseppe Medici dimostrò che pure la Democrazia Cristiana non era insensibile alle ragioni del movimento contadino; mentre, il suo collega Umberto Merlin, indicò sostanzialmente due estremi egualmente rispettosi della più alta giustizia sociale: «da una parte l’esproprio anche totale contro i proprietari assenteisti, dall’altra il rispetto anche totale verso i proprietari veramente benemeriti». Tuttavia, le sue proposte, pur appoggiando quelle di Antonio Segni (allora ministro dell’Agricoltura e delle Foreste), si scontrarono con gli altri pareri discordi delle opposizioni (correnti conservatrici), già messe in allarme dalla presentazione di questo nuovo disegno di legge (relatori della minoranza Rivera e Grifone).
L’aquilano Vincenzo Rivera con un intervento oculato contrastò l’onorevole Pietro Germani, richiamando la sua relazione come fosse stilata quasi in «punta di forchetta». In sostanza, egli affermò: «la politica non può estraniarsi dalla realtà, dalle vicende dell’uomo e delle cose […] Per questo noi, prima di varare una legge, dobbiamo riflettere, ragionare, fare della logica, se sappiamo farlo […] Noi vogliamo che sia fatta una riforma agraria reale. Io voglio una riforma che dia effettivamente la terra ai contadini (Interruzioni al centro), poiché quando noi avremo diviso il latifondo e avremo dato 20 ettari a ogni contadino, e questi, dopo qualche anno di coltura sventurata, abbandonerà la terra tanto desiderata, allora arriverà lo speculatore, il quale si guadagnerà quella terra per pochi soldi, ed il latifondo, come sempre in passato, regolarmente si riformerà». In realtà, Rivera, intendeva «curare ormai le cause della malattia e non i sintomi». Così, al momento, per i braccianti del Fucino ci fu solo una parziale giustizia, anche se, in altre sedi, il deciso ricorso presentato da Torlonia fu respinto per motivi d’illegittimità. Di conseguenza (17 giugno 1950), il principe romano notificò al prefetto dell’Aquila: «una dichiarazione con la quale informa che a datare dal 18 corrente saranno sospesi i lavori previsti dal decreto prefettizio del 26 aprile scorso, che stabiliva il massimo imponibile di mano d’opera nel Fucino dal maggio all’ottobre di quest’anno, cioè l’utilizzo di 250 mila giornate lavorative». Di fatto, Torlonia sostenne che i lavori da compiere in applicazione dell’imponibile sarebbero stati inutili e improduttivi. A queste ragioni se ne aggiunsero alcune di carattere giuridico e altre non meno importanti, soprattutto per le condizioni di arretratezza in cui i Torlonia (indignati), avevano ormai abbandonato il Fucino lasciandosi dietro ben cinquemila disoccupati. L’opposizione tra le due fazioni, permise alla segreteria della CGIL di incoraggiare ancora una volta le organizzazioni sindacali e tutti i lavoratori del Fucino per: «continuare i lavori fino all’utilizzo integrale delle 250mila giornate fissate dai decreti, non tenendo alcun conto di eventuali decisioni in contrario dell’amministrazione Torlonia sulla quale ricadrebbe le responsabilità di tutti gli inconvenienti che potrebbero derivare da un suo atteggiamento arbitrario e illegale» (1).
In seguito la commissione centrale, però, con i voti del ministro Marazza e della Democrazia Cristiana, ridusse a 180.000 le 250.000 giornate lavorative previste dal secondo decreto prefettizio. Poi, la stessa rappresentanza, composta dall’ispettore generale del Ministero dell’Agricoltura Gennari, da Tucci (direttore generale del Ministero del Lavoro), dal comunista Fazio (Confederterra nazionale), da Modoni della CGIL, da Di Palma (della Confida), da Lusignoli (della federazione Coltivatori Diretti), prese in esame il secondo ricorso di Torlonia pur respingendolo. In una grande assemblea svoltasi ad Avezzano, alla presenza dei dirigenti della federazione braccianti e della CISL, fu riconfermata l’unità d’azione fra tutti i braccianti della Marsica contro l’illegalità di Torlonia. Ancor più chiaro divenne il danno subito da migliaia di braccianti che, con la riduzione delle ore, avevano «regalato a Torlonia altri 33 milioni» (2).
