C’è stato un tempo in cui i pastori d’Abruzzo erano tanti, ed insieme agli agricoltori erano la forza economica di questa terra. Con il giungere del mese di Novembre e dei primi freddi, lasciavano la loro amata terra per incamminarsi lungo i tratturi, una strada erbosa che arrivava in Puglia. Grandi greggi di pecore e capre, guidati dai pastori e dai cani di guardia, si spostavano lentamente verso lidi più caldi.
Sostavano lungo le rive del Pescara, i pastori e le greggi, rinchiusi in recinti provvisori, nel silenzio delle vallate verdi e rigogliose, brucando placidamente sotto il cielo azzurro.
All’arrivo di Giugno, le greggi ripartivano, dirette ai pascoli di montagna, ripercorrendo a ritroso la via di casa. Dopo mesi lontano dalla famiglia, il ritorno dei pastori al loro focolare era felice ma laborioso. Quando le cure del gregge davano tregua, essi lavoravano il legno per produrre oggetti di cucina e non c’era casa che non aveva un fuso che filava.
I pastori scendevano dai pascoli montani ogni quindici giorni, per tre giorni, anche se c’era un matrimonio, una nascita o un funerale. Non avevano tempo da dedicare ad altri se non al proprio gregge. La vita del pastore iniziava in giovane età. I piccoli uomini imparavano alla scuola dell’esperienza, non a leggere, non a scrivere ma ad accudire ed a curare il gregge, a riconoscere le erbe medicamentose e l’arte del mestiere antico.
Era una vita dura ma piena di soddisfazione, che rendeva liberi nello spirito e nel corpo. Una vita fatta di lunghi silenzi, di spazi e cieli stellati, con solo tre cose importanti: la casa, la chiesa, il cimitero, ma senza languori o nostalgie, care come sono le cose lontane da noi e dentro di noi. Quel tempo oramai è remoto, dei pastori rimangono echi lontani di un passato ricco di semplicità.