Purtroppo, in questi convulsi frangenti, la commissione provinciale dei Contributi Unificati accolse un ricorso del principe: «Un altro grande favore è stato fatto dagli organismi governativi al principe latifondista Torlonia, dopo la riduzione delle giornate lavorative previste dal decreto prefettizio di imponibile: si tratta questa volta di un provvedimento che provocherà un danno finanziario a decine di migliaia di braccianti del Fucino […] Tale ricorso è stato accolto sulla base del parere dell’ispettorato provinciale dell’Agricoltura e dal Capo dell’Ufficio Tecnico Erariale, in opposizione dei rappresentanti dei lavoratori federazione Coltivatori Diretti».
Altre precisazioni dell’Avanti! diffusero notizie giornaliere sugli sviluppi dell’intricata questione: «Il Fucino non aveva mai visto tanto fervore di opere: centinaia di carrette che trasportavano la breccia per sistemare le strade, centinaia di donne che portavano acqua e viveri ai braccianti intenti a lavorare. Tutti, nel Fucino, sono solidali con i braccianti: artigiani, commercianti, popolazioni intere che, oltre a dare il loro consenso, contribuiscono concretamente al successo della lotta intrapresa. Dappertutto vengono effettuate sottoscrizioni e offerte di viveri e indumenti. Sui muri dei paesi della Marsica figurano scritte incitanti alla solidarietà con i braccianti e la parola d’ordine – Non vogliamo la polizia sui campi. Questa mattina il compagno Negri, vice segretario della Confederterra, Corbi e Amiconi hanno visitato i vari paesi del Fucino accolti ovunque dall’entusiasmo generale […] Cerchio, Venere, Collarmele e Aielli scenderanno in lotta domani mattina […] L’entusiasmo di questo primo giorno di lotta è sicura garanzia del successo finale che arriderà immancabilmente ai braccianti della Marsica anche se si son messi contro i Torlonia» (3).
Mario Potenza scrisse: «È ormai noto a tutti che anche l’applicazione delle legge stralcio e i primi provvedimenti che ne sono conseguiti di cessione di terre ai contadini sono frutto delle lotte. Le stesse agitazioni contadine che oggi fanno fremere di sacro sdegno gli agrari e giornali della Democrazia Cristiana [… ] Certo è che oggi noi non avremmo senza queste agitazioni contadine neppure la più lontana discussione di una riforma di patti agrari e di una applicazione di una legge qualsiasi per la concessione delle terre» (4).
NOTE
- Atti Parlamentari, 19585, Senato della Repubblica, Discussioni, Giovedì 5 ottobre 1950, DIV, Seduta, Presidenza del Vice Presidente Zoli, Disegno di legge: Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini. Atti Parlamentari, 21425, Camera dei Deputati, Discussioni, DXLII, Seduta pomeridiana di lunedì 24 luglio 1950. Avanti! Organo del partito Socialista Italiano, Anno LIV – Nuova serie – Sabato 17 giugno 1950. Contro gli impegni da lui stesso sottoscritti. Il principe Torlonia fuori della legge. I lavori nel Fucino, previsti dal decreto prefettizio, sospesi dal nobile romano.
- Avanti!, Anno LIV – Nuova serie – N.211, Mercoledì 6 settembre 1950, p.4.
- Ivi, Anno LIV – Nuova serie – N.230, Giovedì 28 settembre 1950, p.8.
- Avanti! Anno LV – Nuova serie – N.31, Mercoledì 7 febbraio 1951.
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